viernes, diciembre 26, 2008

Diavolo d'un von Trier

Come ogni anno, m'ingegno (e m'impegno) a trascorrere le feste natalizie in modo divertente e, soprattutto, rilassante (per questo non esco, non viaggio, non rispondo al cellulare, ai messaggini d'auguri - tranne poche eccezioni, non vedo nessuno - tranne i parenti e gli amici più stretti, me ne sto rintanato, manco fossi un orso bruno in letargo - o un orso marsicano incazzato col mondo intero)... e così, anche quest'anno faccio scorpacciata di libri e film che m'interessano o mi incuriosiscono, che titillano la mia fantasia, al di là delle mode del momento... e così decido di rivedermi le quasi 4 ore della prima parte della serie per la tv The Kingdom (1994) di quel geniaccio malefico di Lars von Trier... che errore madornale! che sciocco sono stato! addio sonni tranquilli!

The Kingdom è forse l'opera migliore del regista di tanti (discutibili e assai discussi, per la verità) successi cinematografici degli ultimi dieci anni (pensiamo a Breaking the waves - Le onde del destino o a Dogville; pensiamo a The element of crime - tra le sue "opere-prime", il primo film in "giallo e nero" della storia del cinema - o il primo che mi sia capitato di vedere con questo abbinamento - o all'assurdo Idiotern - Idioti o al melò con Bjork Dancer in the dark); è una serie che si sviluppa in 4 puntate di circa un'ora ciascuna; e in quanto prodotto seriale è fortemente giocato-orchestrato-strutturato sulla base della regola d'oro della suspense (e dell'interruzione improvvisa della trama in coincidenza con i momenti di massima tensione narrativa). Alcuni critici lo hanno etichettato come "una specie di E.R. girato come se fosse Twin Peaks"); ed in effetti, i riferimenti sono piuttosto azzeccati (David Lynch deve essersi divertito molto a vederlo, se mai lo abbia visto). 

Il "Regno" del titolo non è nient'altro che l'ospedale moderno in cui si svolge l'azione; un luogo di scienza, un centro medico rinomato della Copenaghen di oggi, nato però sulle ceneri di un antico Lazzaretto dove morte, peste e corruzione (dei corpi e delle anime) erano all'ordine del giorno; qui si ammucchiavano i malati incurabili; qui si compivano riti al di là dell'ortodossia cristiana. E il "Regno" dei morti torna a farsi sentire. Una medium avverte la presenza e le grida disperate di una bambina che si scoprirà uccisa in oscuri frangenti nel lontano 1919; i medici ovviamente non danno importanza all'accaduto e trattano la vecchia strega come fosse una pazza che dà i numeri; il primario, svedese (bravissimo l'attore, di cui ora non riesco a trovare il nome su Google), inizia a maledire i colleghi danesi (famosissime in Danimarca le scene in cui questo scienziato pazzo urla contro i suoi vicini di casa chiamandoli "cani, canaglie, pezzenti" dal punto più alto dell'ospedale); gli altri si danno da fare a mettergli i bastoni tra le ruote (sembra che questo famoso chirurgo abbia commesso qualche errore di troppo durante un'operazione al cervello causando la semi-paralisi della piccola paziente - un'altra bambina sfortunata o "dannata", dopo quella che ci appare sotto forma di fantasma all'inzio del film). C'è pure chi, ancora studente, si diverte a spaventare le amiche tagliando la testa al cadavere che il prof. di anatomia usa per le sue lezioni; e chi, come il nemico numero uno del primario svedese, ne approfitta per crearsi una "stanza privata" nei sotterrani del "Regno" riciclando e accumulando la roba che non si usa o viene sprecata in ospedale (riciclo e smercio di microscopi; colliri; garze; etc. - che idea assurdamente geniale)... e c'è chi resta incinta (nota bene: almeno questa prima parte di The Kingdom è altamente sconsigliato a un pubblico femminile impressionabile e/o che sia in stato di gravidanza). E poi ci sono i due disabili che, dalle cucine dell'ospedale, commentano la storia come fossero una sorta di "coro" che contribuisce da un lato a raccapezzarsi nella trama intricata del film, dall'altro a trasmettere ancora più inquietudine nel povero spettatore...

Lars von Trier si diverte a prendere in giro proprio le nostre paure più arcaiche e ancestrali; e ci porta con mano sicura (anche se traballante - quasi tutta la serie è girata con camera a mano - uno dei principali "recursos" del cosiddetto Dogma) fin dentro gli incubi più atroci legati a questa vicenda di morte e di anime in pena che non riescono a trovare la pace nel mondo dei più.

Risultato: ci si prendono dei grossi spaventi; si ride (in alcune scene in cui il grottesco la fa da padrona e gli attori sembrano marionette impazzite in mano a uno scienziato - appunto - pazzo); e si trema per tutta la durata della serie... Ieri sono riuscito ad addormentarmi verso le 3 del mattino.

Oggi ho preso un treno da Roma in cui si pubblicizzava una mostra dedicata a Jean-Michel Basquiat che, guarda caso, s'intitola "Fantasmi da scacciare" (appunto - fino a Febbraio, al Museo del Corso, in via del Corso).

Stasera avverto degli strani rumori provenire dalla soffitta di casa; il che è allarmante perchè la soffitta è vuota, non ci vive nessuno, ci appoggiamo reti e materassi vecchi che non usiamo...

Diavolo d'un Lars von Trier...

