viernes, diciembre 22, 2006


Stamattina sono tornato indietro di dieci anni. Sono passato a salutare un mio ex prof. d'inglese nel mio vecchio liceo. I volti sono leggermente invecchiati (sono passati 10 anni, ormai, o forse di più?) mentre gli alunni sono sempre giovani. Una delle tristezze del lavoro di docente: tu invecchi, loro cambiano, crescono e poi ne arrivano di nuovi. Facce che non hai mai visto. E che impari a conoscere nell'arco dei 5 anni del corso di studio. Poi addio e chissà che fine faranno, a quale facoltà si iscriveranno, quante delusioni, quali fidanzati, quante città da scoprire prima di tornare a casa dai genitori.
Un'altra scenetta malinconica: il momento della fine della lezione. Tu hai passato 1h e 30 min. a sgolarti per cercare di farti capire, di spiegare ai tuoi alunni concetti magari difficili, cercando di alleggerire il peso della lezione con l'introduzione non sempre pertinente di qualche aneddoto personale o barzelletta (devo stare attento ai commenti politici, qualcuno potrebbe anche arrabbiarsi, potrebbero accusarmi di traviare le menti dei giovani), e loro scappano, hanno una voglia matta di tornare ai loro affari privati, tornare a casa, via, lontano dal prof. e da questa maledetta scuola, arrivederci prof., buone vacanze anche a lei, che poi il "lei" invecchia, ti fa sentire molto più anziano, loro corrono felici incontro ai divertimenti e alle allegre chiacchierate da corridoio con gli amici e tu sei là, che raccogli i tuoi appunti a testa bassa, l'aula si è svuotata, sui banchi imbrattati di scritte - per te ormai troppo ermetiche perchè legate a un'attualità a cui non stai sempre dietro - giacciono due penne con il cappuccio mordicchiato e alcuni fogli accartocciati e te ne torni sù, in sala riviste, a finire di leggere un articolo sulla linguistica trasformazionista, o trasformazionale, o germinale, o come diavolo si dice, e ti senti terribilmente solo. Solo e vecchio.
Il prof. d'inglese mi avverte: hai voglia ancora a imparare! Ridiamo e scherziamo, ci fumiamo una sigaretta sulla scala antincendio. Siamo al terzo piano. Da lassù si vedono le cime delle montagne vicine. Fa un freddo che sferza il viso. Un freddo polare. Torniamo dentro va. E' l'ora della ricreazione. Le alunne, semi-adolescenti, lolite nabokoviane vestite come le veline, saltano e urlano canti natalizi. O meglio: cori da stadio. Il prof. si fa sentire, alza la voce, scappano tutte in classe, ridendo senza paura della nota sul registro o della predica imminente. Che razza di mestiere. Fate silenzio. Chi ve l'ha detto che oggi si esce dieci minuti prima? E' il preside, di sicuro. Quel fascista..., mi sussurra all'orecchio. E' sempre lui? Sì, e chi lo smuove?
P.S.: un'altra canzone per quando si è tristi: Fidelity, di Regina Spektor, perfetta anche per il Natale.

martes, diciembre 12, 2006

Volantini

Mi accorgo che è da quasi un mese che non metto piede (o mouse, per meglio dire) in queste carte virtuali (o blog, che dir vogliasi, con "anglicismo" tipico di questi nostri giorni post-2001). Cos'è cambiato nel mentre? Niente e tutto. Come sempre.

Oggi, passeggiando senza prescia con un mio collega di Anglistica (specializzatosi su Shakespeare), un tizio coi rasta e i piercing mi si avvicina e, con fare truffaldino o furbesco, mi regala un volantino (fa pure rima): sopra c'è scritto (cito a memoria): "Minacciano di aumentare il prezzo del pasto mensa! VUOI ANCHE TU CHE CI CAMBINO LE TARIFFE E CHE CI OBBLIGHINO A PAGARE 2,50 EURO A PASTO? Scendi in campo. Blocchiamoli! 40 centesimi sembrano niente, ma MOLTIPLICALI PER 55MILA e guarda il risultato! Dobbiamo fermarli!".
Io e il mio collega leggiamo e poi buttiamo via (in un contenitore, siamo civili). Poi parte la musica ska: gruppi di ragazze che ballano mentre 55mila studenti di tutte le regioni d'Italia e delle più svariate facoltà o corsi di laurea si avviano a consumare il loro pasto quotidiano...

L'altro giorno aspetto Alyssa appoggiato a una macchina parcheggiata in doppia fila davanti alla stazione (di Santa Mery Novella). Una donna, argentina a giudicare dall'accento e dall'aspetto, mi si avvicina e con fare misterioso mi fa strisciare sul palmo della mano un altro volantino. Cito verbatim: "LE GRIDA DEL PECCATO. Oggi in tutto il mondo si sentono urla di dolore di parto [forse troppe "di"]: è il peccato [perbacco, penso! Esclamo nuovamente: perbacco! E' proprio il peccato] che ha cominciato a dare i primi frutti [è curioso: il peccato che dà i suoi frutti: potrebbe essere, in effetti, a giudicare il tutto dal punto di vista del Demonio, la concorrenza]: l'invidia, la paura, la corruzione, la violenza, la malignità che si incontrano nella ostra società [sic: manca la "n" di "nostra"]: E' TERRIBILE! [teribbile, direbbe un mio amico di Roma; quanti esclamativi] L'umanità non sa cosa fare della sua vita, quanta disgrazia e maledizione [disgrazia e maledizione, sullo stesso piano, è curioso, anche se non contravviene alla logica, il campo semantico è lo stesso, no?] abbiamo ereditato nel vivere lontani da DIO [quante maiuscole!]. Quanto ciò ci ha trascinato nella povertà, nella malattia, peste, terremoti, febbri, piaghe, (AIDS) [perchè, mi chiedo, questa malattia l'hanno scritta tra parentesi?], suicidi, omicidi e ha dato alla luce il peccato, i vizi dell'alcolismo [ma siamo a Firenze, nel 2006, o a Chicago, negli anni 30?], il lesbianismo [ma non si diceva: "lesbismo"?], l'omosessualità [ma c'è davvero ancora oggi gente che pensa che l'omosessualità sia una malattia? DIO! Esclamo (io, stavolta)], la prostituzione, l'aborto, la pedofilia; tutto questo rappresenta la maledizione che è caduta su di noi e sulle nostre generazioni [mi aspettavo un: "sulle nostre famiglie", peccato], sui nostri figli [ah, c'è!] e sui nostri nipoti [nipoti?]. Ciò perchè [ecco: perchè? why? pourquoi?] non abbiamo ascoltato la voce di DIO [sempre in maiuscolo, LUI] attraverso la forza del Vangelo di salvezza che ci ha offerto DIO [di nuovo] attraverso GESUCRISTO.
La bibbia [questa invece appare senza nemmeno l'iniziale maiuscola] dice: Poichè molti verrano sotto il mio nome, dicendo: io sono il Cristo, e ne sedurranno molti [sì, d'accordo: ma chi? Chi è il soggetto qui?] questo evangelo [vangelo, tipico errore ortografico da "hispanohablante"] del Regno, sarà predicato per tutto il mondo [all over the world], onde ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora [conclusione a effetto] verrà la FINE. Matt. 24:5-14."
Penso: ma chi si è preso la briga di fare stampare roba simile su carta di qualità colorata (un verdino speranza: ma, dopo aver letto il testo, sarebbe meglio disperare e buttarsi in Arno). Lo scopro in fondo, a caratteri minuscoli, lì dove si legge: "Chiesa Cristiana Evangelica Pentecostale". C'è l'indirizzo e il numero di telefono: prendo nota, onde evitare di passarci vicino anche a chilometri di distanza. C'è anche il numero fisso: "Abitazione: ... [censuro il numero volutamente, onde evitare guai - che si formi qualche adepto]. E poi la frasetta di chiusa davvero finale: "Ti aspettiamo. Cristo ti ama".

Una settimana prima mi avevano rilasciato il volantino pubblicitario di una associazione antivivisezionista (sono contro le torture agli animali, per carità), uno di un gruppo bancario che ti presta fino a 10mila euro senza interessi e a tasso zero, uno di non ricordo quale oscuro partito politico locale.

Mi domando che senso abbia. C'è internet. Chi vuole s'informa. Sono ancora efficaci le pubblicità su volantino? Evidentemente sì. E forse sono forme pubblicitarie anche più economiche delle altre. Poi, basta accendere la tv per notare le storture: un malato terminale desidera morire e chiede di poter esercitare il suo diritto all'eutanasia. E giustamente, subito dopo, parte il servizio dal Vaticano. Il papa si lamenta e dice che la pace si conquista se combattiamo le forme di aberrazione contro la vita come l'aborto e [last, but not least] l'eutanasia...

Bah.

miércoles, noviembre 29, 2006

Tornare a casa è sempre un po' come morire (o era viaggiare?). Entro in un'aula universitaria (diciamola tutta: della mia Università d'adozione, a Pisa, anche se quella cui sono più legato è ancora lei, "La Sapienza", in Rome, of course). Come affrontarli? Sono 11 o forse 12. Tutte donne, tranne uno, che sembra drogato. Oppure ha sonno. Ho preso tre caffè da quando mi son svegliato e sono nervoso. Una corda in tensione. Se mi toccano schizzo. Dispongo i fogli degli appunti sulla cattedra, la voce tremante. Nemmeno mi presento. Parto in tromba, come si suol dire. E mo che cazzo m'invento? Sono appena tornato dal Puerto (de Santa Maria) e non ho avuto il tempo per prepararmi la prima lezione del corso (su "lexicologia", una lista fredda e noiosa di nomi, che qualcuno m'aiuti a non ammorbare il rispettabile - pubblico). Che dico? Con cosa parto? Dal latino? Bene, partiamo dagli antichi Romani. Quando entrarano nella antica Hispania gli antichi romani? Cazzo me ne frega? Cazzo ne so? Una mia amica che insegna da un paio di mesi alle medie mi spiega: "Dai, la prima volta fa sempre paura, quelle facce che ti guardano così, strane, che vorresti sapere cosa gli passa per la testa, cosa pensano di te?". Cosa pensate di me? Cosa ne pensate, di questo prof. in potentia con giacca e senza cravatta, camicia sportiva, taglio corto, che passeggia consumando le suole delle scarpe e il pavimento davanti alla cattedra, mentre espone quattro concetti messi in croce con l'aiuto di un proiettore e di 18 dico 18 lucidi? L'unico a non essere lucido qui dentro sono io. Il tipo drogato si addormenta. Non ci posso credere, ma mi volto e lo fisso e guarda il vuoto, ha gli occhi socchiusi, chissà a cosa pensa o cosa sta sognando mentre io in questo momento ammorbo l'aria con una lista incomprensibile di elementi preromani o latini o arabeggianti o francesi che hanno influenzato (e continuano a influenzare) la lingua della Penisola Iberica... Che penseranno? Ho consultato mio fratello per telefono: "che ti sei calato o impasticcato, ecco che penseranno. Domani per favore prenditi una camomilla o un calmante, o fatti una canna, vedrai che parli più lentamente". La mia voce è una mitraglia, davanti agli occhi sbarrate di quelle poche studentesse attente sfilano sfilze di parole e di etimologie. "Cosa vuol dire o come tradurreste dean? C'è anche in Inglese... pensate anche al congnome del famoso attore americano, James Dean. Che vuol dire?". SILENZIO MARZIANO. "Beh, ve lo dico io: vuol dire diacono. Voi lo sapete no, chi è il diacono, vero?". SILENZIO STELLARE. IL VUOTO. IL NULLA. "Beh", provo ad aggiungere: "il diacono è... è... vi do un compito per domani: cercatelo sul dizionario d'italiano, la lessicologia serve anche a questo: ad aumentare la nostra conoscenza della lingua e a prendere coscienza del significato di nuovi termini". Due in fonde sghignazzano. Devo segnarmi i nomi o memorizzare le faccie. Così poi rido io. Ma non sono un tipo vendicativo. Finisco la lezione 10 min. prima. Devo ancora imparare a fare i conti col tempo (gran bell'enigma, che m'appassiona e m'angoscia, come sa anche Rosy dai tempi di Madrid). Ascolto una canzone di Shakira: Te dejo Madrid. Un consiglio musicale. E un altro, sempre musicale, per chi è depresso: Lily Allen, con la simpatica e romantica LDN (ha una faccia che se non Woody Allen ricorda Mia Farrow nei suoi momenti migliori, quando ci appare in tutta la sua impacciata femminilità - adoro le donne un po' impacciate, che inciampano, che hanno paura di fare una gaffe, che ti guardano con gli occhi dolci...)

jueves, noviembre 16, 2006



Perché non ce ne andiamo?

