martes, mayo 29, 2007

Quando tutto è già successo

[tentativo pseudo-filosofico di spiegare qualcosa che succede a tutti, almeno una volta nella vita, e forse anche più d'una, come accade per il famoso dejà-vu...]

Il tempo è un enigma, lo sanno anche i bambini (o forse no, loro non lo sanno e per questo non si pongono tanti problemi, tutto passa, un minuto dura un'eternità, chiudo subito parentesi, non vorrei dilungarmi troppo, passo e chiudo). Ultimamente, per me, è diventata un'ossessione. Ho letto fin troppi saggi sul tempo; ho anche scritto qualcosa; ho parlato del tempo con più d'una persona amica (e perciò, paziente: tra queste, Alyssa, forse la più paziente...).

Il punto è questo: l'altro giorno ho vissuto un'esperienza proustiana (o bergsoniana? o freudiana?) a metà tra il "dejà-vu" e l'allucinazione visiva. Scendevo dal treno Pisa-Firenze quando incrocio solo per un secondo lo sguardo di Ilaria. Ilaria, era lei, non ho dubbi. Circa 7 anni fa Ilaria era una mia vicina di casa, viveva a Roma, nell'appartamento continguo al nostro (mio, di mio fratello e di altri due studenti fuori-sede e, a volte, anche fuori-luogo). L'ultima volta che la vidi fu una mattina d'inverno, di nascosto, insieme alla mia ex, Carmen, spagnola di Cantabria... Erano le 5 del mattino, tornavamo (piuttosto ubriachi e sfatti di canne) da una festa in maschera... Aprimmo la porta con certo strepito e poi andammo al bagno, uno per volta, da bravi bambini. E poco prima di andare a dormire, tornammo in cucina per bere un po' d'acqua. Quando all'improvviso sento dei gemiti dalla sala (l'appartamento della mia ex aveva perfino la sala, sì, non come il mio, che a stento aveva i letti per dormire...). Carmen s'incuriosisce, entrando non ci avevamo fatto caso, sembrava non ci fosse nessuno. Socchiudiamo la porta e io la vedo... Vedo Ilaria, i capelli sciolti che le coprono il viso, l'espressione beata di chi gode, un ragazzo tra le sue gambe aperte che, evidentemente, le sta praticando ciò che un sessuologo chiamerebbe (con orrido latinismo) un cunnilingus (spero d'aver azzeccato la grafia...), insomma, gli sta leccando placidamente e con tutta la passione del caso la farfalla (per dirlo con un eufemismo che avrebbe fatto adirare Vladimir Nakobov, espertissimo cacciatore di farfalle).
Carmen si mise a ridere e io la tirai indietro. Chiudemmo la porta e andammo a letto, era brutto spiare qualcuno in simili frangenti, no?
Ebbene, sono trascorsi 7 anni e l'altro giorno la rivedo, è Ilaria, coincide tutto (capelli lunghi ricci castani, occhi neri, sguardo, quello no, non era così "godereccio", anzi, sembrava contrariata - il treno già stracolmo di passeggeri, forse in ritardo, direzione Livorno: coincide tutto, Ilaria era, anzi, è, di Livorno, qualche amica in comune mi disse anni fa che si era stufata di Roma e tornava lì dove era nata, Livorno). Lascio immaginare al lettore l'imbarazzo, il senso di vertigine temporale, l'annullamento istantaneo degli anni (dei mesi, delle ore e dei minuti) che ho provato quando il mio sguardo ha incrociato per una minima frazione di attimi il suo (ma non mi ha riconosciuto, altrimenti, voglio sperare, qualcosa avrebbe detto o fatto, e allora sì, mi sarei sentito un po' in imbarazzo, dato che l'ultima volta che l'avevo vista era in quella posizione e in un frangente tanto intimo... la passione che coglie alle ore più impensate, la voglia che cresce, sudore e umori e saliva mescolati insieme, l'alba alle porte, un divano così morbido e comodo... chi non ne avrebbe approfittato?).
Ci ho messo un po' a tornare a vivere il mio presente.

E poi c'è il futuro.