P.S.: una mosca si è posata sullo schermo del computer (al 26 Dicembre... col freddo che fa... una mosca... porca vacca!)

sábado, diciembre 20, 2008

Tempus ruit

Nel bel saggio Mimima temporalia (Roma, Sossella, 2005), il filosofo teoretico Giacomo Marramao ci fa riflettere, tra le altre cose, sull’incredibile “accelerazione” dei tempi cui ci stiamo ormai abituando in questa nostra età moderna che sembra andare sempre più di fretta; cito:

 “La condizione moderna vive […] sotto una costrizione perenne: per guadagnare tempo, essa non può fare altro che temporalizzare tutto ciò che incontra sul suo cammino. Ma questa inflazione del tempo induce il paradosso della “morte del tempo”, del “tempo esaurito”: ogni futuro che il progetto moderno “intenziona” può sussistere nella sua effettualità solo in quanto delineato al passato”.

Temporalizzare: pensiamo alle offerte pubblicitarie che ci giungono da ogni mezzo di comunicazione (radio, tv, gionali, cartelloni in mezzo alla strada, etc.); non ce n’è quasi più nemmeno una che non punti sul fattore “tempo”: “approfittatene ora, comprate questa tv al plasma, questo cellulare, questa cucina, quest’auto, vi costerà il 20, il 30, il 40, il 50% in meno”, con la solita, eterna postilla: “offerta valida fino al 31/12/2008”…. Quando poi, scaduta l’offerta, basta guardare la pubblicità del mese seguente che ripete la stessa solfa, anche se con la “scadenza” spostata di un mese, per cui l’ “offerta sarà valida fino al 31/1/2009”…

O pensiamo alla programmazione cinematografica: l’ “ultimo” film di Woody Allen, l’ “ultimo” dei fratelli Vanzina (quello sì, a scadenza annuale, ogni Natale una boiata pazzesca per fare stare tranquilla la gente che paga per “non pensare”), l’ “ultima” puntata sull’Uomo Ragno, o Batman, o i Magnifici Quattro, etc. etc….

E’ vero, non possiamo non dirci d’accordo con Marramao: tutto è temporalizzato; ergo, tutto è soggetto a “morire nel tempo”, che fugge, scappa via, sguscia senza scampo, ci domina, ci perseguita, ci ingloba e ci include (sempre da sempre e ogni giorno in continuazione). Tanta l’angoscia che ogni cosa (ancora prima di nascere) non può che essere presentata, vagheggiata, “sperata” e “aspettata” se non come “cosa già da sempre appartenente al passato”… Perfino un progetto futuro può apparire, presentarsi, mostrarcisi come “progetto già declinato al passato”…

Che paradosso, che assurdità, che spreco di energia, ma quant’è vera questa asserzione se, ancora una volta, osserviamo quanto succede nel campo dell’arte… Ormai un film resta e resiste nelle sale cinematografiche per “non più” di una settimana (due al massimo, se ha davvero un successo tale da consentirne il “parcheggio temporaneo” per più di quel tot); o pensiamo ai libri, non solo ai cosiddetti best-sellers, ma ai libri di qualità, o che tali ci appaiono… Quanto dura oggi un libro in libreria (possiamo includere nel discorso i discount, i grandi supermercati o, in generale, la grande distribuzione – Feltrinelli, Ricordi, MelBookStore, etc.)? Quanto tempo ha a disposizione il lettore per comprare il libro che lo attira prima che questo venga ritirato dagli scaffali? Gli unici a resistere negli anni sembrano Omero, Dostoevskij o Proust, ovvero i cosiddetti “classici”… e per gli altri? Quanto il tempo a disposizione?

Ma pensiamo anche alle “anticipazioni”… Pensiamo ai “trailers” che dovrebbero metterci al corrente di un nuovo film… Perfino i “trailers” nascono morti; persino una pubblicità che dovrebbe titillare la nostra fantasia (i nostri “progetti per il futuro”) sembra appartenere al passato… e questo per due motivi fondamentali: 1) perché i trailers si assomigliano tutti più o meno tra loro (la ripetizione non aiuta a distinguere o a ricordare distintamente un film dall’altro); e 2) perché anche i trailers durano troppo poco per restare impressi nella nostra memoria troppo labile, e troppo “pressata” dalla succitata accelerazione dei tempi, per cui passa una settimana e di quel film di cui ho visto il trailer non ricordo già più nulla, o pochi dettagli, e poi se anche li ricordassi, ormai è tardi, è passata una settimana, il film è letteralmente “scomparso” dalle sale, dovrò aspettare la versione in dvd, o la copia pirata scaricata da internet… che noia, che palle, che sòla…

Il tempo fugge; le notizie che il giornale di oggi vuole presentarci (o darci in pasto) come fossero “le ultime novità scottanti”, “l’ultimo scoop straordinario”, già il giorno dopo sono polvere e cenere, già nessuno le ricorda più in tutta la loro “scottanza”; le novità diventano ricordi sbiaditi nell’arco delle 24 ore; il mio pc (nemmeno un anno di esistenza) è già preistorico, rispetto agli ultimi modelli; idem per il mio televisore (che non è né al plasma né a cristalli liquidi, e seppure lo fosse…); idem per il mio stereo; idem per quella notizia che ho registrato dalla tv o staccato e ritagliato dal giornale di ieri… In una situazione simile, che fare? Rallentiamo? Ci accontentiamo di restare a galla? Scegliamo di viaggiare con lentezza e di coltivare il ricordo come arte sopraffina che “trattiene” solo quanto ci colpisce davvero ed è davvero importante per noi? Fino a quando saranno vere le notizie che ricaviamo da una ricerca su internet? Fino a quando saranno lette come “notizie”? Fino a quando continueremo a leggere (leggere vuol dire anche esercitare la memoria per interpretare e conservare il senso di quanto sta scritto nel libro – o supporto tecnologico che esso sia)? Fino a quando continueremo ad assistere alla “morte del tempo” o al suo “esaurimento”? Davvero Google ci renderà tutti più stupidi? Io non lo so; e non è che Marramao ci dia risposte confortanti… Anche se ribalta la questione: forse non è possibile fare esperienza del tempo senza lo spazio; anzi, ogni esperienza di tempo è sempre anche (da sempre?) “spazializzazione del tempo”. E allora le domande da porsi saranno altre e riguarderanno i luoghi, gli spazi fisici, i quadri e i confini che ci abitano/abitiamo ogni giorno, giorno dopo giorno, cambiando necessariamente il punto di vista su quanto abitiamo, occupiamo, vediamo, sentiamo… Ma, appunto: questa è un’altra questione (spinosa), meglio fermarsi qua.