Quante volte mi sono posto (e ho posto a Alyssa) questa domanda? Perché non ce ne andiamo, e ci lasciamo dietro le spalle tutto quanto, gli impegni, il lavoro, i doveri (ah! quanti doveri! quanti compiti - per casa, ma soprattutto, per lo spazio che oltrapassa il nostro uscio), sbarazzarsi dei freni mentali, morali, psichici, quante pippe mentali inutili, sia detto tra parentesi e per inciso, en passant. Gabriel, un mio amico anconetano, mi scrive in un email da Praga che lí si sta da dio, ci vive da due anni ormai, quante bionde il fine settimana (bionde sia le birre - che, come tutti sanno, a Praga costano meno che da noi e te ne servono in quantità nettamente superiori alle nostre - sia le ragazze, che non si pagano, ma mi vengono dei dubbi: di quali bionde stavamo parlavando?). Un'altra mia cara amica mi dice che si iscriverà presto a un corso di dizione a Torino (lei ci vive vicino); l’ho presa un po’ in giro, non mi sembra abbia una cattiva dizione, ma abbiamo tutti da imparare nella vita (impostare la voce, assumere una determinata postura del corpo quando leggiamo in pubblico, attività che non ignoro e che mi ha sempre regalato attimi d’adrenalina pura). Un'altra (una delle mie migliori amiche, solare e allegra) è scappata a Milano per un colloquio (o una serie di colloqui) di lavoro, forse ha trovato qualcosa, una soluzione per sopravvivere e portare a casa la pagnotta, come si diceva ai tempi di mio nonno. Tra poco parto per Roma, poi un nuovo viaggio nel mio paese d'adozione: da Madrid a Jerez de la Frontera, e da qui a Puerto de Santa María (mi vengono in mente, a sentire un nome simile, per un paesetto sul mare, a pochi chilometri di distanza, in linea d'aria, dal Marocco, le tre caravelle di Colombo, la Nina - o era la Niña, con grafia spagnola? - la Pinta e la Santa María, appunto). E lascio una scrivania in condizioni pietose. Che mal di testa! Ma quanto durerà ancora? Intanto, finisco di fare la valigia (tanto, tra poche ore, stasera, dopo cena, la disfo di nuovo, mi disfo a disfare valigie, ultimamente) e penso a mio fratello che vorrebbe imparare inglese in Australia (Sidney) e spagnolo a Valencia (o a Madrid o a Barcelona). Un suo amico ci va davvero (a Sidney) almeno per un anno. Mentre mia madre mi aspetta con ansia, co sti treni, co sti aerei, stai attento, mi raccomando, come se uno avesse più chances, quando si può morire anche stando fermi e chiusi a chiave nella propria stanza. Percorro stanze. Attraverso spazi. Imparo a leggere in bilico sulle rotaie dei treni. Consumo il mio tempo percorrendo chilometri di strade (e di pagine). E mi prendo un'aulin o un mesulid o un artifex o un furadantin o un eptomol o come diavolo si chiama, purché il mal di testa scompaia, santoddio e cristosanto...

martes, noviembre 07, 2006

Non so come spiegarlo. Eppure devo (l'ho già raccontato a qualcuno, stamattina: a più d'un amico, che ha avuto la pazienza di ascoltarmi, a volte anche di consolarmi con una "interpretazione freudiana", ma sono scettico... rifuggo da Freud, pazienza...). Ero in una specie di camping. Apparentemente da solo. Fino a quando non intravedo in un bungalow o una delle molte roulottes una mia vecchia conoscenza. Sembra la mia ex. Forse è la mia ex. Si avvicina, salutandomi con gentilezza. Vengo colto da un'irresistibile voglia di assalirla (o di farci l'amore). Di fatto, è già notte, lei esce inventandosi una scusa all'ultimo minuto (il marito - ha la barba e i capelli arruffati, mi somiglia vagamente, visto così, da lontano, da dietro un albero - sembra abboccare). Ci ritroviamo avvinghiati in una specie di garage. Entra un tizio bruttissimo, ciccione e antipatico: "Ti ho vista, sai: so che sei sposata; se non scopi anche con me vado da tuo marito e gli dico tutto". Lei resta di sasso. E' nuda e prova almeno a coprirsi il seno con le mani. Ho la nausea. Il tipo odioso scoppia a ridere. Si immischia senza il nostro assenso, lei ha l'espressione preoccupata, come di chi è colta con le mani nel sacco. Basta che mi volti per vedere il corpo di lei fatto a pezzi, i pezzi (gambe, braccia, tronco, testa) adagiati in una pozza di sangue. A questo punto mi ritrovo a casa mia. La casa è circondata da fotografi, reporter, giornalisti, opinionisti. Mio fratello prova a prendere le mie difese: "Credono tu sia il serial-killer. Vogliono incastrarti". Non so che fare. "Non ti preoccupare, proverò a sviare le indagini". Vorrei correre, fuggire dai riflettori, allontanarmi dal ricordo di quella pozza di sangue. Mi sveglio di soprassalto. Non capisco. Che vuol dire?

miércoles, noviembre 01, 2006


Potrei anche sparire. Non solo
da questo paesaggio, o da questo "blog". Anche dal resto. D'altronde, come dice il protagonista di Caos calmo (uno dei romanzi più interessanti che ho letto ultimamente, e uno dei più belli, sebbene "imperfetti", di Sandro Veronesi) "siamo solo incidenti in attesa di capitare". Capita, si dice generalmente, dopo, quando è già capitato... Un passero solitario potrebbe poggiarsi su quel parapetto per contemplare lo scorrere (sempre lento) dell'Arno. Oppure potrebbe prendersi una sosta prima di ripartire insieme ai colleghi volatili. Destinazione: Cuba. Per un attimo mi vedo a La Habana, in panciolle, come si suol dire (che poi, cosa diamine vorrà mai dire "panciolle"?). Una bella cubana balla salsa in compagnia di un ragazzo che potrebbe essere il suo ragazzo ma non lo è. Perchè la chiama "hermana" e, fino a prova contraria, in spagnolo "hermana" vuol dire "sorella". Vedo sorella e fratello che ballano salsa in riva al mare o lungomare e tra le macchine d'epoca. Poi mi giro e c'è Alyssa che dorme un sonno profondo. Chissà se ha gli incubi, ha fatto una faccia strana. Tra poco è mattina. Mi avvicinerò senza fare il minimo rumore (come l'acqua dell'Arno, lenta e silenziosa). Le darò un bacio lieve sulla fronte. Se si sveglia le chiederò scusa e mi farò piccolo. In un letto così stretto non ci si sta. Facciamo sacrifici da una vita. La vita è piena di rinuncie e di sacrifici. Dicono. Poi capita che il fiume sbocchi al mare. E tutto finisce. Oppure mi sbaglio. E quei due matti non smettono di ballare salsa, fino all'alba. Non so perchè e cosa scrivo. Ma concordo con quello che pensa il protagonista del romanzo. E intanto aspetto.

martes, octubre 24, 2006

La sala del teatro è ancora vuota, ma in prima fila c’è lui, il prof. Jens von Prelzer, che mi guarda e gli si illumina il viso, da quanto tempo che non ci vediamo, come sta, professore, per me è sempre un piacere rivederla, una stretta di mano, un sorriso sincero, dopo ben quattro mesi di assenza, era tanto che non passavo dall’Università, è molto bello e nuovo questo teatro, vero? Accanto al prof., un’altra docente, di Palermo, che mi osserva e sembra riconoscermi, ma non ricorda (i primi segni dell’Alzheimer?). Poi il rito ha inizio: ringraziamenti, al Dipartimento che ha permesso questo congresso, al Direttore del Dipartimento, al Direttore della Facoltà, al Rettore stesso dell’Università. Riconosco qualche volto, invecchiato, per forza di cose, nel corso degli anni. Stringo la mano a ricercatori (quasi tutti filologi romanzi) che vivono nel limbo e nell’incertezza (prima di poter occupare stabilmente una cattedra). Sorrido anch’io all’ipocrisia mostrata da tanti squali ormai ordinari (in spagnolo “ordinario” vuol dire anche “sporco”, “sporcaccione” o “vile”). Questa è la vita, mentre beviamo un caffè molto forte in bicchierini di plastica e senza zucchero, tra assistenti e assegnisti o semplici dottorandi, assaggiamo dei mini-croissant alla crema o al cioccolato. Si parla di Don Quijote, povero idalgo, chissà quante maledizioni avrà mandato Cervantes a tutti questi specialisti che si ingegnano nello smontare un’opera immortale con le lenti della critica letteraria, l’anno scorso correva il quarto centenario, ma non se ne ha mai abbastanza, povero scrittore, morto e sepolto, creatore di un mito che resiste (mi offrono la fotocopia di una poesia che Edoardo Sanguineti ha faxato a uno dei responsabili del convegno, una poesia che parla di Don Quijote, appunto, e che risale al 1949 – “io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra”, la conservo con cura, è davvero bella, un regalo inaspettato durante queste giornate semi-autunnali di grigiore accademico). Risaluto tutti, von Prelzer per primo. Poi alcuni colleghi di Perugia, uno di Catania, l’altro di Torino e accetto l’invito a cena di Jorgen, un mio amico danese, filosofo a tempo pieno e scrittore a tempo perso. Jorgen mi aspetta al centro di Piazza del Popolo, piove, ma la gente, sotto gli ombrelli, passeggia con allegria, incurante del mal tempo, vicino ai marocchini che vendono gli ombrelli (appunto) e ai pachistani che propongono dvd pirata e maglie colorate e foulard in linea con la stagione. Jorgen viene a prendermi con due biciclette. Me ne offre una e ricevo il secondo regalo più bello della settimana, inaspettato e insperato, non ho mai pedalato nel centro di Roma, lo prego di farmi provare l’emozione, Jorgen si toglie il cappellino sportivo e mi fa vedere la testa pelata, perdeva capelli, ha preferito rasarsi, a me sembra ringiovanito, glielo dico, se la ride, e mi dice di sbrigarmi a fare il mio giro in bicicletta, che ha una fame che muore.
Ordiniamo una marinara e una semplice margherita. Io bevo birra, in ricordo dei vecchi tempi; lui coca-cola in lattina. La sera prima si è ubriacato con il gruppo dei danesi dell’Accademia. Jorgen ha vinto una borsa di studio: lo pagano per portare a termine alcune sue ricerche sul concetto di “etica” in Socrate e vive nell’Accademia di Danimarca. Mi vuole presentare i suoi amici. Scrittori, poeti, saggisti, architetti. Dopo un’ora e mezza di ricordi e chiacchiere, mi ritrovo a bere grappa in compagnia di non ricordo più il nome, un tenore, un cantante d’opera. Non capisco la lirica, so chi sono Puccini e Verdi, ma non sono mai stato a un concerto di opera lirica. Il tenore sorride, siamo in un salone enorme, quello in cui si incontrano gli ospiti, in questa stagione dell’anno sono pochi, una struttura enorme, una residenza tranquilla e curata nel bel mezzo di Villa Borghese, sono soltanto in dodici, ma alcuni andranno via prima della fine di Novembre. Jorgen è felice, un evento raro, lui che è generalmente un pessimista cosmico. Accende la tv e mi fa vedere un video con Vattimo e Zabala; il tema è: “fede e nichilismo”. Gli espongo come posso le mie riserve nei confronti del cosiddetto “pensiero debole”. La luce è sempre più soffusa, il tenore non capisce bene le parole del filosofo, anche se parla bene l’italiano. Ci dà la buonanotte e se ne va a dormire. Jorgen è stanco e mi propone di restare da lui, la camera è grande, il divano è anche letto, se voglio restare, posso farlo, senza problemi. I corridoi sono immersi nel buio, ma il mio amico filosofo mi indica la strada della verità, evitando i pericoli di sbattere contro un muro o sbagliare piano, come Platone nei confronti di quelli che vivono nella caverna. Entriamo in stanza che sono le due di notte passate. Sulla scrivania, oltre all’immancabile pc acceso e connesso a internet, campeggiano delle fotocopie. Sono le traduzione di otto delle poesie più pessimiste di Leopardi. Jorgen le ha tradotte per amore. Si è invaghito di Clara, una soprano, forse collega del tenore che mi ha presentato poco fa, non ricordo più bene, mi mostra la foto di Clara sulla copertina di un cd. E’ il terzo cd che ha registrato, mi spiega con orgoglio. Si frequentano da due settimane, lui conosce l’italiano meglio di chiunque altro lì dentro e Clara gli ha chiesto consiglio, lezioni private, il modo corretto di pronunciare le “zeta”. Dorme proprio nella stanza accanto. A volte, mi confessa con certa timidezza, la sente cantare, mentre fa le prove e si schiarisce la voce. Mi chiede se voglio sentire qualcosa. “Questo è Don Chisciotte: io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra. O come qualunque cosa chiusa”. Ripenso ai versi di Sanguineti e accetto. Jorgen mette su il cd, la prima traccia, quella introduttiva. Il volume mi sembra un po’ alto, vista l’ora. Non hai paura che Clara ti senta mentre ascolti la sua musica?, chiedo ingenuamente. E Jorgen: voglio proprio che mi senta, mentre la sento. A volte mi sembra di sentirne perfino il respiro ritmato, quando dorme, quando ha il sonno profondo. Dal balcone si vedono gli alberi (abeti e quercie) di Villa Borghese. Un pezzo di un edificio (mi spiega Jorgen che quella è l’Accademia di Romania); più in là appare uno scorcio della Facoltà di Archiettura, di “Valle Giulia”, e poco oltre c’è il Museo di Arte Contemporanea. La musica esce dal balcone e s’infila nella finestra della stanza accanto. Sono quasi le 2 e mezza, ormai, e non so proprio come farò ad alzarmi presto per tornare a Termini e prendere il treno dell 9,14 per Firenze. Mi chiedo se Clara stia dormendo. Jorgen mi spiega che tra quegli alberi, la mattina, puoi sentire un papagallo che parla latino. Che ti dà il buon giorno in latino. Non ci credo. Ma domani vedrò se è vero. Intanto, la musica scema, la voce di Clara si affievolisce, la luce dei lampioni si frantuma, sotto le goccie grosse della pioggia, che ricomincia senza avvertire. Sembra quasi inverno pieno, a Villa Borghese, dal balcone di una delle molte stanze dell’Accademia danese.