Lavoro con una fauna variegata d'esseri umani (da quelli più coglioni a quelli più stronzi, dagli "accettabili" agli onesti, la gamma è variopinta, ma non vasta). Tonino, napoletano d.o.c., sessantenne quasi in pensione, per gli amici Tony, mi spiega la sua teoria sul tempo, in un momento di pausa e sigarette e caffè, quando i clienti non rompono e l'aria torna a farsi respirabile. Mi spiega che lui evita di piangere, e di mantenere sempre i nervi saldi. Mi dice che ci riesce perchè "anticipa" le disgrazie; basta che senta l'odore di qualcosa che deve (o sta per) andare storto e lui s'immagina quello che è successo come se già fosse successo e lui stesse già vivendo un momento posteriore, quindi, ormai appartenente al futuro. Mi porge un'esempio (che mi ricorda un film, ma, al momento, mentre Tony me ne parla, non mi viene in mente che film è, non ricordo il titolo, cosa che farò dopo, sul treno Pisa-Firenze). Un giorno, a mezzogiorno, lo chiamano sul cellulare. E' sua figlia, di trentaquattro anni. Gli dice che la mamma (sua moglie) ha avuto un incidente. Tony scappa con la macchina e quando arriva l'autombulanza sta caricando il corpo ferito della donna. Non piange, non urla, non si spaventa. Con la mente si vede già vedovo. Immagina già cosa succederà se lei muore. Corrono in ospedale, lui monta in macchina e va a 40 all'ora. Non serve correre, sa già cosa succede. Passano due ore e i medici gli dicono che si salverà. Trauma cranico, ma passerà. La colonna vertebrale è integra. Solo qualche frattura al braccio sinistro. Tony mi sorride: "Sapevo già tutto".
Il film a cui pensavo (e che solo dopo avrei ricordato) è uno dei più belli tra quelli girati fino a oggi da Nanni Moretti: ne La stanza del figlio, il padre non sa che il figlio è morto, nemmeno la madre sa niente. Eppure... Due inquadrature accelerate e montate in parallelo si susseguono e ci preparano all'evento tragico: Giovanni (il padre protagonista del film) viene avvisato e corre con la macchina, la strada è piena di curve e qualche camion gli sfiora pericolosomante la fiancata; Laura Morante (la mamma) è al mercato e viene urtata da uno che sembra un ladro scippatore, ma forse è solo uno che va di fretta a lavoro; ora che ricordo meglio c'è anche l'inquadratura della sorella del ragazzo, che è in giro a fare la scema col motorino, insieme ai suoi amici, e anche in questo caso, noi, spettatori, non lo sappiamo, ma pre-vediamo che qualcosa di orribile è già accaduto. La morte del ragazzo, appunto. Tony avrebbe sorriso. O forse no. Il tempo (sia quello ricordato che quello anticipato, a volte, direi, "superstiziosamente anticipato") continua ad essere un mistero...