martes, diciembre 16, 2008


INSOMNIA

16 Dic 08, ore 1,43

Uno si può ritrovare talmente solo, a volte, da preferire la lettura dell'articolo di un amico filosofo (danese) dal titolo “L'Esistenzialismo è un Umanesimo?” alla visione dei programmi della tv di prima serata. E può patire talmente tanta solitudine da appoggiare l'orecchio alla porta per spiare chi stia entrando in questo preciso momento nella porta dell'appartamento di sotto (è Lunedì, ovvero Martedì: improbabile si tratti di qualcuno che torna dalla discoteca, domani è giorno lavorativo, non si rincasa così tardi se poi la mattina bisogna essere operativi per il lavoro). Chi sarà l'insonne? Come faccio a superare anche questa nottata in bianco?
Dopo la lettura dell'articolo decido che è giunta l'ora di far sapere all'autore cosa ne penso del suo contributo (poteva pure toglierlo quel punto interrogativo nel titolo). Mi piace il modo in cui pone le domande più complesse, quelle cui è quasi impossibile rispondere. Mi piace sentire il rumore della sirena d'una volante a quest'ora tarda della notte, ti fa sentire meno solo, e più in centro (noi che siamo in periferia; è sì, zona residenziale, ma è pur anco e pur sempre periferia, checchè ne dica la padrona).
La volante sfugge via sgommando. L'inquilino del piano di sotto accende la tv, è a tutto volume, l'abbassa immediatamente, forse arrossisce di vergogna (tutto sto rumore a quest'ora, che diranno). Spengo il pc; apro la finestra (freddo becco); due cani randagi camminano lentamente annusandosi mutuamente, vicino ai secchioni della spazzatura. E' notte fonda e non vedo l'ora che torni il sole. Un po' di giorno, per cortesia. Luce, per favore...sennò qua famo notte!

lunes, diciembre 15, 2008

Luoghi percorsi e frequentati nell’arco di una giornata

 

Ci sono dei giorni durante i quali il nostro “io” (con tutto l’ambaradan di corpo e di spazio e di mente e di cellule che esso si porta dietro) percorre (o si trova ubicato in modo temporaneo in) una diversità – a volte davvero – impressionante di luoghi e posti e città diverse. E quando accade, quando il corpo e la mente si ritrovano per lassi di tempo determinati dentro (o entro) spazi, città e luoghi diversi, quando ciò si verifica (per una molteplice e variegata serie di concause che non è qui il caso di nominare) allora è come se l’ “io” si disperdesse e non fosse più “io” (o come se l’ “io” facesse una fatica immane nel riconoscersi come “io” e nel ricostruire con esattezza l’ordine cronologico degli spazi visitati).

Questa giornata che si appressa a finire è stata, per me, una di quelle: provo a fare mente locale; dunque, sono stato, in meno di 24 ore in due città diverse: Firenze e Pisa; in molti luoghi diversi: casa mia, la strada che da casa mia porta alla stazione, dentro il treno regionale che unisce Firenze a Pisa (direzione Livorno), la strada che dalla stazione centrale di Pisa porta all’Istituto Comprensivo “Fibonacci”, dentro le aule 1A, 2A, 1B e 2B (con relative classi di studenti di medie scalmanati e indisciplinati), dentro la segreteria (e poi la presidenza) di suddetto Istituto, di nuovo lungo la strada che porta dalla scuola alla stazione, dentro la mia ex-casa pisana in compagnia di un mio ex-coinquilino, lungo la strada che unisce la mia ex-casa con l’Università, l’Università di Pisa (in particolare, dentro un ufficio di una mia collega nel Dipartimento di Lingue), poi dentro il bar sotto il Dipartimento, e poi di nuovo per strada, fino a raggiungere la biblioteca di Scienze Naturali (una biblioteca ultra-moderna e nuova di zecca, computer Mac per gli utenti, possibilità di navigare in internet gratis via wireless se si è studenti e si è dotati di apposito numero di matricola), e poi di nuovo la strada fino alla stazione centrale di Pisa, e di nuovo ancora dentro il treno regionale che unisce Pisa a Firenze Santa Maria Novella, e da qui all’hotel Magnum, in viale Amendola, vicino Piazza Beccaria, per risalutare degli ex-colleghi cui sono rimasto particolarmente affezionato, e poi di nuovo lungo la strada che, percorsa in bici, mi ha riportato finalmente dentro casa mia, zona Piazza Le Cure, vicino a viale dei Mille…