martes, octubre 17, 2006


Che poi cosa vuol dire essere scrittore? O fare lo scrittore? Ma è poi davvero un mestiere? Non potremmo considerarlo piuttosto un passatempo tra le mani di gente che sa costruire montagne, castelli, prati di carta, fatti di parole stampate su libri? Scrivere non è facile: basti pensare al Barton Fink del film omonimo dei fratelli Koen. Basta guardargli i capelli (l'acconciatura assurdamente sparata in alto che ha) per rendersi conto che quello non è un individuo normale, o col quale andresti a prendere un caffè per parlare del più e del meno. O basti ricordare Jack Torrance (alias Jack Nicholson) in Shining di Stanley Kubrick per tremare all'idea di vivere la crisi della pagina in bianco, quando non sai più cosa dire nè cosa scrivere, quando ti blocchi e vivi il blocco dello scrittore, l'immaginazione che si ferma e non dà più i suoi frutti (come dovrebbe fare sempre e ogniqualvolta la chiamiamo per darci una mano a trasmettere qualcosa di bello, di dotato di senso, al povero lettore che ci leggerà - quanti messaggi gettati in mare all'interno di bottiglie svuotate del loro vino e finite chissà dove, destinate a perdersi infinitamente sulla superficie del mare o a incagliarsi tra gli scogli coi pesci che ci nuotano attorno senza sapere magari che lì, proprio lì dentro, dentro quella bottiglia, si nasconde la chiave per entrare nella porta che conduce a una grotta in cui è nascosto il tesoro più grosso, quello dell'isola - che non c'è nè ci sarà, se non fosse per la fantasia, o l'immaginazione fervida di uno scrittore che non vuole crescere perchè crede ancora nel valore simbolico, romantico, se vuoi, dei messaggi infilati in una bottiglia gettata sul mare dell'esistenza, l'insostenibile, labile, mobile e pesante mare dell'esistenza). "Vieni qua, Dany, non ti faccio niente, solo quella testolina te la spacco", cito a memoria ricordando quel film (nella traduzione o versione italiana la frase assurda con cui Jack riempie il suo foglio è la seguente: "Il mattino ha l'oro in bocca", così, ripetuta per migliaia e migliaia o forse solo centinaia di fogli, comunque ad infinitum...).
Barton Fink si lamenta col suo vicino di stanza in un sordido albergo di Los Angeles (la sordidezza è attutita solo da un quadretto in cui una donna, una giovane fanciulla, prende il sole, in riva al mare, sotto un ombrellone colorato che la protegge dai raggi dell'estate rovente) e gli dice che fare lo scrittore è difficile perchè non è affatto facile scavare nell'interiorità e sondare gli abissi labirintici della nostra mente, si corre sempre il rischio di perdere il contatto con la realtà e i risultati sono spesso mediocri. Mi viene in mente un altro film, di David Cronenberg, Il pasto nudo, tratto da The naked lunch del "beat" mezzo matto William Burroughs. Si dice che avesse ucciso la moglie in preda ad un attacco di gelosia e di ansia creatogli dall'uso smodato di droghe sintetiche. Una volta scrissi un racconto in cui si narravano le vicende di uno scrittore che impazzisce e che va in cerca di uno spacciatore. S'imbatte nel dottor Hoffman. Avevo letto sul giornale che un tale dr. Albert (o Adolf) Hoffman aveva sintetizzato per primo l'LSD, sperimentandone gli effetti sul suo stesso corpo. Stanley Kubrick ricorse allo stesso acido per inventarsi il finale (o pre-conclusione) di 2001. A Space Odissey, quando David Bowman finisce con il penetrare in un tunnel fatto di colori psichedelici, verso l'infinito, e oltre. Così recita la didascalia (ora che ci penso, è curioso: un film di fantascienza che si suppone racconti eventi che risalgono al futuro più remoto, al 2001, ormai passato, per noi che viviamo il 2006, e che, ciononostante, fa ancora ricorso alla didascalia per spiegare allo spettatore cosa succede e cosa vedrà di lì a poco, come nelle comiche di Buster Keaton o di Charlie Chaplin o di Stanlio e Ollio). Ebbene, anche in quel film di Cronenberg il mestiere di scrittore è costellato da ostacoli di ogni sorta, soprattutto di natura psichica. Il protagonista se ne scappa in Marocco (o era l'Algeria o la Tunisia?) per fuggire ai guai con la legge o per ritrovare l'ispirazione (non ricordo più bene, ma non ha molta importanza) e si mette a scrivere, ma, a un tratto, ha le allucinazioni, vede scarafaggi enormi, prende un drink al bancone del bar e parla con una sorta di lumaca gigante parlante (una specie di cavalletta enorme con gli occhi lucidi e la pelle viscida). Usa l'insetticida, fa derattizzare la sua stanza, ma niente, l'ispirazione non viene e il sonno della ragione genera mostri, come diceva un altro che d'arte s'intendeva.
Intanto, c'è chi, come Calvino, ritrovò tra i primi il diario intimo di Cesare Pavese, il famoso Il mestiere di vivere e si rende subito conto che lì dentro c'è tutto, l'inizio e la fine, il processo doloroso attraverso cui un uomo, fatto di carne e ossa, si giudica e prova a giustificarsi e a trovare una ragione all'arte di scrivere, oltre che al mestiere, sempre duro, sempre faticoso, di vivere. Le ultime parole di quel diario sono terrificanti, se pensiamo che di lì a poco Pavese si sarebbe suicidato (con una forte dose di barbiturici, o impiccandosi, o sparandosi in bocca, non ricordo più bene). Scrivere aiuta a vivere, a volte. E altre volte uccide. O conduce a pensieri di morte. Leggo un romanzo di Enrique Vila-Matas: s'intitola El mal de Montano e a un certo punto racconta di quando Calvino trovò quel diario. Il narratore, che è anche uno scrittore di professione, immagina d'incontrare il fantasma di Pavese. O meglio, Pavese va a visitare la sua casa, di notte, da morto. Il protagonista non può evitare di considerarlo un compagno di viaggio. Quasi un'ombra che lo ha accompagnato da sempre, da quando ha iniziato a scrivere. Non c'è dubbio: scrivere è faticoso. Un po' come viaggiare. Che è anche un po' morire. Come è difficile vivere. La stessa cosa. Lo stesso campo. Lo stesso sfondo.
Poi ripenso a uno che se ne intendeva: Cervantes chiude il suo ultimo capolavoro, il Persiles, con un prologo scritto quando ormai l'opera è compiuta. In quel prologo famosissimo e molto citato nell'ambito della letteratura spagnola si augura di poter scrivere ancora le opere annunciate in passato e che non hanno mai visto la luce. E soprattutto, si augura, una volta morto, di poter rivedere i suoi amici. Di poter ancora godere della loro compagnia, quando ormai sarà solo un morto in più nel mondo dell'al di là (dal quale nessun viaggiatore ritorna, come ci insegna Amleto). Non solo: saluta i dolori e le gioie, le amarezze vissute in vita, le sofferenze patite e quelle dimenticate, addio amici, non vi rivedrò più nè voi rivedrete me. Ma spera e continua a sperare. La scrittura aiuta anche sul punto di morte. Non ci sono dubbi. Basta sperare. E scrivere.

martes, octubre 10, 2006

Un aereo decolla dalle vicinanze. La notte riempie le strade di nebbia. Non c'è anima viva in giro a quest'ora. Un gatto sgattaiola via, inseguendo chissà chi o cosa. Mi appresto a preparare la valigia per un nuovo viaggio, mentre ripenso a Giulia, una neonata di poche settimane, mentre mi lecca il collo credendo sia il seno di sua madre, Linda, che la osserva attenta e accorta mentre lava i piatti (il sangue del suo sangue e l'amore che non ha confini e non rispetta orari - lei e suo marito hanno smesso di dormire secondo i dettami delle cosiddette "persone normali"). Leggo opere mostruose, per lungimiranza e ampiezza e varietà di vedute; sfoglio i Saggi di Montaigne; leggiucchio parti del Quijote (Sancho è restio ad entrare nella locanda che, solo dopo, si scoprirà essere quella di Palomeque, e quante cose accadranno dentro quello spazio così ristretto, eppure così amplio da contenere le storie di mille personaggi secondari - attaccati alla trama principale nei modi più svariati dell'ingegnosità tipica cervantina). Intanto, ripenso a una critica di Alyssa: troppo prolisso. A volte le cose che dico potrei dirle meglio in meno parole. Ho qui una citazione che fa al caso (mio? suo? nostro?):

"Io stesso, che faccio uno scrupolo straordinario di mentire e che non mi curo affatto di dar credito e autorità a quello che dico, mi accorgo tuttavia, nei ragionamenti che faccio, che, infiammato o dalla resistenza d’un altro o dallo stesso calore della narrazione, ingrandisco e gonfio il mio argomento con la voce, i gesti, il vigore e la forza delle parole, e anche estendendolo e ampliandolo, non senza danno per la verità pura. Ma lo faccio tuttavia in modo tale che al primo che mi fa tornare in me e mi domanda la verità nuda e cruda, io abbandono subito il mio sforzo e gliela presento, senza esagerazione, senza enfasi e senza riempitivi. Il parlare vivo e rumoroso, come di solito è il mio, si lascia andare volentieri all’iperbole".

Dal vangelo secondo Michel (de Montaigne), vol II dell'edizione "Adelphi", libro III, capitolo XI, p. 1372. Evviva l'iperbole... Sottolineo: "non senza danno per la verità pura".