domingo, mayo 27, 2007

Quando ringraziare è segno di buona educazione



Padova. Si è dato il caso che per motivi di lavoro (ovvero: di studio) abbia trascorso due giorni a Padova. La cosa non sarebbe accaduta (meglio: non avrebbe affatto avuto luogo) senza l'appoggio morale e l'aiuto pratico di alcune persone. In un mondo (e in un'epoca) in cui ringraziare è diventato fatto quasi "raro", voglio cogliere l'occasione per incidere sul marmo virtuale della rete (e sulle pagine eteree di questo blog) i nomi di due persone che, in particolare, mi hanno dato la loro mano. Aurelia, per gli amici "Auri", si è sobbarcata l'onere di sostituirmi a lavoro, beccandosi uno dei turni peggiori (grazie Auri, sai che il favore sarà ricambiato, basta chiedere e ti verrà dato, fosse anche il giorno di maggiore afflusso di barbari); mentre Gabriele mi ha accolto nel suo appartamento padovano con un'ospitalità generosissima, senza risparmiarsi nemmeno nelle ore più notturne, quando l'attenzione scende e la fame è tanta, quando l'orologio segna un'ora che il cervello non riesce più a percepire, tanto è sfasato il resto del corpo (grazie, Gabriele, sai che non appena metterai piede a Pisa avrai un compagno di sbronze col quale lenire il tuo stress da professore "a contratto" - o col quale gioire per la tua serenità relativa da "assegnista di ricerca").
Padova, dicevo. Padova assomiglia a Bologna perchè il centro storico è attraversato da una bella schiera di portici (sono utilissimi d'estate, perchè ti proteggono dal sole cocente; immagino lo siano anche d'inverno, quando piove e non occorre andare in giro con l'ombrello); al contempo, Padova ricorda molto la non molto distante Venezia (20 km, col treno ci si impiega al massimo dieci o quindici minuti). Come nellà città lagunare, così a Padova esiste una Piazza delle Erbe e una Piazza dei Signori (o almeno, così credo, se non ricordo male). Come là anche qua si possono incrociare ponti e ponticelli, agli angoli delle strade maestre, con un ruscelletto (o fiumiciattolo) che scorre placido e va a sfociare chissà dove (sono ignorante in geografia). A Padova la vita universitaria la si respira da subito: annunci di posti letto affitasi da Lettere a Scienze Politiche. Il Rettorato conserva ancora la sua maestosa seriosità. Le studentesse si riuniscono spesso a prendere l'aperitivo nei locali più "trendy". Qualcuna prende il sole, beatamente distesa sui prati del Prato della Valle, dai padovani considerata una delle piazze più grandi d'Europa (se non la più grande). A pochi passi dal Prato spicca la monumentale Basilica di Sant'Antonio; il turista che soffre il caldo afoso di questi giorni può trovare refrigerio se, in punta di piedi e con tutto il rispetto dovuto ai luoghi sacri, si addentra lungo la navata centrale e si prepara a perlustrare quelle laterali sotto la guida del caso (alle pareti, dipinti di scene sacre, lumini accesi, candele, pulpiti, reliquari vari, confessionali, crocefissi e quant'altro). Corso Garibaldi e Corso del Popolo, invece, sono i luoghi pagani del centro città: tanti negozi (gli stessi che trovi a Fiesole o a Milano o a New York - ah, la globalizzazione!), tante belle fanciulle a spasso col loro cagnolino, groppuscoli di studenti delle medie in gita e gruppetti di trentenni in cerca di materia prima. Si fa presto ad arrivare alla Stazione centrale. Leggo l'ora (13,43) e la temperatura (33 gradi). Raccolgo le ultime energie, regalo due briciole del panino a due piccioni che mi seguono fino al binario 2 (razza di scorta), assaporo per l'ultima volta il profumo dei gelsomini che popolano l'entrata e l'uscita della stazione, bevo il caffè e fumo una Camel Lights. Poi salgo sul treno e rivedo accelerate Bologna, Prato e Firenze.
Tutto ciò, anche grazie a loro: Auri e Gabriele.

miércoles, mayo 23, 2007


Ascoltando "Roma capoccia"