L’ “io” si smarrisce e si domanda quanti “io” siamo stati per tutte quelle persone con cui siamo entrati in contatto, con tutti quelli che conoscevamo già prima o con quelli che non conoscevamo affatto, quanti “io” siamo stati mentre parlavamo con l’amico di vecchia data, la collega dalla gonna dallo spacco provocante, la sindacalista dalla faccia acida, la preside dalla faccia stressata e i capelli arruffati, gli studenti che fanno i furbi e le pernacchie, gli studenti universitari che, chini sui libri, fanno delle lunghe pause davanti ai Mac e si mettono a chattare con gli amici via messanger, la barista, i camerieri, i controllori dei treni, i barboni di Santa Maria Novella, i drogati che ti chiedono 2 euro per il biglietto, la fidanzata che ha appena finito di prepararti la cena…

Il solo elenco delle persone e dei luoghi che “io” ho percorso o visitato temporaneamente in questa giornata mi da i brividi… Troppi posti diversi e troppi “io” contrapposti da poter ricordarli e visualizzarli tutti… Troppi luoghi che ci hanno ospitato troppo in fretta forse; e chissà se domani avremo voglia o modo di tornarci; e chissà fino a quando queste strade che percorriamo ogni giorno ci vedranno ancora passare come “passanti abiutali”…

jueves, diciembre 11, 2008



Senza internet (si può stare)

 

Per non so quale oscura ragione mi è scomparsa la connessione wire-less grazie alla quale riuscivo a tenermi “attaccato” a internet. Provo e riprovo, ma nulla, non va. Mi dispiace non poter leggere il giornale, non poter ascoltare Radio 2, non tenere aggiornato il blog, non poter leggere il blog letterario “Non solo Proust”, di Gabriella Alù (una simpatica lettrice inquieta, curiosa e “obliqua” come ogni vero lettore di razza che si rispetti – lungi da lei il tono accademico di taluni critici nostrani – che poi sbagliano anche i congiuntivi). E mi dispiace non poter rispondere a Giovanna per quella questione sull’Università e le date degli esami di Gennaio… e non poter sapere se Silvia ha alla fine risposto alla mia, di email.

Come ci siamo ridotti: a dover dipendere da internet, a doverci sentire soli o persi senza internet (la rete globale che ci ha ormai inglobati dentro di sé, facendoci spesso perdere di vista i contatti “reali” con le persone “reali”)…

Fumo una sigaretta in balcone e osservo la cupola del Brunelleschi. Mi telefona Roby, dice che ha scoperto di soffrire di una malattia della pelle incurabile (in sottofondo si sentono le campane di chissà quale chiesa della periferia romana): “Non posso sta al sole, so intollerante ai raggi solari, te rendi conto? E st’estate so annato pure ar mare, capisci che cojone so stato?”. Roby mi riporta col pensiero a Roma, a quest’estate, quando trascorrevo intere ore della giornata a girare in mountain-bike per i monti abruzzesi. Ora sono fermo; isolato dal mondo; in una casa nuova che non sento ancora come “la mia casa”; circondato da vicini fantasmi; incazzato col mondo intero; nostalgico dell’ultimo viaggio a Madrid; in attesa che il Natale passi il più in fretta possibile…

E ripenso a quell’amico pisano che, il giorno in cui decise di farsi mettere la connessione adsl, scoprì che la linea telefonica era intestata al vecchio padrone di casa, una persona morta nel 1982: “Le bollette continuano ad arrivare a nome suo; è lui l’intestatario, e non sai che imbarazzo quando mi chiamano quelli del call-center e mi chiedono se è in casa il signor Conti e io sono costretto a fingere, a dire che per il momento non c’è, riprovate più tardi, perché ho paura che, se dicessi loro la verità, potrebbero fare dei controlli e scoprire che siamo in nero, in affitto, ma senza contratto legale, ti rendi conto, sono incastrato, cazzo, non posso mettermi la linea internet adsl 24 ore su 24 perché tutto dipende dalla dipartita di un caro signor Conti che chissà ora cosa penserebbe se vedesse ancora il suo nome stampato sulle bollette che paghiamo io e mia moglie, che situazione assurda”.

E proprio perché sono senza internet, ne approfitto per leggere più di quanto non faccia di solito: ho iniziato The Great Gasby, di Scott Fitzgerald, che grande classico, ragazzi, che colpo al cuore, che emozioni palpabili a ogni scorrere di pagina, ha un incipit che ti lascia con il fiato in gola. Sembra di ascoltare la voce di Marlow quando ci presenta i primi dati intorno a Kurtz, quel genio impazzito che vive nel “cuore di tenebra” della giungla congolese, lontano anni luce dalla razionalità della cosiddetta “civiltà” (occidentale). Siamo negli anni del boom economico e del rilassamento dei costumi sociali della puritana e ricca America (i cosiddetti “roar twenties” – i magici e ruggenti anni 20). Siamo a pochi passi dalla casa del Gasby che dà il titolo al romanzo. Siamo insieme a Nick, che ci parla di sé e parlando di sé ci fa conoscere passo dopo passo questo grande personaggio che risponde al nome di Gasby. Siamo testimoni oculari delle apoteosiche feste che Gasby offre a casa sua; il bello è che è talmente ricco e generoso da permettere a perfetti sconosciuti di infilarsi nelle sue feste; ed è talmente di larghe vedute da fingere di essere davvero loro amico quando questi perfetti sconosciuti gli si avvicinano per un brindisi o per una stretta di mano sportiva. Siamo tutti amici di Gasby, anche se continuando a leggere ci rendiamo conto del fatto che qualcosa non torna, qualche particolare ci sfugge, Gasby sembra essere l’uomo più felice sulla Terra, ma forse non è così, e Nick lo intuisce, anche se nemmeno lui sa spiegarne il motivo… Siamo in biblioteca; un personaggio misterioso (forse quello più misterioso di tutti), un tipo occhialuto che viene apostrofato dagli altri come “il Gufo”, è mezzo ubriaco e sdraiato su un divano. Appena vede entrare il gruppo di ragazzi e fanciulle in cui si trova immerso anche Nick fa un’osservazione per niente banale: “Sono tutti veri”, dice, e lo ripete: “tutti veri”. Si sta riferendo ai libri, ai tantissimi libri che costituiscono la biblioteca personale del padrone di casa. Continuiamo a leggere, con l’idea che l’osservazione del Gufo potrà aiutarci a sbrogliare la matassa delle domande che restano senza risposta intorno alla vera natura di Gasby. Il ritmo è musicale, lo stile ci cattura, Nick continua il suo racconto e noi lettori perdiamo per un po’ il contatto con la realtà grigia che ci circonda… con la cupola del Duomo sullo sfondo, quasi immersa nel buio delle quattro del pomeriggio…