jueves, septiembre 21, 2006

Pisa. Dopo Torino, Pisa. È ovvio. Dunque, Pisa non è una città (né uno stato d'animo, come Roma, tanto meno un luna-park, come Madrid), bensí, diciamo, un paese in grande scala. Vi abitano circa 90 mila abitanti; di questi, 40 mila sono studenti. Ovvero, Pisa è invasa annualmente da una popolazione studentesca notevole (la fauna varia: studenti in sede, fuori sede, in corso, fuori corso, triennalisti, biennalisti - detti anche, specialisti -, penalisti o civilisti, inquieti o annoiati, dell'Erasmus o nazionali o regionali, etc. etc). Anzi, se non fosse per gli studenti, oltre che per la Torre pendente (che delude un po' le aspettative, è piuttosto piccola, quando ci passi sotto o attorno o la guardi dal basso), probabilmente Pisa non sarebbe quello che è. A Pisa, quindi, si corre il serio rischio d'imbattersi nei docenti del proprio corso di laurea (o di dottorato, o di post-dottorato, o della iper-specialistica) non solo nei corridoi dell'Università (vero fiore all'occhiello, tra quella normale e pubblica e quella "Normale", con "N" maiuscola), ma anche per strada; a me è capitato di vedere il mio prof. preferito nel suo ufficio, in orario di ricevimento; al supermercato, mentre faceva la spesa e comprava il pane; dal fruttivendolo, mentre acquistava dei broccoli; in piazza, mentre passeggiavo con Alyssa e lui con la moglie. La cosa può dare anche fastidio, soprattutto se il prof. in questione non è un campione di simpatia.
Non solo: Pisa ha degli orari tutti suoi. Se la mattina si sveglia piano, con una certa calma (diciamo che verso le 9 quasi tutti i negozi e i bar del centro riprendono la loro attività), a metà mattino è in fermento, per placarsi verso l'ora di pranzo. Dalle 13,30 alle 15, più o meno, si rilassa. Gli studenti (onnipresenti) pascolano nella centralissima Piazza Dante (una Piazza che segue anch'essa un orario tutto particolare: se fino alle 18,30 è popolata, da quest'ora in poi diventa un luogo oscuro e misterioso in cui diventa complicato non inciampare, visto il buio e l'assenza di luce artificiale), mentre i lavoratori (impiegati, bidelli, assistenti alla didattica) mangiano nei bar tra Borgo Stretto e Corso Italia. Poi, si rompono le fila. C'è chi torna a casa, per studiare bene la lezione, o chi, come le donne delle pulizie, pulisce prima di chiudere a doppia mandata i portoni pesanti delle varie Facoltà e Dipartimenti; i barboni tornano ai posti di combattimento, nei pressi della Stazione.
I barboni. O i mendicanti. Ce n'è uno che mi perseguita. Ha la barba folta, incolta e bianca, i pochi capelli arruffati e va in giro con un coniglietto marrone tenuto al guinzaglio come fosse un cagnolino. Credo abbia il dono dell'ubiquità. Ieri l'ho visto, nell'ordine e partendo da quando sono uscito di casa: 1- in Stazione, vicino alla fermata degli autobus (gli autobus di Pisa sono nuovi di zecca, niente a che vedere con quelli perennemente scassati di Roma); 2- a Piazza Dante, steso sul prato a prendere il sole, mentre i fuori sede (o in sede e in corso) e i fuori corso (o pendolari, o stabilmente residenti) pascolavano coi loro libri sotto il braccio; 3- a Piazza Giusti, direzione Aeroporto, con un carrello della spesa pieno di cianfrusaglie e buste della spazzatura, in attesa di chissá cosa o chissá chi; 4- vicino alla farmacia vicino a casa, di notte, mentre mi trovavo in un frangente tipico da Sabato sera senza (ma ti li sei scordati? Oddio, sí, scusami, esco subito e vado a comprarli).
E poi c'è il Lungarno. Meglio di quello di Firenze. C'è più spazio per contemplare il lento fluire del fiume. Di notte, le cosiddette "spallette" si riempiono di ragazzi e ragazze che ammazzano il tempo chiacchierando (quasi sempre d'Università). E Piazza Santa Caterina, un po' appartata, ma che preferisco alla tipica Piazza Garibaldi (dove ci diamo appuntamento? A Piazza Garibaldi, è la risposta canonica, prima che i ragazzi e le ragazze s'incontrino per bere una birra - e, di passaggio, parlare di Università). Piazza dei Miracoli, invece, quella no, troppo turistica. Anche se gli immensi prati con l'erba tagliata sempre a filo hanno il loro fascino (una volta ho conosciuto un tipo che, con l'intenzione di studiare disteso su uno di questi prati, s'era addormentato sotto il sole. Era arrivato a lezione con il viso rosso fuoco. Mi disse: "È pazzesco, non sai cosa mi è capitato: stavo a Piazza dei Miracoli, steso al sole, a studiare e ripassarmi un po' la lezione e... mi sono addormentato, senza nemmeno accorgermene, è pazzesco").
A Pisa è facile annoiarsi; per fortuna che ogni giorno capita qualcosa di pazzesco, come disse quel tale. E tra Corso Italia e i portici di Borgo Stretto ne succedono di cose strane. Come incontrare il proprio professore che cammina con la moglie; o un compagno di studi che compra un libro; o un barbone che chiede l'elemosina con al guinzaglio un piccolo coniglietto marrone.

sábado, septiembre 16, 2006

Torino. Via Roma. Se parti dalla stazione (di Porta Nuova - mai visti tanti barboni e tanti giovani drogati che ti chiedono un euro, questo sì, con modi garbati) e prosegui dritto, lungo via Roma (sotto i portoci, in modo tale da non bagnarsi, visto che piove, sì, oggi purtroppo piove, ininterrottamente, e sembra proprio che non voglia smettere, piove), puoi arrivare fino a via Po e da qui, se prosegui, finisci con l’imbatterti nella mole (monumentale) della Mole Antonelliana. Torino è una città misteriosa, non è un caso se qui sono sorte le prime (e più dure a morire) sette sataniche (o sataniste?). Torino è una città ideale per suicidarsi, quando cala la nebbia e la geometria delle sue strade (tutte uguali, tutte molto esatte, nelle loro linee e nelle prospettive che si intersecano come su una schacchiera – Torino è anche una scacchiera, in cui le piazze segnalano gli spazi ideali per una pausa dal gioco: Piazza San Carlo, Piazza Castello, Piazza Arbarello, Piazza Cavour, Piazza Vittorio Veneto) spinge all’astrazione più pura, tutta spigoli e angoli e marciapiedi misurati al millimetro, non una cosa fuori posto, non un dettaglio di più. Ma Torino, diciamola tutta, è anche la città del Museo del Cinema (ricordo il titolo di un film molto lirico e carino di Davide Ferrario, Dopo mezzanotte, su un tipo che è una fotocopia di Buster Keaton e che si isola proprio lì dentro, nella Mole Antonelliana, con le immagini del cinema per amiche, compagne di gioco eterno, l’eterno intrecciare le immagini per farne storie da mostrare agli altri e storie da raccontare e raccontarsi). Domani, se trovo il tempo, mi piacerebbe farci una capatina (ma chi era l’attore che impersovana il protagonista di quel film, così notturno e così misterioso, com’è oggi Torino, città perfetta per girare un giallo – e mi ricordo anche di Profondo rosso e della pseudo-città che Dario Argento creò proprio tra Torino e Roma, come a voler confondere le carte in tavola e creare così una sorta di summa delle città claustrofobiche e pericolose, quelle che a ogni angolo, di notte, nascondono un potenziale assasino in serie – o serial-killer, per dirla all’inglese).
Intanto, fuori piove. La tv satellitare compie i soliti miracoli: posso vedere le varie versioni di quanto accaduto oggi nel mondo (la CNN me lo dice in inglese, TVE in spagnolo, TV5 in francese, e via dicendo…), mentre i canali a pagamento sembrano gratis e su Sky danno The SawII, dovrebbe essere interessante, il primo capitolo lo vidi a Pisa e mi sembrò geniale, un gran film horror, dal finale davvero imprevedibile (lo sceneggiatore, un maniaco sadico di quelli pericolosi, se lo si incontra in una città oscura e misteriosa e piena di nebbia o di pioggia, come Torino, tanto per fare un esempio). Pur tuttavia (che cavolo vorrà mai dire “pur tuttavia?”: e soprattutto, si usa ancora? O sono io quello che deve farsi un bel ripasso della lingua italiana dopo un’assenza comunque di tre mesi dal suolo – e dalla lingua – patria?), mi piace l’idea di addormentarmi con il dolce rumore della pioggia (sembra il titolo di un film, ma mi sbaglio: quello era Il dolce rumore della vita, un piccolo capolavoro di Bertolucci – Giuseppe, non Bernardo, da non confondere). Nelle stanze affianco: il silenzio. Nella stanza di sopra: niente. O è davvero molto tardi, e tutti dormono (e io risoffro d’insonnia, come al solito), o sono l’unico cliente di questo hotel vicino alla stazione di Porta Nuova. Oppure, vaneggio e ho le allucinazioni uditive. Tra poco spegnerò la luce. E chissà che domani, su Torino, non sorga il sole. E tornammo a riveder la luce…

miércoles, septiembre 06, 2006

Ho appuntato i loro nomi (le loro email o i numeri di cellulare) su tovaglioli di bar, pezzi di carta strappati dall'agenda, diario, risvolti di copertina, su una pagina di El Pais, su un qualsiasi dépliant pubblicitario. Sono stati compagni di disavventure e di nottate passate a scambiarsi opinioni, ricordi, impressioni e pareri per tre lunghi mesi (fuggiti come un attimo, ma si sa: "Hora ruit", il tempo fugge e i minuti scivolano nei secondi e i secondi si corrompono, corrodendo le ore e i giorni).
Pablo, che scrive poesi e apparirà nella pagina dei "ringraziamenti"; Rosy, che oltre ad avere un blog cui ho già fatto pubblicità in queste mie "carte sparse" (e a cui continuerò a farne in futuro e a voce) è una bella persona, come non se ne trovano quasi più in giro; Seby, che quando ha in mano una birra non può stare fermo finchè non la finisce - e che mi ha regalato molte risate all'uscita dalla discoteca di turno o sul cammino del ritorno a casa; Merce, che con la mania della pulizia non sembra nemmeno spagnola, la mia personale professoressa di parolacce, una miniera e un vulcano, più "manchega" di Don Quijote; Ambar, che prima o poi finirà col fare la vice-direttrice di chissà quale quotidiano nazionale, sempre di corsa, sempre sorridente e disposta a rincuorarti nei momenti dello sconforto o della depressione più nera; Emiliano, col suo accento romano (e fa pure rima); Daniel, che viene da Zurigo e conosce il francese, l'inglese, il tedesco, ovviamente lo svizzero, intuisce lo spagnolo e capisce anche l'italiano: "Scusa, como se dice...?"; Vero, che viene da Buenos Aires e che quando arrivo nella capitale è sempre pronta (ad accogliermi, abbracciarmi e a ridere alle mie battute che non fanno ridere nessuno o solo pochi eletti - ho fans selezionatissimi lì fuori) e che, con il nuovo taglio, guadagna in bellezza e grinta (sembra ancora più combattiva e intraprendente: come Ambar così Vero: due che non indietreggiano davanti agli ostacoli e non hanno paura, rassicura sapere di poter contare su persone come loro); Dadda, che è un fratello, oltre che un amico, e che sa stare al gioco (con la vista lunga, un occhio critico dietro uno sguardo bonario, ma almeno, cavolo, potevi lasciarmi il cellulare a casa, invece di lasciarlo in ostaggio a quelli dell'edicola per una tua svista comprensibile, ma ripetuta: per poco non ci lasciamo la testa, a Barajas); Antonio Escudo, prof. e autodidatta, emissario ed esperto di Giudaismo, sempre pronto a regalarti una fotocopia di un suo racconto o quella di un articolo da un giornale sefardita o una citazione da Mosé o da Seneca o da Ovidio, in originale, latino o greco, of course; Sele, l'esperta medievalista, ne sa più lei, di Cecco Angiolieri, che Cecco Angiolieri stesso, con la chioma leonina e la camminata sbarazzina, danza sul bordo (dell'abisso) ma, oltre a non cadere mai, trova sempre il tempo per lo spasso più pazzo e la cucina buona (non solo toscana); Brian, che sta scrivendo una tesi su Thomas Bernhard e che, quando mi ha avvistato in Biblioteca, ha esclamato: "It's incredible, I was writing an email to you and Sele, to see if you were here too!"; Emanuela, che tra poco insegnerà alle superiori e che balla come mai avrei immaginato (cattolica di vecchio stampo, quante discussioni abbiamo avuto parlando di Dio, Demoni e Opus Dei); Rocchina, che ama più la Spagna dell'Italia, basta vedere come le brillano gli occhi se pronunci nomi come Madrid, o Sevilla, o Granada, o Salamanca; Jana, che è asturiana e nazionalista, il latte asturiano è il migliore, Alonso "is the best", la sidra è il top... Nomi, che appartengono a volti che ricordo con nitidezza e che amo ricordare con la speranza di non dimenticarli in futuro; sei quello che mangi (sei la lingua che abiti?), ma anche, credo, la gente che frequenti, gli amici che hai, quelli che incontri (per caso?) e con cui hai condiviso (e condividerai) qualcosa, in questo frammento assurdo che è la vita...