Il Milan ha vinto (per me poteva anche perdere) e soffia un venticello leggero che accarezza la fronte e asciuga il sudore della corsa in bici Lungarno. Ascolto la famosa canzone di Venditti e mi viene in mente er Cupolone, sua santità, con Via della Conciliazione illuminata a festa (non scorderò mai i cornetti al cioccolato di quel bar in via Barletta... alle tre di notte, di corsa, con il motorino scassato di mio fratello); Via Veneto, agghindata per i ricchi turisti che ci passeggiano lentamente con gli occhi proiettati verso la felliniana dolcevita; Trastevere, con le sue osterie (meglio: ostarie) dove ti servono ancora in dialetto romanesco puro 100% e i piatti strabordano di spaghetti all'amatriciana (da Amatrice, se non erro)... e poi Piazza di Spagna, con la scalinata di Trinità de' Monti a quest'ora sicuramente addobbata con i grossi vasi di fiori di ogni specie, con i colori che si riflettono sull'acqua della cosiddetta Barcaccia, di Bernini (padre e figlio: Pietro e Gian Lorenzo), la targa del poeta Keats in bella vista, sotto qualche cartellone pubblicitario di Versace o Valentino... e poi Piazza Vittorio, con le sue palme enormi e i cinesi che fanno il solitario al computer coi negozi aperti fino a tardi e i pakistani e gli altri arabi che fumano e smerciano chissà cosa dietro i bidoni della spazzatura e agli angoli delle strade, con i romani che si lamentano sempre perchè lì ormai sembra Chinatown e non c'è più un italiano (quando non è vero e il mix dà vita all'armonia, anche musicale, come è stato per l'Orchestra di Piazza Vittorio, sì)... e poi Via Leopardi, dove vive mio fratello, che a quest'ora starà fumando sul balcone l'ennesima sigaretta e pensa a risolvere un caso davvero ostico... e poi la stazione Termini, la mia seconda casa, quando si trattava di smaltire una sbronza, o una storia d'amore andata a finire male, o quando dovevo aspettare il notturno, o il treno, o riaccompagnare qualche amica a casa, verso viale Reggina Margherita, vicino all'Università La Sapienza, con la sua statua di bronzo, la Minerva (circolava la leggenda che se la guardavi prima di sostenere un esame allora ti bocciavano e andava male)... e il quartiere del Tufello, con le sue agenzie di viaggio e i suoi giovani sbandati, le coppiette e la gente che porta a spasso il cane a ore improbabili, come quando io e Roberto facemmo colazione alle 5 del mattino e c'era un cacciatore (con tanto di carabina) che aveva fatto spesa (latte, biscotti, una bottiglia di whiskey e tre bomboloni da portar via)... e la stazione Tiburtina, ben più anarchica e sporca di Termini, mi basta pensare all'ingresso e chiudere gli occhi per vedere quella zingara con due figli piccoli che chiede l'elemosina e ti fa tenerezza perchè chiede con garbo, non è insistente come le altre, che ti vogliono leggere la mano o ti vendono fazzoletti di carta e intanto ti maledicono... il Verano, coi suoi lumini sempre, eternamente, accesi, come a ricordati: vai piano, non correre, i tuoi ti aspettano... anche se poi quella sarà la tua casa, la fissa dimora... e il Gianicolo, da dove si contempla da lontano il labirinto delle strade della capitale, Roma capoccia, der monno infame, con il suo smog e il traffico e i rumori e i romani e i turisiti e gli stranieri e i musei e i panorami più emozionanti, soprattutto nelle ore del primo mattino, all'alba, quando il sole sta per spuntare sulle guglie delle chiese valdesi e i camion della spazzatura tornano alla discarica e i tassisti sonnecchiano nei loro taxi e l'ultima coppietta si saluta all'ingresso del palazzo, lei ha sonno, lui la bacia, si promettono amore eterno, domani è un altro giorno, accelero perchè anch'io ho un sonno che muoio e mi sento anche piuttosto alticcio, accelero e supero via del Castro Pretorio, via del Muro Torto, Piazza Fiume, poi sono finalmente a Piazzale dell'Indipendenza, Termini per me ormai è un faro di salvezza, con le sue luci eternamente accese, come quelle delle tombe del Verano, grazie Roma, cantava lo stesso di Roma capoccia...

sábado, mayo 19, 2007

L'Irlanda

In uno dei momenti più difficili e duri e angoscianti della mia vita, in una fase di passaggio e di precarietà assoluta, in una settimana durante la quale ho sofferto e fatto soffrire la persona che credo di amare fino alle lacrime, piangendo al telefono fino alle 3 del mattino, lottando coi sensi di colpa e coi fantasmi del passato, straziati entrambi dall'ansia di perderci per sempre di vista e per strada, mi sono capitate comunque due cose di cui sorridere o rallegrarmi. La prima: sono riuscito a riunire ad un tavolo un nutrito gruppo di amici per mangiare una buonissima pizza "alla napoletana" in allegria (l'amicizia è qualcosa di sacro, quando è vera, quando ci si dà e ci si ascolta senza compromessi e senza pregiudizi; come l'amore, anche se, a differenza dell'amicizia, quest'ultimo tenda sempre a "impossessarsi" dell'altro...); la seconda: ho lasciato una bella impressione a una turista irlandese che mi è capitato d'incontrare nel mio nuovo lavoro (il destino, o la sfortuna, o la fortuna - o è solo tutto frutto del caso - ha voluto che io intraprendessid da poco una brillante carriera da "auto-noleggiatore" all'aeroporto di Pisa). Mi sono limitato a fare il mio lavoro, senza esagerare. E la prima volta che ci siamo visti mi ha chiesto il nome: "Antonio, wonderful, you speak english very well". Le ho spiegato che l'avevo studiato all'Università e che mi sarebbe comunque piaciuto "improve" il mio livello di conoscenza magari con un bel viaggetto a Londra. Lei, irlandese, mi ha consigliato Dublino. "You shoud go in Dublin, there we speak the original English", mi spiega, orgogliosa e sorridente. Oggi è tornata dal viaggio, ha restituito le chiavi e mi ha subito riconosciuto. "Hi, Antonio, how are you?". Sotto il sole che squaglia la testa e ottenebra anche le menti più lucide le rispondo, ipocritamente, che sto benissimo. Lei scende dall'auto e, davanti al marito impassibile, mi regala due litri di acqua fresca, un mazzo di giornali irlandesi, una rivista letteraria e una scatola di tè "original English" della marca Twinings. "For you, Antonio", e non posso non accettare. Poi mi saluta, per sempre. Si chiama Muirín, un antico nome irlandese che vuol dire: "born of the sea", nata dal mare. Non la dimenticherò mai, Muirín, che tanto gentile e tanto onesta pare...