P.S: se ora (11 Dic 08, ore 13,22) sono riuscito a riconnettermi, è evidente che quanto scritto appartiene a un tempo ormai consumato e svanito nello scorrere dei giorni; quindi, è ovvio che ora guardi a quanto accaduto come a un incidente di cui conosciamo il finale; nessuno si è fatto male, i feriti sono lievi, la strada è di nuovo percorribile (in avanti o all'indietro, come più ci garba)... 

domingo, noviembre 30, 2008

El pasado, di Alan Pauls (Barcelona,
Anagrama, 2003)

Fra gli acquisti dalla Spagna, El pasado, dell'argentino Alan Pauls, è il primo romanzo che sto leggendo con una certa foga. Eppure so, lo sento, che non è un capolavoro, tantomeno un bel libro... Però mi attrae, mi attira, e non posso lasciarlo in pace...

Rímini fa il traduttore e l’interprete dal francese e dopo 12 anni trascorsi con Sofía si lascia e inizia a rivivere una nuova vita da single. Il romanzo indaga gli effetti della “fine di una relazione di anni” attraverso la voce di un narratore esterno che sposa il punto di vista del giovane protagonista e usa l’ironia sia nei suoi confronti sia nei confronti di Sofía. I due si amano e si odiano anche quando ormai sanno che non c’è più nulla da fare e che il rapporto sentimentale che li ha tenuti insieme per tanto tempo non potrà (mai) più tornare a essere quello che era.

El pasado non è un libro bello; ci sono dei brani che sembrano mimare in modo eccessivo la scrittura d’una sceneggiatura cinematografica (e non deve essere un caso se il libro, nel 2006, è diventato un film – con titolo omonimo – diretto da Héctor Babenco e interpretato dal famoso e quotato Gabriel García Bernal (attore che non dimenticherò più dopo la prova di Y tu mamá también, con la bellissima Maribel Verdú)); altri che sembrano echeggiare toni alla Philip Roth – lì dove il narratore si erge a “deus ex machina” che sa tutto sull’amore; altri ancora in cui la voce dello stesso sembra voler caricare la pagina di echi lirici finendo con lo scadere a tratti nella parodia o scimmiottatura della “nota proustiana”. Però “me engancha”, mi intrattiene, non riesco mai ad annoiarmi del tutto, nonostante i difetti succitati e nonostante la lunghezza forse eccessiva (più di 500 pagine per una sorta di “fenomenologia” della fine dell’amore).

Restano impresse alcune scene, particolarmente felici nella resa stilistica ed efficacemente “plastiche” nella capacità di farci toccare con mano il “mal d’amore” (di cui soffriamo quando, appunto, la persona che amiamo ci lascia – o quando noi, per i più svariati motivi, decidiamo di mollare la persona che dicevamo di amare). Come quando Rímini, subito dopo la rottura, si reca nell’ufficio del suocero, gli compra un maglione alla moda, convinto di aver fatto la scelta giusta, e si accorge che Sofía lo ha anticipato nel tempo, comprandogli lo stesso maglione di lana viola che lui aveva adocchiato sotto l’ufficio. Rímini è costretto a nascondere il pacchetto e a riflettere su quanto “simili” siano stati durante tutti quegli anni i pensieri e le scelte sue e di Sofía in quanto “coppia indissolubile” (coppia all’interno della quale l’uno sapeva anticipare senza esitazioni i desideri o i gusti dell’altro). O come quando Rímini, dopo essersi fatto accalappiare dall’uso della droga (usata come strumento per “cancellare” dalla propria memoria intima i ricordi legati alla fidanzata), riesce a ritrovare la pace in compagnia di Vera, una ragazza che conosce all’interno di un negozio di souvenir il giorno in cui lei, Vera, scopre che il fidanzato l’ha sempre tradita con un’altra e non ha alcuna intenzione di scusarsi con lei o di riparare i danni che le ha provocato con le sue ammissioni tardive). E’ geniale il brano in cui Rímini riesce a tradurre a velocità supersonica interi capitoli, aiutato sia dalla droga sia dalla presenza di Vera nel suo disordinato appartamento in centro. O ancora, mi viene in mente la scena della conferenza di un famoso linguista francese… quando Rímini osserva attentamente ogni smorfia, ogni sguardo, ogni movimento delle mani del professore allo scopo di tradurre correttamente ogni sua frase, ogni accento, ogni sfumatura, e solo in seguito si rende conto di essersi improvvisamente innamorato della collega che gli siede affianco nella cabina insonorizzata, Carmen, una vecchia conoscenza, un’amica di sempre, con cui scambia sguardi d’intesa fino a un bacio che lo distrarrà per sempre dalla traduzione simultanea del famoso linguista…

Prima Vera, poi Carmen… Ma Sofía resta, continua a far parlare di sé, continua a perseguitarlo con la sua ombra lunga anche quando Rímini crede di averla dimenticata o di essersi rifatto una vita… Crede di essersi lasciato alle spalle quei 12 anni, quando invece Sofía sembra complicargli la vita fino a portarlo a credere che questa non possa avere un seguito se non attraverso la presenza costante, fastidiosa e perturbante della prima donna amata…

Ogni tanto il narratore riflette e ci fa riflettere. Come in questa frase, in cui sembra essere racchiusa parte della verità che noi umani sappiamo (o crediamo di sapere) intorno all’amore:

“Ogni amore ha il suo istante inaugurale, il suo big bang privato, ma è per definizione un inizio perduto, del quale gli amanti, per perspicaci che siano, non saranno mai contemporanei.