viernes, agosto 25, 2006

L'8 Settembre. Tornare in patria, ritrovare le proprie radici. Un po' come resuscitare. Lazzaro deve aver provato una forte delusione, quando Gesù gli ha ordinato di alzarsi e di camminare. Che casino. Che rabbia. Che indescrivibile fatica, tornare alla luce e rifare (magari) gli stessi percorsi, commettere gli stessi errori. L'8, tra poco. Roby si sposa (comunicato importante e di servizio per Alyssa: se mi mandi da solo, in qualità di testimone, ti tolgo il saluto e non ci gioco più, parlo sul serio). Mery sorride, mentre il cielo di Roma ci illumina d'immenso. Il sole della capitale, che scalda di più lì dove meno te l'aspetti. Camminare in periferia, con i pini che fanno da sfondo ai tuoi pensieri e una domanda ricorrente: ma quando la metti la testa a posto? Quando ti trovi un lavoro serio? E quando andate a convivere? Oh, ma tu e Alyssa, no dico, ma vi sposate? Cos'è immaturo oggiogiorno (oggigiorno, ma si scriverà così o non sarà un'altra delle mie solite sviste, giochi di prestigiditazione, illusioni o allucinazioni del linguaggio, che, sarà pure la casa dell'essere, come vuole quell'esistenzialista tedesco, ma com'è facile perdercisimitivi in questa cavolo di casa dell'essere - sei quello che dici, siamo la lingua che parliamo, dai, davero? Ma va là! Un mi par vero, maremmamaiala). E in più è il giorno del mio compleanno. 29 anni sono tanti (già scritto e detto e ridetto - anche a Roby e Mery, che formano la cosiddetta "bella coppia" proverbiale, anche quando litigano mi fanno tenerezza e invidia allo stesso tempo, mentre quando litigo io, con Alyssa, i cieli si annebbiano, cascano fulmini a ciel sereno e lei mi guarda come un cane bastonato e mi fa sentire una merda). L'8 Settembre; sarà una data da ricordare. Mentre quest'altro cielo scivola con una leggerezza impareggiabile. E la notte ricopre le cose e ci rende tutti un po' ubriachi (quanta birra e quanto vino, in questi giorni di esami - ma lo sanno anche i bambini, gli esami non finisco - mai).

miércoles, agosto 23, 2006


Questa foto proviene dal blog di Rosy http://magismagisque.splinder.com/.
È facile capire che siamo in un bar e che questo è effettivamente il bancone di un bar. "Bar" viene dall'inglese (come tante altre parole che usiamo, d'altronde, senza nemmeno rendercene conto) e, all'origine, indicava non ricordo più quale parte di una nave (ma la memoria associa il termine anche al Giudice che, in consiglio e in atto di emettere la sentenza, si erge dal "bar" per esporre la sua opinione davanti alla giuria popolare). L'immagine colpisce, oltre che per il colore (virato al seppia), per il modo in cui inquadra quanto entra a far parte della stessa. Dalla destra, una mano entra "in campo" (per dirla con linguaggio cinematografico) per afferrare un mini-bicchiere di chissà quale sostanza liquida (vino? Può darsi. Superalcolico? Potrebbe. Non è coca-cola, né aranciata, questo è sicuro). Pochi centimetri e c'imbattiamo nel primo degli unici due volti (umani) catturati dall'occhio (sempre poco) obiettivo dell'obiettivo della macchina fotografica. Si vede (intra? vede?) la nuca di un signore che, dal taglio dei capelli, potrebbe essere scambiato anche per una signora (attempata, bionda, piacente e dall'aria certamente divertita, non saprei dire se anche divertente, ma si nota, è facile notarlo, che sta godendo di questo momento di relax, davanti al bancone di un bar - mai davanti alla sbarra di una Corte di Giustizia - è difficile non lasciarsi andare ai sorrisi, ci si lascia dietro le preoccupazioni quotidiane e si pensa meno o si pensa meglio, cioè, si pensa solo a divertirsi e a godersela la vita, e quest'uomo - o questa donna? - sembra proprio sorridere per questo, perché si sta godendo un momento di vero e puro piacere e vero e sincero relax, sorseggiando il suo vino - o superalcolico, ma niente coca, non potrebbe essere coca-cola, basta guardare meglio per capire che, in bicchieri così piccoli, fatti di vetro, un prodotto così commerciale come la coca sfigurerebbe, siamo sinceri). Ma osserviamo meglio: in che direzione punta il suo sguardo divertito quest'uomo dai capelli lunghi (e lisci e semibiondi, ma la seppia, virata, inganna)? Verso chi o che cosa rivolge la sua attenzione in questo preciso istante? La prima risposta potrebbe essere quella che consiglierebbe la logica: verso il cameriere (non esistono banconi di bar che non presentino nel loro interno un camiere o "similia" - il padrone del locale, il buttafuori di turno, l'inserviente che pulisce il pavimento o il lavabo e i piatti e le tazzine), ma, ancora una volta, basterebbe fissare l'immagine e osservare con maggiore attenzione per immaginare una seconda ipotesi (anch'essa non totalmente slegata dalla logica e dal razioncinio di stampo sillogistico-aristotelico) e cioè, potremmo assicurare senza tema di smentite: verso l'altro individuo, quello che si vede lì in fondo, con uno strano cappello zebrato sulla testa. È, ripeto, la seconda persona di cui vediamo il volto (la terza, se sommiamo quella di cui intravediamo solo la mano nell'atto di afferare con decisione lo strano mini-bicchiere contenente l'ancora - per noi - enigmatico liquido scuro; la quarta se pensiamo che anche lui, come il tizio dai capelli lisci - e lunghi - sta guardando verso un eventuale, ipotetico cameriere - ma, ora che ci penso, potrebbero essere più di uno, i camerieri, rari i bar che vadano avanti solo con l'aiuto e la forza delle braccia di un unico cameriere o di un unico-tutto-fare barista, per bravo che questi possa essere). Di questa seconda figura umana, in realtà, non riusciamo a intuire l'espressione. È troppo distante dall'obiettivo per consentirci di formulare alcuna ipotesi, eppure... non può essere un tipo triste o depresso (o deprimente) uno che va in giro con un cappello così eccentrico, a dir il vero, forse, fin troppo eccentrico - rischia di passare per un pagliaccio, o per uno di quelli che, quando c'è una festa e l'occasione è quella giusta, vuol dare a tutti l'idea che lui sì, lui sì che si diverte e se la gode, se fossimo spinti a ipotizzare il grado di divertimento tra lui e il tizio con i capelli lisci, non avremmo dubbi nel dire che, a rigor di logica, quello che sembra godere del momento con più scaltrezza e senza infingimenti sia proprio il secondo e non il primo, un cappello troppo vistoso, vuol richiamare forzatamente l'attenzione su di sé e, insomma, per me quello in secondo piano non sta bevendo con la stessa allegria e la stessa calma placida e contenta di quello in primo piano (su quello di cui vediamo solo la mano, non azzarderei ipotesi alcuna). I tre rubinetti da cui fuorisce l'agognato liquore (o birra o acqua o superalcolico, ma in genere, da dispositivi del genere ci aspetteremmo sempre e solo birra alla spina, bella fresca) formano, invece, una casuale simmetria con le tre luci delle tre lamapade (o lampadari) che rischiarano la superficie del bancone e con la luce tocchiamo lo zenit della fotografia. Non solo essa ci permette di osservare un altro curioso dettaglio (sul bancone, appoggiata o subito dopo di esso, vediamo una specie di vetrina, contentente del cibo, senza dubbio, anche se non possiamo vedere di che cibo si tratti), ma ci permette di vedere sia il bancone stesso, che il tizio con il cappello eccentrico che il tipo allegro con i capelli lisci che il tipo anonimo e, per ora, senza volto, della mano che afferra il bicchiere. Insomma, che una delle prime frasi della Bibbia sia "Sia fatta luce e luce fu" non deve essere stato un caso, anzi, tutto il contrario, essendo la luce stessa il fondamento dell'apparire di tutte le cose che sono, che sono state e che potrebbero continuare a starci, almeno fino a quando ci sarà un obiettivo che, in modo del tutto arbitrario e (perciò) molto poco obiettivo, s'ingegnerà nel carpire una porzione di realtà, per offrircela in tutta la sua ambiguità e complessità.
P.S.: Rosy quella sera si rammaricava di non aver portato con sé la macchinetta fotografica. Per fortuna che ci aveva pensato qualcun'altro...

lunes, agosto 14, 2006

Dimmelo cos'è che ti piace di più di me,
anch'io ho segreti da raccontarti e sappi che
non serve a niente nascondersi dietro a quel paio d'occhiali
che porti anche quando è inverno e fa un freddo da lupi.
Se avessi sempre voglia di camminare insieme a me
in riva al mare, in cima, sulle montagne abbruzzesi
che sono così piene di sorprese,
sarebbe una storia senza finale, quello lo potremmo scrivere
insieme, faccia a faccia, seduti qua, davanti al camino
delle rose di maggio, davanti a un tramonto che sembra
annunciare l'apocalisse.
Dimmelo se vuoi venire con me fino a perdere il fiato,
sai che non mi freno davanti alle salite,
se solo me lo dicessi e se solo lo volessi,
quante strade ancora da percorrere, quanti cocktail
da bere, mentre il pianobar ci culla di notte sotto il cielo,
perchè, mi domando e ti chiedo, perchè
non abbiamo mai il coraggio delle domande più importanti?
mentre la musica ci fa dondolare, braccio dietro la vita,
mano nella mano, in sottofondo l'estate di Rimini e la tenda
da disfare, mentre leggi un romanzo d'amore che mi fa venire
da ridere, sorridi, sorridi pure, perchè lo so,
sarà banale, ma sei più bella quando sorridi,
con quella faccia da bambina quella bocca da vampira.

viernes, agosto 11, 2006

Everyday life follies

Spesso camminare in pieno centro può riservare molte sorprese: un uomo dal vestito elegante contempla come in estasi un secchio dell'immondizia. Lo osserva attentamente, sembra voglia infilarcisi dentro, chissà se è un finto ricco (e un vero povero), penso, un barbone che ha appena rubato un completo di Valentino a qualche ricco vero (o finto povero), mi chiedo: e se ha fame e non aspetta altro che il momento giusto - quando nessuno lo guarda - per acciuffare qualche rimasuglio, i resti di cibo dei vicini negozi e supermercati e alimentari della zona?

Passano poche ore. Davanti al distribuitore di bibite e caffè della biblioteca. Mentre la mia collega e amica Sele mi accusa di dicotomia ("Come dici?", chiedo; "Sei dicotomico", mi spiega; "ho detto: dicotomico", poi consiglia: "Aggiungi un po' di grigio alla tua vita"), e mentre io provo a spostare l'attenzione su un altro argomento e a parlarle dell'influenza di Antonio Tabucchi su Enrique Vila-Matas (ricordo quando Alyssa si precipitò per me alla Feltrinelli di via dei Calzaiuoli per scattare una foto al folle scrittore di Barcellona e ci riuscì, anche se, mi confessò, si vergognò non poco quando Vila-Matas venne interrotto dal flash della macchinetta e la fissò come a dirle: "Ora mi da quella macchinetta o la uccido e non esce viva da questa libreria"), ecco che si presenta (meglio: autopresenta) un tipo mezzo calvo e sulla cinquantina che, ci dice, sta conducendo degli studi di psichiatria clinica. Ha gli occhi spiritati e sembra essere appena scappato da un centro di salute mentale. Sì, insomma, sembra un pazzo scappato dal manicomio. Sele, che è sempre gentile, non so la sente di mandarlo subito a quel paese, come si dice: i pazzi bisogna assecondarli. E lui: "E lei cosa studia?"; e lei: "Mi sto specializzando in letteratura italiana medievale, da Cecco Angiolieri in poi"; "Ha mai letto Freud?", no, non ci credo, ora va a finire che mi cita pure: "Psicopatologia della vita quotidiana, sì, quello dovrebbe leggerlo, glielo consiglio caldamente, anche se mi domando: è stato pubblicato prima questo titolo o il saggio sul Motto di spirito che tante somiglianze mostra con Psicopatologia della vita quotidiana?". Sele ammette di non ricordare quelle date. Il tizio sembra adirarsi. Poi ingurgita il caffè (o era un cappuccino?) d'un sol colpo e ci dice che è stato un piacere per lui conoscerci e che ora deve andare perchè lo aspettano alcuni "casi molto molto interessanti", aggiunge, con ghigno sottilmente (e perturbantemente) maligno...

A casa, alle 4,30 del mattino. L'insonnia è ormai un'abitudine. Eppure, a volte, mi sembra un regalo: quando si hanno più ore a disposizione di quelle previste per la giornata "normale" così come la vivono le persone "normali" si ha l'impressione di avere molto più tempo a disposizione, come se si potesse godere di alcune ore in più, supplementari, e così, a volte, ne ho approfittato (per vedere film, rileggere romanzi letti in gioventù, scrivere qualche racconto che, il mattino dopo, mi sembrerà prodotto della follia di un genio che si crede genio e invece è solo pazzo come gli altri), ma stasera no, non è una di quelle volte (non vedo film, non leggo niente, nemmeno scrivo, ho solo la testa in panne e sudo freddo nel letto che mi attanaglia mio malgrado) e all'improvviso lo sento: un vicino di casa che litiga costantemente coi suoi genitori, deve avere sui vent'anni o poco più, sbraita, "voi volete uccidermi, lo so, ma io non me ne vado, avete capito, io questa cazzo di casa di merda non la lascio, capito? Fanculo tu e fanculo tu, io a lavoro non ci vado, lo so io quando è ora, ti pare questa, eh, ti sembra questa l'ora per chiedermi di spegnere il cellulare? Ma quanto sei stronza, non lo vedi che sono le quattro di mattina, dimmi, chi cazzo chiamo alle quattro di mattina?", testuali parole.