viernes, mayo 18, 2007

Ci sono dei momenti nella vita in cui bisogna scegliere. Sono quelli i momenti che t'indirizzano da una parte o dall'altra e che, in parte, determineranno il resto della tua vita (professionale, sentimentale, familiare, etc.). L'eroe tragico mette in mostra tutte le sue qualità (o mancanza di qualità) nei momenti decisivi della scelta: Amleto si arrovella se seguire il dettato del fantasma del padre e uccidere lo zio, marito precoce, troppo lesto, della madre vedova; Edipo risolve l'enigma della Sfinge, ma sbaglia nell'ambito dei propri affetti familiari, finendo al letto con la madre e uccidendo il padre; due eroi non tragici sono i due matti che aspettano Godot in Waiting for Godot di Beckett: non tragici perchè non si arrovellano, non agiscono, aspettano, anche quando non c'è assolutamente niente da aspettare (in questo caso gli effetti sono tragicomici).
Io non so cosa scegliere e il dubbio diventa crisi e la crisi diventa paralisi. Con un piede qui e uno là - ma non si può vivere stando per sempre a metà tra due sponde. A volte chiediamo consigli ai nostri amici, o parenti o conoscenti, solo per sentirsi dire quello che già sappiamo, ciò che vogliamo e che abbiamo già scelto, interiormente, ancor prima di porci domande, ancor prima di proferire una frase completa di senso compiuto. Ne ho avuto conferma: la mia cara lettrice (una delle poche di questo blog) ieri notte mi ha detto: "Se parli così, e ragioni in questi termini, allora vuol dire che hai già deciso". Poi, mi ha regalato una bottiglia di Nebbiolo del 2004 (grazie, Si, mi hai davvero fatto una bella sorpresa).
Non so che scegliere e sembra che abbia già scelto. E non so se faccio parte di una tragedia, una commedia o (sarebbe meglio) una tragicommedia...

viernes, mayo 11, 2007

A cena coi famosi

"Con chi andresti a cena dei personaggi famosi che ci sono oggi in Italia?". Soffia il vento, ma fa caldo. Il sole bolle l'asfalto dell'aeroporto. Gabriel è in procinto di ripartire per Praga (da Pisa) e se ne esce con una domanda che non ha nè capo nè coda, visto il momento e l'ora (15,50 p.m.). Abbiamo da poco chiuso l'argomento "donne", dopo aver parlato di "letteratura", "politica italiana" e "corruzione universitaria". Provo a rispondergli, reggendogli il computer portatile (Gabriel si fa carico degli altri bagagli: un valigione enorme, una chitarra, una busta con un panino e la coca-cola):
"Beh, tra i famosi... direi: Nanni Moretti. Sì. Con lui ci andrei a mangiare una pizza; anche se nella realtà non credo sia così simpatico e ironico come appare nei suoi film - eccezion fatta per La stanza del figlio, e l'ultimo Caimano, troppo didascalico, a mio modesto parere, anche se ricco di spunti, quando fa il ritratto della vita sentimentale di Silvio Orlando".
"E poi: gli altri due?".
"Non mi avevi detto che avrei dovuto sceglierne tre!".
Passa una hostess, culo all'in sù, sguardo accattivante d'ordinanza, ma a me sembra eccessiva, ha esagerato con il rimmel e il rossetto (Alba Parietti: con lei non ci prenderei nemmeno un cappuccino con il cornetto).
"Dai, sono tre, tutti e tre devono essere italiani; scegli".
Un gruppetto di ragazzi si mette in fila per il check-in, come in processione, tutti vestiti allo stesso modo, con il lettore mp3 alle orecchie, e il bello è che chiacchierano allegramente fra di loro, ma come fanno, se hanno le cuffiette?
"Beh, allora, direi... Sandro Veronesi. E' uno scrittore elegante, gli chiederei un monte di cose, i trucchi del mestiere, come fa a far apparire quasi sempre un piatto di pasta nei suoi romanzi, un po' come faceva Salvatores nei suoi primi film. E poi, vediamo: Enrico Ghezzi, sì, lui non mi dispiacerebbe, sarebbe un commensale interessante, ci parlerei di cinema tutta notte, lui che si è inventato una roba come Fuori orario, tu te lo immagini quanti film avrà visto quell'uomo?".
Fisso Gabriel che fissa la hostess che è passata di nuovo, sguardo ammiccante, si reca in bagno, sculetta vistostamente. Gabriel torna in sè:
"Chi, quello che parla fuori-sincrono? A me farebbe da sonnifero, sinceramente, non si capisce una mazza di quello che dice, anche se suona sempre molto profondo".
Aspettiamo che torni la hostess sculettante. Niente. E' ora del check-in. Si sentono i rombi degli aerei in fase di decollo. Gabriel si prepara. Mi abbraccia. Mi viene in mente un altro personaggio più o meno famoso con cui andrei a cena fuori, magari un giovedì sera, magari a Roma, in una qualche trattoria di Trastevere: Tiziano Sclavi [quello che, insieme a Veronesi, ho già citato sotto], l'inventore di Dylan Dog, l'indagatore dell'incubo, per scambiarci quattro risate e parlare di quanto sia difficile mimare il linguaggio parlato attraverso la parola scritta... Verba volant, e tra poco volerà anche quella là, e Gabriel e quei chiacchieroni con le cuffiette.