Non esiste amante che non sia in realtà un erede tardivo di un istante di amore che non vedrà mai, intrappolato come rimase, e per sempre, nell’oscurità della sua apparizione”.

Big bang privato di cui forse fingiamo di ricordare tutto, e di cui, in realtà, non sappiamo (e non sapremo mai più) niente… Quando comincia davvero una storia d’amore? E quando finisce? Sono queste alcune delle domande che si (e ci) pone Alan Pauls con questo romanzo-fiume sull’amore.

sábado, noviembre 22, 2008

Di ritorno

Fa un certo effetto ritornare a casa e riabituarsi ai propri spazi, rivedere gli oggetti che fanno parte della nostra vita quotidiana e riascoltare gli stessi rumori di fondo di sempre (lavatrice, il vicino che tossisce, il camion della spazzatura intorno alla mezzanotte, aspirapolvere di quello del piano di sotto alle otto del mattino…) e riabituarsi ai ritmi del lavoro (le ore assegnate matematicamente a ben determinate mansioni, difficile uscire dai soliti binari).

E fa una certa tristezza rivedere l’Italia dopo una settimana di Spagna (Firenze, Roma, Madrid, Puerto de Santa María, Cadiz e ritorno, secondo questo cammino, prendendo 3 aerei, 6 treni, 1 taxi, 2 autobus, 2 vaporetti, uno svariato numero di metro e 1 tram). Guardandola con gli occhi dello straniero, l’Italia appare davvero un paese invecchiato e triste (“Non è un paese per giovani”, ha commentato Ambra, la mia amica giornalista – sempre in viaggio tra Madrid, Parigi, Berlino e Londra – parafrasando il famoso film dei Coen). Accendo la tv e c’è Brunetta che dice che “i fannulloni sono tutti a sinistra” e che gli dispiace perché lui sì, è “davvero di sinistra, un socialista che lavora nel governo di Forza Italia”… Mio dio, mio dio, perché lo hai abbandonato, perché parla in quel modo, chi gli ha consigliato di rilasciare quell’intervista indossando quella specie di sciarpa alla moda che stona palesemente con il suo “aplomb” di uomo politico in carriera, perché? E poi le liti in tv tra i politici; ormai talmente impegnati a fare le loro “comparsate” che non hanno più tempo per fare quello per cui sono lautamente pagati: e cioè, fare politica, cercare di risolvere in Parlamento e con le leggi i problemi del popolo (un tempo) sovrano.

“L’aereo è stato cancellato, mi dispiace”, fa la hostess di terra di Vueling. Mi viene da piangere, ma non perché proprio il mio aereo (Madrid Barajas-Roma Fiumicino) sia stato soppresso, alle 6 del mattino, quanto perché chi sopprime è proprio Vueling, una compagnia aerea low-cost che non mi ha mai dato problemi e che spero non inizi a diventare come la nostrana Alitalia (la cui crisi è ben lungi dal trovare una soluzione che non dispiaccia nessuno).

Ne approfitto per leggere Hand to Mouth. A Chronicle of Early Failure, di Paul Auster, la cronaca dei suoi primi trent’anni di vita, la storia picaresca dei suoi fallimenti e delle sue dure lotte per la sopravvivenza, quando, prima di diventare uno scrittore famoso, si è visto costretto a fare i lavori più umili e disparati pur di raggranellare qualche dollaro e tirare a campare. Questo libro è abbastanza appassionante: non mi convince del tutto, ma mi fa apprezzare ancora di più l’impegno di questo americano che, sulla base del suo sogno, è riuscito ad affrontare gli ostacoli più grandi. Si è saputo adattare. E’ riuscito a scrivere racconti dopo colloqui di lavoro allucinanti. E’ riuscito a mantenere se non la calma almeno la testa sulle spalle quando il conto in banca era ormai in rosso profondo (per un momento l’ho accostato a The Pursuit of Happiness, il film di Will Smith, girato da Muccino in (e sull’) America).

Poi si avvicina un’argentina (lo intuisco dall’accento), è bellissima, mi chiede se per favore posso scattare una foto a lei e la sua amica, una modella, è altissima anche lei, anche se porta scarpe coi tacchi a spillo, le accontento, loro sorridono, io schiaccio il pulsante e mi verrebbe da chiedere loro una copia di quella foto, chiedere l’email, per un incontro futuro, venite in Italia, anche voi andate a Roma? No, meglio non importunare. E poi cosa ci vengono a fare in Italia?

Siamo un paese fermo. I politici sono sempre al centro dell’attenzione mediatica, ma solo per urlare quattro cazzate al vento e offendersi a vicenda. Siamo un paese grigio e che ha paura dello straniero (quanto razzismo in più da quando la destra è al potere, o mi sbaglio?).