Faccio una telefonata a casa. Invece di mia madre sento la voce sensuale di una sconosciuta. Mi chiede se ho bisogno di massaggi. Le dico che forse, evidentemente, ho sbagliato numero. Mi dice che no, che il numero è esatto; se ho voglia di massaggi, devo citofonare al 3 scala B, interno 14. 3-B-14. Lo appunto. Come per scaramanzia. Non ho mai giocato al lotto. Mai. Poi rifaccio il numero: "Ma, ho risofferto d'insonnia". Mi chiede se continuo a prendere il caffè dopo cena. "No, ma c'è un vicino di casa che non mi lascia dormire". Poi cade la linea, mentre iniziavo a sfogarmi. Bah.

miércoles, agosto 09, 2006

La scrittura sull'acqua. La traccia che si ferma solo per una frazione di secondi, per poi svanire per sempre. L'emozione che deve aver provato Gutenberg quando ha stampato la prima pagina. La vertigine di leggere quanto scritto da un altro, in un altro posto, da un'altra era, "other rooms, other voices", come recita il titolo di uno dei primi romanzi di Truman Capote. E poi: il successo di un'invenzione; la Bibbia letta da tutti; la Controriforma; Lutero e la Santa Inquisizione. Ascolto jazz, il deejay augura buon ascolto, ma parla sui dischi che mette e manda all'aria la prima tornata di bassi e di batterie. Ritorno sui miei passi. La scrittura, anche oggi, quando l'era digitale terrestre proietta immagini da ogni angolo del pianeta. Quando internet diffonde il sapere in modo (più) democratico (sarà poi tutto così, rose e fiori, o son solo fiori d'arancio?). Borges narra in non ricordo più quale racconto che Gesù scrisse solo una volta e lo fece sulla sabbia. Poi cancellò quanto voleva spiegare agli apostoli e nessuno ci ha più saputo dire cosa scrisse veramente quella volta. Se non potessi scrivere...quanti pensieri in meno, se si è privati della scrittura, quanti messaggi non detti, quanti dubbi non risolti, quante riflessioni non nate, così, spontaneamente, sulla scia dei ricordi, con l'aiuto dell'immaginazione, l'azione implacabile dell'oblio, si scrive anche per ricordarsi di fare le cose, per non disperdere quanto altri prima di noi hanno saputo (o hanno saputo trasmetterci), per non morire del tutto dopo la morte. Jam Session di parole. Vorrei rileggermi il Fedro e vedere come Platone s'incartò sul più bello, mentre criticava i poeti e rinnegava della scrittura, foriera di oblio.

jueves, agosto 03, 2006


Mio fratello mi ha mandato dall'Italia una canzoncina orecchiabile e stupidissima, Ombrelloni di tale Simone Cristicchi. Il ritornello? "L'ombrello te lo ficco nel culo, e il gelato te lo spiaccico in faccia"... Ora ingurgita la tua crema solare, questa è la mia canzone per l'estate... o roba del genere. Mi viene da ridere. Se penso poi alle mille telefonate fatte ad Alyssa e non rispondeva, perchè, quando ero io a chiamare lei, lei era a lavoro, e quando era lei a chiamare me, ero io a essere occupato, mai che si sia riusciti ad incontraci per telefono, accidenti, non sembra, ma quanti fattori devono intercorrere affinchè due persone possano riuscire a comunicare a distanza, da due paesi diversi, ma anche da una città all'altra, pur stando entrambi nello stesso paese... nonostante internet e i mille ritrovati della tecnologia nostrana quotidiana attuale (fino a quando? ci si potrebbe domandare, ma stasera non ho voglia di pensieri saturnini - anche se ce ne sarebbero di motivi, eccome...).
Poi cambio musica e ascolto la Fughetta di Gerald Finzi (una scoperta dell'ultim'ora grazie a uno scrittore che sto leggendo con piacere da un paio d'anni circa, uno che ci sa fare e sa come catturare l'attenzione del lettore - anche se non è il mio caro perduto - per sempre? - Roberto Bolaño). Che differenza, santoddio, con Simone Cristicchi! E che relax. La finestra è chiusa, ma fuori, ci scometto, c'è la luna piena. Dentro si schianta dal caldo, ma i miei oggetti personali mi fanno compagnia, ricordandomi chi sono e da dove vengo. "Provale tutte ma non mollare mai", consiglia Alyssa con amore e una santa pazienza infinita. Dove troverà l'energia? E io, dove la vado a pescare, per fare tante cose insieme? Leggere, studiare, fare la spesa, pagare l'affitto e le bollette, telefonare, chattare, chiamare, uscire, prendere la metro, leggere, dormire, provare a vivere. Sotto un sole che sfianca e stanca a ogni pie' sospinto. Mentre Agosto è iniziato di soppiatto e non so cosa mi aspetta per Settembre. 29 anni son tanti. Oggi Alyssa ne compie 24. Mi sento vecchio, certe volte. La vecchiaia è quando conosci più gente morta che viva, qualcosa di simile disse uno che è morto tanti anni fa e sognava di Baroni Rampanti e di Città Invisibili e di Castelli dai Destini Incrociati... Incroci: a Roma esiste una strada che si chiama "Via delle Vergini"; a Madrid esiste "Calle Egipto"; a Londra c'è Baker Street, che è dove visse Sharlock Holmes, per gli amanti della scrittura di A. Conan Doyle e Craven Road, che è dove vive il fittizio Dylan Dog inventato dal folle Tiziano Sclavi; a Parigi c'è una strada che si chiama "Rue de la Morgue", che è dove si svolgono gli orrendi delitti di cui ci narra E. A. Poe in alcuni dei suoi primi racconti... ah! Gli Ombrelloni, che allegra cazzata. Meglio la Fughetta, va...

lunes, julio 31, 2006

"Domani è un altro giorno", è una frase fatta, lo sanno tutti, anche quelli che non ricordano Scarlett O'Hara nel finale dell'epico Gone with the wind... Eppure, per me sta assumendo ogni giorno che passa un significato letterale. Domani non so cosa mi succederà, non so letteralmente cosa potrà accadermi in questa città fatta di ladri e di gente che si buca, di fidanzate che litigano per delle sciocchezzuole, e di fidanzati gelosi che lasciano le fidanzate in casa per andare a bere con gli amici. Di drogati e di avvocati. Di gente comune. Di strade tortuose che girano intorno a una chiesta sconsacrata oggi riadibita a biblioteca di quartiere (il quartiere, malfamato, è ovvio).
Oggi per esempio, cosa è successo? Di tutto. Avrei potuto iniziare la mattinata leggendo il giornale davanti al telegiornale delle 13,30 e sorseggiando un buon caffè con sigaretta incorporata (la sigaretta dopo il caffè, è ovvio). E invece mi sono ritrovato a leggere ancora 2666, con piacere e con una estrema curiosità di vedere come finiva la prima parte (ben 292 pp.). A pranzo avrei potuto mangiare un cheese-burger del BurgerKing e invece...una mia cara amica, oltre che coinquilina, mi ha preparato un piatto tipico, a base di pollo, fagioli e lenticchie (non molto indicato per le temperature etiopiche di queste latitudine, ma comunque ottimo). Avrei potuto restare a casa o andare a fare un giro nel parco più grande della città (stile Villa Borghese, o Central Park) e invece sono andato in un quartiere pieno zeppo di immigrati per mangiare un kebab in compagnia (o era un felafel? Non distinguo più i piatti tipici turchi, o kurdi, o afgani, "that's the same", direbbe un amico del cui nome non voglio ricordarmi). E poi, avrei potuto fumarmi due sigarette, ma ne ho fumata solo una, parlando di politica con Maiko, una ragazza dai tratti orientali nata da un padre basco e da una madre cinese (ma, mi assicura, lei è nata a Hiroshima, lo stesso posto in cui circa 45 anni fa gli Alleati gettarono così, tanto per vedere l'effetto che faceva, la bomba atomica). Avrei potuto chiedere il dolce (erano le 23,30 passate, l'ora buona per un caffè, da queste parti, o per un gelato, dipende dai gusti), e invece niente, mi finisco la birra, saluti e baci, saluto Maiko, abbraccio Rosy, ci rivediamo alla prossima, Rosy, ho letto gli aggiornamenti, il tuo blog mi piace proprio tanto, seguirò sempre i tuoi consigli di lettura, per poi distrarmi, colpa del caldo (o della birra?), proseguire a piedi per un breve tratto in compagnia di Merce, amica oltre che coinquilina simpatica e sempre disponibile, e perdere d'un colpo, d'un tratto, sia la macchinetta fotografica con dentro le ultime foto della giornata sia 2666 di Roberto Bolaño, più sotto citato, entrambi (la macchinetta e il romanzo) lasciati incustoditi all'interno dello zaino che mi accompagna da circa 6 anni a questa parte nei miei migliori viaggi, addio zaino, addio macchinetta, addio 2666, penso, mentre bestemmio contro un cielo stellato che mette i brividi e Merce prova a consolarmi a parole, e Maiko sorride sotto i baffi, e i camerieri alzano le mani dell'innocenza, e la calca chiacchiera a vanvera, sotto il cielo di una città che non smette mai di sorprendermi, mentre la mente corre alla trama del romanzo, come cazzo finisce, come finirà, mi domando e dico, pensando al portafoglio e alle offerte estive attuali, potrei comprarmi una nuova macchinetta e scattare foto alla copertina di 2666, oppure comprarmi il romanzo e dimenticare le foto, oppure comprarmi un nuovo zaino e ricominciare il giro daccapo, non sarebbe una cattiva idea, se solo avessi tempo e danaro, accidenti, sì, domani è proprio un altro giorno, e chissà che non ritrovi il libro sul banco di qualche venditore ambulante, chissà che non ritrovi la stessa copia, con la mia firma e la data: 21/7/2006, from Nowhere, en un banquillo callejero, insieme a L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera...

viernes, julio 28, 2006

Questa è una storia vera (ma già il fatto di chiamarla storia dovrebbe mettere in allarme e fare stare in allerta: cosa distingue la Storia - raccolta dei fatti veri, realmente accaduti - da una storia - racconto di fatti verosimili, che avrebbero potuto ma non sono accaduti, o almeno, ancora non sono successi?): ero in metro, con Sele, amica e collega. Diciamo che dovevamo spostarci dalla Stazione Termini a Piazza Vittorio, una fermata soltanto, come chi vive o ha vissuto a Roma sa (o ricorderà con certa facilità). Ebbene, prendiamo la metro nella direzione opposta - chiacchierate a non finire, risate e qualche ricordo dei primi anni d'Università e addio, sbagli strada, capita. Andiamo in direzione Battistini, verso S. Pietro, proprio l'opposto. Chiediamo in giro a un paio di turisti che ci guardano allarmati (tutte quelle valigie e la sudata atroce di questi giorni di asfalto bollente), poi a un paio di studenti romani, annoiati e nemmeno rispondono, poi a un dipendente di Met.Ro e questi ci dice che siamo a S. Giovanni e che dobbiamo riprendere la metro proprio in direzione Battistini se vogliamo scendere a Piazza Vittorio. Io e Sele ci guardiamo in faccia: ci deve essere qualcosa che non torna. Come diavolo abbiamo fatto a "saltare" Piazza Vittorio e ritrovarci due fermate dopo Termini in direzione Anagnina? Penso a un vuoto attraversato alla luce della velocità (ops: alla velocità della luce); siamo capitati in un buco nero, c'è stato qualche guasto alla cabina di regia, un salto spazio-temporale privo di logica. Il tempo... che ossessione! Ma è davvero una freccia sparata da un passato lontano verso un incerto futuro? Oppure è circolare, come credevano certe popolazioni indigene dell'Indonesia (o erano australiani? O messicani?). E se è circolare, allora tutto ritorna. E ci si può ritrovare a S. Giovanni saltando Piazza Vittorio e andando in direzione contraria... Mah... Certo che è curioso. E nessuno dei due aveva bevuto alcol. Sì, d'accordo la stanchezza, ma fino a questi livelli! Se la prossima volta mi dovrò spostare uso l'autobus. Almeno vedo dove vado. A cielo aperto. Sotto un sole che schianta e che mi abbronza mentre cammino, carico di libri e di fotocopie.