miércoles, mayo 09, 2007


Padre
Alyssa, con tono tranquillo e pacato: "Sai, oggi sono andata a fare l'ecografia".
Sorpreso, sudo freddo, sono gelato dalla sorpresa:
"Ma... mi devi avvertire prima se divento padre!".
Alyssa, ridendo:
"Ma non è per quello, è per l'anemia".
Sollevato, respirando a pieni polmoni:
"Va bene, mamma. Ci sentiamo dopo, allora".
"A dopo. Ciao, papà!".
Risate dall'uno e l'altro capo del telefono.
[Questo dialogo si è svolto il 9 Maggio del 2007 alle ore 14,12, mentre Alyssa usciva dall'ospedale Careggi di Firenze e io mi trovavo all'altezza di Orbetello sul treno diretto Roma-Pisa]

martes, mayo 08, 2007

Roma, una giornata estiva dopo un temporale d'inferno. Dopo un colloquio molto proficuo con un maestro - un critico letterario che camuffa i suoi molteplici saperi e la sua curiosità famelica dietro un sorriso sornione - esco dall'ufficio e mi reco in libreria, la Feltrinelli di Piazza della Repubblica. Compro e, poi, comincio a leggere Gli sfiorati, di Sandro Veronesi. E' degli anni '90, e si sente, in alcuni brani (sparse citazioni di orologi Swatch, oggi quasi scomparsi; alcuni modelli di scarpe da tennis che non si usano più, etc.). Muoio dalle risate perchè quello che dice di alcuni fenomeni architettonico-urbanistici della capitale è vero (i palazzi sformati dal trascorrere del tempo; abbombati; affastellati l'uno sull'altro; la libreria Feltrinelli del centro, che a volte sembra più vicina a Piazza di Spagna e altre volte - dipende da dove prendiamo il via - a Piazza del Popolo (con tanto di disegnino esplicativo, ovvero: come usare la tipografia a fini ludici, come c'insegnò già la buon'anima di Lawrence Sterne nel suo capolavoro shandiano). Muoio dalle risate e penso: Sandro Veronesi è uno dei pochi romanzieri che valga la pena leggere oggi in Italia; Caos calmo, uscito per Bompiani un paio di anni fa, ha sbancato (tra premi e critiche, encomiastiche e distruttive a parità di quantità; ha molte pagini "in sovrappiù", ma la voce che narra è talmente calma, paziente e autoironica, che non ci dispiace leggere le pagine in più).
La forza del passato, invece, è del 2000, se non erro. Parla di un tema vecchio come l'uomo: la difficoltà che ci contraddistingue nell'interpretare correttamente i comportamenti di chi ci sta accanto; la possibilità di carpirne la vera natura. Un figlio scopre che il padre in realtà non era quell'ufficiale dell'esercito affiliato alla DC che sembrava, ma una spia, una "cellula dormiente", al servizio del KGB, il servizio segreto della Russia stalinista. Da quel momento, la sua vita sarà oscurata dalle ombre del passato e dal timore di nuove inquietanti scoperte (chi non dubita della propria moglie, o della fidanzata, chissà quando sarà il mio turno, quando scoprirò che era tutto vero, che mi ha tradito, mentre io ero all'oscuro di tutto). Veronesi è fissato con i personaggi che incarnano il ruolo del "padre". Anche ne Gli sfiorati il protagonista, Mète, ha qualche problema a rapportarsi al padre, più intraprendente e giovane e irresponsabile di lui, a quanto pare. Così nel primo romanzo, se non erro: Per dove parte questo treno allegro, un altro bel quadretto dell'Italia di metà anni '80. Un padre irresponsabile: come, in parte, Pietro Paladini, il protagonista-narratore di Caos calmo, un padre che, dopo il trauma per la morte improvvisa della moglie, una volta divenuto vedovo, cerca di proteggere la figlia di dieci anni quando, poi, in realtà, sarà proprio lei a permettergli di andare avanti, di elaborare il lutto, come dicono i freudiani e di capire che "la gente pensa a noi infinitamente meno di quanto possiamo immaginare", come recita, sempre se non mi sbaglio, la quarta di copertina.