Ripenso alla festa cui sono stato invitato: Mauro, uno dei miei migliori amici, è uruguayano. Mi presenta un gruppo di suoi amici madrileni. La maggioranza, in realtà, è di colore: vengono dal Senegal, dalla Guinea, dal Marocco. Accanto al gruppo dei neri ci sono le bionde: alcune sono svedesi, altre danesi. Non corre buon sangue tra Svezia e Danimarca; a un certo punto qualcuna fa qualche battuta cattiva e volano parolacce (se le dicono in spagnolo, tra i fumi dell’alcol e della marijuana). Poi passano a chiedermi di Berlusconi; qualcuno nota le somiglianze con Mussolini; anche questo suo culto del corpo, questo suo voler essere sempre giovane e forte; questo suo voler negare l’evidenza, e cioè che non è più un bambino e ha 73 anni suonati (non ho controllato, mi fido di quanto dice Inge, una del gruppo delle danesi, biondissima e con gli occhi azzurri, come da copione); qualcun altro mi chiede cosa succede con la scuola e l’Università. Le notizie legate alle manifestazioni degli studenti sono arrivate fin lassù, nel Nord Europa. Provo a spiegare loro qual è la situazione, ma mi risulta difficile e poi siamo tutti un po’ brilli.

L’aereo è stato dirottato da Madrid a Barcelona. Da lì dovrò poi aspettare 4 ore prima di poter toccare il suolo della capitale.

Tristezza, nostalgia delle risate della notte prima, senso di claustrofobia, paura di ritornare vecchio nel paese dei non-giovani… Tra poco si parte e sarà di nuovo Italia… Accidenti, che brutta situazione…

viernes, noviembre 07, 2008

Sebald e le vertigini del trasloco (l’ulteriore)....

Scrivo su una mini-scrivania traballante degli anni 50 all’interno della nuova casa, in zona residenziale, con vista sul Duomo, anche se di sguincio (dal balcone della camera da letto). La casa è circondata dalle impalcature; stanno rifacendo la facciata (i muratori si affacciano dalle finestre; ogni tanto curiosano; io li guardo male e loro tornano a lavoro; mi sembra di essere in carcere). La casa è vecchia, dicono sia stata costruita nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile spagnola…

 

Leggo il mio primo libro in questa stanza che diverrà studio e biblioteca (per ora è sguarnita, la polvere regna sovrana in ogni dove, le tarme fanno merenda su questa traballante scrivania briccona). E’ un racconto che ha il titolo italiano: “All’estero”. E’ dell’ammirato e compianto W. G. Sebald; fa parte della raccolta significativamente intitolata Vertigini. Nel racconto succitato il narratore (che sembra coincidere con l’autore – anzi, forse è proprio lui, a giudicare anche da una foto segnaletica “citata” esplicitamente all’interno della narrazione per dare a questa maggiore “veridicità” – o effet du réel) ci racconta di un suo viaggio in Italia, dall’Austria (o era dalla Francia?) a Verona, passando per Desenzano e non ricordo più quale altro paesetto sulle rive del lago di Garda (fa una puntatina anche a Padova; e a Venezia, sì, c’è anche Venezia e le sue calli). A un certo punto, proprio a Verona, il povero viaggiatore sceglie di entrare in una pizzeria: “Pizzeria Verona”; è il 5 novembre (come oggi), ha fame, entra, anche se si accorge che il posto ha un aspetto poco raccomandabile:

 

Ma ormai ero seduto su una seggiola di plastica rossa marmorizzata davanti a un tavolino traballante in una spelonca tutta coperta di reti da pesca. Muri e pavimento erano di un orribile blu mare, che annientò in me qualsiasi speranza di riveder mai più la terra ferma.

 

L’angoscia aumenta alla vista del tipico quadro raffigurante una nave che sta per affondare nel maroso. Per distrarsi, il protagonista si mette a leggere la pagina di cronaca nera del giornale che ha comprato il giorno prima e la sua attenzione viene attirata da un articolo in cui si elencano una serie di omicidi irrisolti la cui responsabilità, forse, è da attribuirsi a una misteriosa banda terroristica che si firma (in caratteri runici) “Organizzazione Ludwig”. La tensione aumenta, il narratore suda freddo e smette di mangiare la pizza, fino a quando il cameriere gli porta il conto e legge il nome per esteso:

 

Pizzeria VERONA, di Cadavero Carlo e Patierno Vittorio… Patierno e Cadavero… Brividi di paura, mentre leggo e ripercorro con la mente il tragitto dei ricordi di Sebald in Italia.

 

Passa il tempo, arriviamo al 1987 ed esattamente 7 anni dopo, il narratore torna a Verona e si trova a passare davanti alla macabra pizzeria. L’insegna c’è ancora, ma di Cadavero e del suo socio non ci sono più tracce. La pizzeria è fallita; forse ha chiuso per trasloco; non lo sappiamo. Di certo, però, sappiamo che è esistita. Una foto, che il narratore-viaggiatore fa scattare ad una turista americana perché lui si è scordato la sua macchina fotografica a casa, sta lì a testimoniarcelo (p. 117 dell’ed. Adelphi della traduzione italiana – ottima, a cura della bravissima Ada Vigliani).

 

La cosa più paurosa di questa foto sono le finestre del secondo piano; le persiane sono chiuse, direi quasi ermeticamente chiuse, eppure è impossibile non ipotizzare che lì dietro si nasconda qualcuno, forse Cadavero, forse Patierno, forse entrambi i proprietari del locale, ormai diventati due fantasmi che spiano questo viaggiatore incallito che è tornato sul luogo del delitto e si azzarda a scattare una foto della loro pizzeria.