sábado, julio 22, 2006

In 2666 un gruppo di persone finisce preda della passione e dell'ossessione per le opere di uno scrittore tedesco dal nome inverosimile: Beno von Archimboldi. Solo in un secondo tempo, i quattro s'incontreranno (nel corso dei vari congressi sparsi e svolti per l'intero globo terracqueo su letteratura tedesca contemporanea) e potranno così mettere in comune le loro esperienze, confessarsi evidentemente paure e ambizioni, ecc. Il romanzo (di più di mille pagine) è di uno scrittore cileno morto giovane, Roberto Bolaño, il quale ci ha lasciato a 50 anni, nel 2003, senza avere avuto nemmeno il tempo per vedere pubblicata la prima copia della sua opera (postuma, per forza di cose e contro la sua volontà, immagino). Sono arrivato solo a p. 24 (l'ho comprato oggi, quasi per caso, il mattone, e quanto pesa!) e già mi sento completamente immerso nella trama, sono parte della spedizione, mi muovo nei pensieri dei quattro aspiranti esperti dell'opera di Archimboldi (i titoli dei romanzi che, si suppone, ha scritto in vita sono ancora più assurdi e inverosimili, tipo: "Bitzius" o "La perfezione ferroviaria"...). Penso: quant'è facile cadere nella trappola e lasciarsi impigliare dentro la ragnatela delle storie che, in numero indefinito (forse infinito), ci accompagnano sin da piccoli.
Poi, tornato dalla biblioteca, con la testa a fuoco e il cervello in panne, mi metto davanti al pc con l'intenzione di vedere un vecchio film (annata: 1958), così, tanto per passare il tempo, una robetta leggera. È uno degli ultimi capolavori di Max Ophuls (anche lui un tedesco? Come il fittizio/reale Archimboldi?) e s'intitola Madame de...; nella prima inquadratura, la dama (anonima) del titolo fa l'inventario delle pelliccie e dei gioielli, fino a scegliere e prelevare dal comò un paio di orecchini di smeraldo (o di corallo, o di cristallo, o roba simile) da rivendere al gioielliere di fiducia. Basta poco per addentrarsi nell'intreccio amoroso triangolare (come sempre): lui, generale, ama lei, bella e struggente, che ama lui, niente di meno che Vittorio De Sica, con la sua eleganza consueta e il sorriso da furbo (amante latino, chissà quante ne ha conquistate ai suoi tempi...). Non sono andato avanti perchè crollavo dal sonno. Eppure mi domando: riuscirà la cara madama del titolo a baciare davvero De Sica? E che fine farà il rivale, l'antipatico generale dagli occhi di cinese e le spalline condecorate da mille stellette? Chi l'avrà vinta tra i due?
Ieri, sempre in biblioteca, capto spezzoni di un dialogo: lui, faccia da cinquantenne single sfigato, semicalvo, con forfora: "Non vengo mai qui, ma si studia bene, vero? E il bar di sotto non è male, il caffè è decente, vero?". L'altro, cinquantenne elegante, giacca ma senza cravatta, faccia da professore, chiaramente infastidito, mentre sorseggia una coca davanti al distribuitore delle bibite: "Sì, è vero. Si sta bene". "Su cosa sta scrivendo?". E il prof.: "Un progetto complicato". E l'altro: "Allora, la saluto, e le auguro buon lavoro, alla prossima". E l'altro: "Grazie, anche a lei, arrivederci", con evidente imbarazzo. Restare impigliati nelle storie altrui. Fin troppo facile. Lunedì, quando tornerò a studiare in biblioteca, spero di non imbattermi nel tizio semicalvo. E se dietro il distribuitore ci fosse qualcuno che ascolta il nostro dialogo privo di senso? E perchè mai proprio il 2666? Fra ben 660 anni! Che cifre! E chissà se arriverò alla fine del tomo...o se avrò mai il coraggio di soddisfare la mia curiosità (e quella del semicalvo) e scoprire su cosa sta indagando il prof. della coca della biblioteca...Chissà che non si tratti davvero di Archimboldi...

lunes, julio 17, 2006

Quante cose possono succedere nell'arco di una settimana? Pochissime, oppure infinite (dipende, ovviamente). In una settimana ci si può laureare in Giurisprudenza con una tesi sulla libertà religiosa (come è capitato a mio fratello, Dadda, una spalla indiscutibile su cui piangere o da stringere forte nei momenti di sconforto), oppure si può vincere un Mondiale (come è successo all'Italia, con santo Buffon tra i pali, e la regia perfetta di Pirlo, il muro invalicabile di Cannavaro, la grinta di Gattuso, lo sprint di Zambrotta, la classe di Grosso). Oppure, ancora, si può rischiare di fare la fine di Antonius Blok (sottocitato e in foto - sotto, anche la foto...), e cioè, si può correre il rischio di vedere la Morte in faccia. Non deve essere un bello spettacolo. Fa paura, la Morte, non ci sono santi (nè cristi) che reggano. Come è accaduto a mio nonno, un uomo tutto d'un pezzo che si è fatto da solo (se non fosse che questa espressione, questo semplice modo di dire, si è trasformato negli anni nello slogan di uno degli esseri più immondi che politica nostrana abbia mai creato - ma per ora è fuori, e non ci tormenta troppo con i suoi sorrisi più falsi di un dente falso di Giuda). Mio nonno è stato contadino e muratore. Due lavori che stroncano la carriera anche a quelli dotati degli stessi muscoli di Hulk. Ha costruito la casa in cui viviamo; si è autoprodotto un vino che è talmente forte da ubriacarti al primo bicchiere; andava in giro per le strade della mia cittadina natia con la sua mitica Bianchina caricandola di ogni cosa possibile e immaginabile (fieno per i conigli, stabbie per le stalle, mangime per le galline, calce e cemento per i muri che erigeva come un vero artista, con abilità inimitabile e pazienza infinita - nonno ha sempre avuto il pallino della precisione e sapeva essere pignolo, quando ci si metteva di punta e allora, addio, era impossibile negargli un favore o farglielo a metà, lui comandava e tu eseguivi, agli ordini, maestro - mastro Pasquale). Ora giace in un letto d'ospedale e non sappiamo ancora fino a quando. Ha visto la Morte in faccia e sta giocando la sua partita. Quando lo chiamo mi riconosce. Si volta di scatto e si capisce lontano un kilometro che ha paura. Lotta la battaglia più importante. Quella il cui esito, purtroppo, tutti sappiamo. Non ci sono più crociati (non ci sono più veramente?), ma questo tipo di battaglie persiste. Inutile girarci intorno. Ha paura. E io tremo solo all'idea. E vorrei continuare a vederlo camminare e alzare fondamenta di case a prova di terremoto, e passeggiare nei suoi campi, con l'erba medica e le galline attorno. Quanto dura una settimana? E quante cose possono succedere nell'arco di una settimana. Osservo il volto del compagno di sventura di mio nonno. Un vecchio sull'ottantina che, dice, ha fatto la guerra ed è arrivato fino a Singapore. Ieri mattina si è svegliato di soprassalto e ha cominciato a chiedermi se avevo già fatto la visita medica. Che le infermiere lo avevano curato bene, e che i suoi soldati, i compagni di guerra, erano tutti sani e salvi e sarebbero ripartiti subito, con la prossima nave. Mi dice che ha attraversato a piedi l'Himalaya. Sorride e mi chiede se può dare un bacio sulla fronte a mio nonno. Io sorrido (come assecondando un pazzo) e non so che fare. Poi aggiunge: "Oggi lo vedo meglio, mi sembra che stia meglio", indicando il corpo immobile e malato del nonno. Io glielo lascio fare, stando attento a che non gli cada addosso. "La guerra è finita", aggiunge, sempre con lo stesso sorriso sulle labbra. "La guerra è finita e lui oggi lo vedo meglio, mi sembra che stia meglio", conclude, prima di ritornare al suo letto, zoppicante e convinto di vivere la fine della guerra.

jueves, julio 06, 2006


Ci sono certe scene che restano impresse nella mente, per non sappiamo mai quale oscuro motivo (la nostra labile, permeabilissima psiche essendo ancora un mistero, checchè ne dicano gli esperti psicologi, psicanalisti, psicoterapeuti, psico-ecc.). Per esempio, quella in cui Nicholas Cage s'imbatte, in compagnia della biondissima (e sciroccata) Laura Dern, in un'auto appena incidentata. Ci sono delle vittime, il parabrezza è distrutto, i vetri si mescolano al sangue dei passeggeri, sembra essersi salvata solo una ragazza che - se la memoria non m'inganna - sbuca da dietro un cactus gigante e chiede: "Dov'è la mia borsa? Dov'è andata a finire? Devo trovare la mia borsa, se non la trovo mia madre mi uccide", con gli occhi spiritati e toccandosi la ferita sulla testa. Nicholas Cage consiglia a Laura Dern di allontanarsi da lì, che ci sono morti e che tra poco morirà anche la ragazza (trauma cranico?). Laura Dern la contempla orripilata e allibita, non sa se urlare o piangere, mentre la ragazza continua a disperarsi perchè non trova la benedetta borsetta, finchè non si accascia a terra e spira, in mezzo al sangue e alla polvere del deserto (una scena in perfetto stile David Lynch, un mix spaventoso di orrore e humor nero - Wild at Heart, il titolo del film, mi pare sia del 90 o 91 - è stato tradotto in italiano con Cuore selvaggio, non una traduzione letterale, ovviamente).

Oppure la scena in cui il crociato Antonius Blok, stanco da tanto viaggiare e tanto combattere per difendere (con la spada) la parola di Cristo, si siede su un prato, accanto alla carrozza di una famiglia di saltimbanchi e giullari (madre bionda e molto bella, padre buffone e bambino piccolo e cicciottello). Lo spettatore sa che Blok sta giocando una partita a scacchi con la Morte. E che, probabilmente, è condannato alla sconfitta (la Morte è infigarda e anticipa ogni sua mossa sulla scacchiera - le pedine saranno vite umane da tagliare con la proverbiale falce). Eppure, in quel momento, al tramonto, Blok si rilassa, e afferra la ciotola di latte che gli porge la moglie del giullare e osserva il sole e si lascia carezzare dal venticello del crepuscolo e mangia fragole appena colte e dice parole che non ricordo, ma che lasciano trasparire tutta la sua malinconia per un mondo che sì, sarà pure brutto, e pieno di peste, malattie e morte, ma quant'è bello quando è tutto così calmo e raccolto, basta così poco, un po' di latte, un'allegra compagnia, un po' di fragole (poesia pura, da uno dei film più famosi di Ingmar Bergman, Il Settimo Sigillo, il titolo del film del 56 o 57 o 54, bah, non ricordo).

Oppure la scena in cui Woody Allen, sullo sfondo di New York (in fondo i grattacieli di Manhattan, più in evidenza il ponte di Brooklin), abbraccia Mia Farrow e le dice che no, che non la ama soltanto, la strama, la ama al quadrato, la strapazza, la bacia e la stringe forte a sè e la ribacia e Mia Farrow gli dice: "Ma sei sicuro? Davvero?", per poi aggiungere: "Tu sei tutto matto", e Woody Allen si scioglie tra le braccia di quella donna fantastica (così interessante, così intrigante e bella e insicura - se non erro, tartaglia e balbetta, proprio come il personaggio cronicamente insicuro che interpreta il regista-scrittore-attore-autore più ironico e pessimista del mondo)...

Due scene di morte e una d'amore. Non so perchè, oggi, a quest'ora, mi ritornano in mente queste 3 scene da questi 3 film (Stardust memories, o Annie Hall, quello di Woody Allen? Intorno agli anni 80, circa)...

Questa distanza che ci separa. Quanta la distanza.
Ascolta: le telefonate che non portano a nulla,
le discussioni infinite, mentre la radio
balla a dispetto del nostro stato d'animo,
della gente che si perde e che non si ritrova mai
al punto giusto, al momento giusto, sempre le mosse sbagliate, quando ormai è troppo,
troppo tardi.

Questa casa che non hai mai visto
e in cui non arriverai mai e che, perciò,
non conoscerà quel tuo sorriso che
ti riempie di luce con gli occhi della bambina
che sei e resterai, nonostante il passare
del tempo (il lento e inserabile passare delle ore).

Me ne vado. Sento la porta che sbatte,
vedo gli appuntamenti mancati,
ricordo i baci e le carezze non date,
mi rammarico in ritardo,
quanti i treni persi e quanti quelli presi al volo,
insieme, io e te, il rumore di fuori
che si confonde con le conversazioni sciocche di
passeggeri distratti,
quando due si promettono amore eterno
e il tempo se la ride e corrode i tendini, senza che noi
ce ne accorgiamo,
me ne vado, e non venire a cercarmi.

Quanti viaggi insieme, e io che pensavo:
qui sí, qui ci mettiamo le radici,
basta con i fusi orari, me lo merito,
che ne pensi? Ti piace il colore?
Ci entrano tutti quei libri? Da lì si vede il tramonto?