Sandro Veronesi non è l'unico. In Italia esiste uno scrittore che, negli anni '80, ha sfornato gioielli narrativi dotati di vera "suspense" e di sincero "humor nero". Parlo di Tiziano Sclavi, più famoso per la sua creazione fumettistica, Dylan Dog, "l'indagatore dell'incubo", che per i suoi libri. Chi non ha mai letto Le etichette delle camicie (Milano, Giunti, 1996) non sa cosa vuol dire "godere degli effetti della comicità in letteratura" (insomma, si è perso un sacco di risate); altrettanto umoristico è il surreale Non è successo niente (Milano, Mondadori, 1998), romanzo metaletterario, incrocio di più generi, nato, pare, da un fatto vero (Sclavi è stato raggirato dal commercialista, riuscendo a farsi rubare non ricordo più quanti miliardi). Anche se il mio preferito resta La circolazione del sangue (Milano, Mondadori, 1995), a metà tra Poe, Conan Doyle, lo splatter, i fratelli Marx e Proust (m'immagino il sogghigno dell'autore: "Proust, addirittura!").
E poi c'è Domenico Starnone, che non è male, anche se non mi convince del tutto (ho finito da poco Labilità, devo prendere ancora Via Gemito), anche se, quando narra della scuola italiana è davvero un maestro e coglie il segno.
E poi ci sarebbe Alessandro Baricco, Umberto Eco, Susanna Tamaro, ma questi lasciamoli perdere, ora non ho voglia, domani, forse, chissà....

sábado, mayo 05, 2007

Venezia. Dal telefono si sentono le campane. La voce, amica, lo rassicura: è in terazza, stava studiando. Chiede scusa, non voleva disturbare. Chiamava solo per alcuni dubbi rimasti tali dopo un lieto evento (celebratosi dopo tre anni di attente indagini). L'ispettore ha l'aria rispettosa; la donna, all'altro capo del telefono, sorride e ride, a volte, quando l'ispettore fa domande che avrebbe potuto risparmiarsi (tanto sono ovvie e scontate). Volo di gabbiani. L'ispettore ha un cordless, parla dalla cucina, dove un sole accecante riscalda l'ambiente (per fortuna è finito il temporale). La dama veneziana infonde coraggio. L'ispettore si accorge che la sta tirando per le lunghe. Sa che ora la telefonata volge al termine. La dama sorride di nuovo. Gli fa capire che è molto, molto indaffarata. L'ispettore capisce. Anche lui, d'altronde, deve tornare alle sue scartoffie (squadra omicidi, non sono bruscolini, come suolsi dire). Allora si salutano. Lui pensa al viaggio che lo aspetta (da Pisa a Roma); lei pensa al viaggio che farà tra poco (da Venezia a Oxford). Intanto, il tempo passa. A lui viene in mente un racconto di Calvino che s'intitola "Prima che tu dica pronto". A lei viene in mente un racconto di Edgar Allan Poe che s'intitola "La lettera rubata" (o qualcosa di simile "occultata", "nascosta"...). Poi tornano le nuvole, presaghe di pioggia. Entrambi, sia la dama veneziana che l'ispettore, sono stati sorpresi dal repentino cambio di stagione.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...