È questo il destino: questa la rotta,
questa la nave(tutta ammaccata) e questa la malinconia
del viaggiatore che non sa a che ora approderà
e se ci sarà qualcuno ad aspettarlo.

lunes, julio 03, 2006











Mentre ascolto una bellissima canzone da Push the Bottom dei "Chemichal Brothers" ("Marvo Gingo", il misterioso - ed esoterico - titolo), ripenso ai mille volti che ho incontrato per strada in questo fine settimana paurosamente "pieno di cose, di gesti, di persone, di... volti", appunto. Rivedo una bambina con in mano dei palloncini che, sulle spalle del padre, grida a piena voce una canzone dal ritmo forsennato di cui disconosco autore e titolo; rivedo una coppia omosessuale che si bacia in pieno centro, indifferente agli sguardi (divertiti alcuni, di censura talaltri) delle persone che si trovano a passare di là. E rivedo un tipo, un africano, che mi dice: "Stai attento ai cinesi, ti rubano i soldi"; solo perché sono entrato in un negozio di cinesi per comprarmi la scheda internazionale che uso per chiamare i miei e mettermi in contatto con Alyssa (quando non possiamo via Skype o via Messanger, cioè sempre: ma si può? Lei, l'unica persona con cui davvero ci passerei le ore a gratis, devo sentirla dalle cabine, con il sottofondo - o bassofondo, o "colonna sonora" involontaria - di macchine, clacson, gente, casino ovunque, sempre e ad ogni ora, dalla città da cui scrivo -Nowhere? La zona del crepuscolo: "Twilightzone" in inglese, se non vado errato e la memoria non mi tira un brutto scherzo -chiudo parente). E poi rivedo... sì, un gatto: rosso, come Biscotto (quello di Alyssa, che più mangione e rozzo non si può) che mi osserva dal balcone di un appartamento al quarto piano di una palazzina poco lontana da qui, da dove scrivo e abito(e provo a studiare). E' stato davvero simpatico: io lo guardo, lui mi guarda. Sono le 4 del mattino: io stanco morto, lui beato e tranquillo, da sotto la sedia di plastica dei padroni. Io a pezzi, e mezzo ubriaco e lui, il gatto insonne, che sembra prendermi per il culo, come a dire: "Vai, vai a dormire, tanto è sempre la stessa storia, notte da leoni...mattina da coglioni...e io me ne frego, e ti osservo dall'altro del mio quarto piano, mica cazzi". Il bello viene dopo: faccio degli incubi assurdi, parlo con Paul Auster, vedo la fine del mondo insieme a mio fratello, corriamo davanti a una discoteca con la bicicletta, ma poi buchiamo e dobbiamo continuare a piedi. Ah! Che tempi!

Poi rincaso (con la faccia rossa dal sole che ho preso senza protezione alcuna in piscina - Rosy mi ha fatto un test: odio i test, ma ancor di più, quelli i cui risultati "ci azzeccano"). E trovo Ambar, l'altra mia coinquilina, che sta scrivendo al computer non so cosa. Glielo chiedo. Mi domanda: "Mi dai una mano? Si tratta di una lettera e di un questionario: dall'italiano all'inglese, mi puoi dare una mano?". La cosa sinceramente m'incuriosisce. E così, mi metto d'impegno a leggere quell'allegato e scopro che c'è un prete che ha realizzato le colonne sonore di varie serie tv a carattere religioso (marcatamente cattolico) e che, per questo e in nome del suo lavoro (in nome di Dio?), ha ricevuto vari premi da parte della critica americana. E io che non sapevo nemmeno che esistesse, una critica che si occupa esclusivamente di giudicare le colonne sonore di film, serie e telefilm vari! Quanta mancansa d'ignoranza!(Marco Paolini docet) E non solo: scopro che questo tizio gestisce una scuola in cui arruolano i futuri migliori coristi del Vaticano. Bah! Il tipo inglese gli sottopone un'intervista, una serie di "questions", appunto: "Crede che, dopo il successo da lei ottenuto per le sue colonne sonore religiose, riceverà offerte da parte di registi per comporre anche per film di carattere laico, di suspense, drammatici, comici?". E m'immagino la faccia del prete dinanzi a simili domande. E ripenso al gatto strafottente, che mi piglia per il culo dal balcone, e alla coppia omosessuale che si bacia allegramente per la strada, e alla bambina che grida al cielo la sua gioia, e alla nonna che pulisce il nipotino in piscina, schiaffeggiandogli simpaticamente le chiappe, e al tipo che mi ha venduto un maxibon con panna e caramello (che in Italia ancora non si trova, almeno, per quanto ne so e ricordo) e ricordo...

Come scrissi in magismagisque commentando il primo post di Rosy: "Non siamo noi a non avere tempo, è il tempo che non ci possiede", citando ovviamente e verbatim il fuso-orario di Enrico - Ghezzi.

miércoles, junio 28, 2006

Religione? Libertà di?

L'altra notte mi ha chiamato Dadda, mio fratello (come ama chiamarlo Ale, mia sorella). Mi ha chiesto di trovargli un'epigrafe giusta per la sua tesi di laurea sulla libertà religiosa. Abbiamo cercato entrambi su internet e ci siamo accorti di come tutti (o quasi) gli aforismi che concernono la religione siano in realtà frasi "storiche" anti-religione. Si va da Marx (secondo il quale la religione, come sanno tutti, anche senza aver mai letto Marx, è "l'oppio dei popoli") a Cesare Pavese ("E' religione anche non credere in niente"), passando per l'autore dei Miserables ("La religione non è altro che l'ombra gettata dall'universo sull'intelligenza umana") e per l'esiliato di Sant'Elena ("La religione è ciò che trattiene il povero dall'ammazzare il ricco", il più cinico di tutti, Napoleone, a quanto pare...). Come risolvere la questione? Ho pensato: vediamo cosa dice Ghandi al riguardo e salta fuori questo: "Dio non ci dimentica mai, siamo noi che dimentichiamo Lui", frase fatta, sembra una cosa da nulla, poi ci rifletto, non puoi metterla ad epigrafe di una tesi in cui si difende la libertà religiosa e questo mi sa troppo di cattolico per essere abbastanza "onnicomprensivo", ci rinuncio, Da, pensaci te, io non riesco a trovare una frase adatta, che ci possiamo fa? Nel frattempo, dall'oggi al domani, come suolsi dire, mi sono trovato a fare l'ennesimo trasloco. Da una strada centrale alla periferia, in compagnia di due mie care amiche, studentesse anche loro, di "Periodismo", come si dice da queste parti, traducibile con "Giornalismo", ma non esiste, forse, o mi sbaglio, e c'è, eccome, l'espressione esatta: "Scienze delle comunicazioni", sì, potremmo tradurlo così, anche se qui, da dove sto scrivendo, mettono l'accento solo su uno dei molti mezzi di comunicazione a disposizione, evidentemente.

E fa sempre molta impressione vedere come il corpo deve re-imparare tutto daccapo, come devi riabituarti a calcolare le distanze tra te (il tuo corpo) e gli oggetti esterni che ti circondano e con cui non hai affatto (ancora) confidenza (per cui, diciamoci la verità, diventa complicato anche solo azzeccare, meglio, centrare, la posizione dell'interruttore di notte, quando la casa resta immersa nell'oscurità e le tue amiche dormono sonni tranquilli e tu soffri di caldo e muori d'insonnia e ti ricordi che esiste anche la tua vescica, che è inutile, è sciocco far finta di nulla, cazzo, quest'interruttore deve pur esserci, deve pur spuntare prima o poi da qualche parte prima che poi sia troppo tardi e la vescica minacci pipì sulle lenzuola, nemmeno i bambini, su, dai, accidenti, ma dove sarà mai, in questa casa non si vede una cippa, azzo...). E fa sempre piacere assaporare il nuovo ordine delle cose: l'asciugamo lindo accanto al lavandino, il bagno stesso impregnato dai profumi delle tue amiche, la tazza pulita, non come quella che lasciano i tuoi coinquilini a Roma, la doccia funzionante (mi sono fatto una doccia per provare a combattere l'insonnia: ma invano. Fa troppo caldo. Allora, ho pensato: ora mi guardo un film allucinante, uno di quei film che ti fanno calare la palpebra e ti fanno addormentare ipso facto e hic et nunc, qui ora subito e all'istante, e mi son messo a vedere Mr Smith va a Washington dello strappalacrime (e strappapalle, a volte, diciamoci la verità) Frank Capra, quello de La vita è meravigliosa.

Macchè, mi è piaciuto, mi ha coinvolto seguire le arringhe di James Stewart al senato degli Stati Uniti d'America, ispirato dal più sano e idealista senso civico e dalla statua dello stesso (sè medesimo in persona) Abramo Lincoln...Come difendeva la sua causa, il bravo ragazzo venuto dalla provincia e ignaro (completamente all'oscuro, pivello com'è) degli ingranaggi e dei colpi bassi e dell'ipocrisia materialista imperante all'interno di quello che si suppone sia uno degli organi basilari per il corretto e buon funzionamento della politica americana...Dio, quanta retorica, e quante scene costruite apposta per emozionare lo spettatore ingenuo, mi domando come avranno reagito davanti a quel film i milioni di americani che sono andati a vederlo quand'era ancora solo una novità in cartellone, quanti lo rivedono oggi (a parte me, che sono un caso appunto "a parte") e se Bush non gli abbia dato un'occhiata, facendosi venire qualche rimorso di coscienza (ma avrà la coscienza uno che si fregia di esportare la democrazia con la guerra? Bah).

E poi ci penso, ci rifletto e mi sovviene che oggi - o ieri? Sto perdendo i colpi - è il 29 e io e Alyssa festeggiamo il mesiversario (sic!), ogni mese lei si ricorda del giorno in cui ci siamo messi insieme, lungo le rive dell'Arno, quando io, invece, smemorando di natura, non ci faccio mai caso, e allora perchè, mi domanda giustamente Alyssa, te ne ricordi sempre quando sei lontano? E che ne so, le ho rispost, che cavolo ne so io, forse sono masochista e mi piace soffrire al ricordo di te e del tuo corpo e dei tuoi baci e delle tue carezze, quando so per certo che dovrò aspettare ancora molto prima di tornare ad assaggiarli (i baci) e a risentirle (le carezze) e rivederlo in figura intera e in versione nature (il corpo). Ebbene, sì, Alyssa mia: oggi "facciamo" 5 anni e 2 mesi e io non so più come fare per spiegartelo: ti voglio bene. Anche se a volte sembra tutto il contrario e ti tratto male e ti faccio del male e mi meriterei un tuo vaffanculo vita natural durante... Comunque, sappilo: l'asinello è accanto al Don Quijote in legno e mi ricorda di "provarle tutte... e di non mollare mai!"
Dunque, vediamo. E' notte. Fa caldo, nella capitale del regno (quale? Uno qualunque, fate vobis). E' la prima volta che mi sento osservato: da un lettore futuro, da un altro-da-me possibile, potenziale e futuro di cui ignoro volto, età, sesso, tutto. Come si sente colui che intraprende la scrittura di un diario personale sapendo che verrà letto da qualcuno? Come ipotizzare e ipostatizzare quel destinatario plurimo e senza volto? Divago, deliro. De-lirare: s-va(n)gare oltre i confini. Così come divago è a metà tra divertimento delirio e svago. Ci giro intorno (e in tondo) insomma. Cercando una possibile via d'uscita (senza emergenza, non c'è fretta). Il filo d'Arianna che conduce alla salvezza e ci permette di tornare a rimirar le stelle. Nel mezzo del gioco del cammino (tracciato da chi? Non lo so; l'altra sera, ad esempio, chiacchieravo con Rosy, davanti a una tazza di caffè e con in mano una bella sigaretta di queste parti - sono più economiche di quelle che compriamo in Italia -, e mi diceva che non poteva non dirsi "cristiana" - è stata battezzata ed è arrivata fino alla cresima, pur se con poca consapevolezza - e che, ciononostante, si sentiva vicina a chi dice di non credere - in dio o in un'entità astratta suprema e superiore alla nostra conoscienza e ai limiti della nostra ragione; chi l'ha costruito il labirinto? Dedalo, potrebbe rispondermi qualche secchione dottorando di Letteratura Inglese "de cuyo nombre no quiero acordarme"..., ma sto di-vagando, appunto, perciò torno nei limiti e chiudo la parentesi). Dunque vediamo: è la prima volta che scrivo sul mio cosiddetto (e all'americana - quanto strapotere questi americani, perfino nella lingua, che è quanto ci rende uomini, secondo Aristotele - o era Platone?) "blog" e non so come, quando, perchè partire. Ma siamo in viaggio, questo lo sanno tutti, anche quelli che non hanno mai letto Omero ma sanno di chi si parla quando parliamo di Ulisse (uno che, in quanto ad astuzie, ne sa una più del Dedalo, tanto per continuare a svagare e di-vagare e sragionare, che è un modo molto divertente di ragionare, a mio modesto parere). Eppure non me la sento; mi sento stanco, a volte; eppur si muove e continuaimo, consci dei pericoli della traversata...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...