 

Altra curiosità: all’altezza dell’ingresso si distinguono nitidamente due donne, due passanti abbigliate secondo gli usi e costumi dell’Italia anni 80; la prima (quella che cammina da sinistra) è una mora molto riccia con una gonna a fiori e una borsona di paglia; sembra tranquilla, come se stesse per andare al mare; la seconda, invece (quella che viene da destra e sta per incrociarsi con la prima), sembra una donna più matura, ha i capelli pettinati secondo la moda classica delle signore borghesi anni 70, anche lei ha la gonna lunga e indossa una paio di scarpe eleganti con leggero tacco a spillo. Nessuna delle due anonime camminanti sa nulla della Pizzeria Verona; nessuna delle due guarda l’insegna del locale né sospetta nulla o si preoccupa di alzare lo sguardo verso le due finestrone del secondo piano dietro le cui persiane potrebbero nascondersi due anime malvagie.

 

Continuo a leggere, ridendo alle spalle di Sebald quando complica la narrazione raccontando del suo smarrimento del passaporto. E’ curioso vedere come ci vedono gli altri, gli stranieri. Noi italiani sembriamo ligi al dovere anche quando sembriamo lavorare nel caos.


Continuo a leggere dentro questo studio che sarà futura biblioteca domandandomi chi ha abitato questa casa prima di me, prima di noi due (io e Alyssa). Sorta nel 1936, queste mura devono averne viste di tutti i colori; e chissà quanto dolore, quante lacrime sono trattenute dentro questo appartamento. Chissà quante risate, anche, e quante esclamazioni di gioia, di esultanza, di allegria…

 

La padrona di casa ci ha confidato un segreto; la casa si è liberata un mese fa (esattamente il 5 settembre scorso) perché la giovane coppia che ci viveva è stata costretta a trasferirsi dopo soli 9 mesi e a tornare a Padova (la casa di lei) dopo che lei ha scoperto e confessato al suo lui che era rimasta incinta.

 

Smetto di leggere. Mi accendo una sigaretta. Spengo la tv e mi reco in camera da letto. Chissà quanti gridolini di piacere, quante lacrime, quante risate devono aver assorbito queste mura, dal 1936 a oggi…72 anni di vita vissuta… o sofferta, chi lo sa… Provo a immaginarmi il volto del bambino che nascerà a breve lassù, a Padova. Un bambino concepito qui dentro, in questa camera da letto che, per ovvi motivi, non riesco ancora a sentire come “la mia camera”… Provo a immaginare quel volto, ma non ci riesco. Non sono bravo come Sebald; o non sono abbastanza perturbato. Certo è che questa notte non riuscirò a prendere sonno subito. Troppa vita, troppa morte, troppe cose a cui pensare e su cui sognare per addormentarsi subito. Meglio se mi accendo un’altra sigaretta.

jueves, octubre 30, 2008

Su Donatella Finocchiaro, i licenziamenti ai precari e le proteste degli studenti (troppa la carne al fuoco, forse, ma cercheremo di essere brevi - del resto, di vita da vivere ne abbiamo solo una, ahinoi)...

La prima volta che ho visto Donatella Finocchiaro (senza sapere ovviamente che si chiamasse così e che fosse siciliana e che venisse dal teatro) fu nel film Angela, di Roberta Torre. Lì vestiva i panni della moglie di un boss locale sotto le mentite spoglie di una commessa di un negozio di scarpe. Ricordo ancora la sua camminata sensuale; gli sguardi (in primo piano) con quegli occhi che brillano (di paura o di tenerezza) e quelle labbra carnose (che invitano al bacio appassionato). Poi me ne dimenticai, fino a quando non l'ho rivista su qualche giornale di quelli tipo Tv sorrisi e canzoni e me ne sono letteralmente innamorato. Questa donna mi accende; mi fa "sesso" (come direbbe il mio fornaio di fiducia); mi ispira gioia di vivere; forse, in tutti questi anni, e dietro il viso delle varie fidanzate che ho avuto, non ho fatto altro che inseguire lo sguardo e il sorriso di Donatella Finocchiaro (e sarà per questo che alcune delle mie ex assomiglino tantissimo a lei; anche Alyssa, anche se non lo ammetterebbe mai e anche se, sì, è vero, è un po' più palliduccia della mediterranea Finocchiaro). 

Il vice-direttore sta per lasciare l'hotel e mi tuffo sul suo pc e da Google provo a fare la ricerca per immagini; voglio riempire il mio desktop delle foto di Donatella; la voglio, sì, io la desidero.

Dopo un po' torna il vice-direttore; ha appena ricevuto una telefonata dal suo capo, il direttore, quello che detiene il controllo di altri 4 alberghi (insieme al "nostro"). Per problemi di "budget" si vedono costretti a licenziarmi. Non ci sono più le condizioni (economiche) per potermi rinnovare un contratto di un anno. 2009, penso: è un numero che mi sta simpatico; chissà come andrà a finire se cominciamo così, con un licenziamento (non in tronco, almeno questo... ho un mese e passa di autonomia...).

Penso ai precari; ai licenziamenti in tronco che ci si può permettere con gente assunta in una ditta con contratto a tempo; al concetto di "liquidità" coniato dal sociologo Zygmut Bauam; al papa che dice che dobbiamo fare più figli (io ne farei pure subito uno; una femminuccia; ma la mantiene lui poi?); a quel ministro che definì i giovani di oggi "bamboccioni"; a chi, diffondendo panico e con lieve accento isterico, ha parlato in questi giorni della "fine per implosione del sistema capitalistico" così come è stato adottato dall'America libera e liberale; a chi, in questi momenti, sta ancora manifestando contro il decreto-Gelmini sulla riforma della scuola.

Penso a quello che sono riuscito a fare con una borsa di dottorato di 800 euro nette mensili per 3 anni; ai viaggi alla Sorbonne di Parigi; ai viaggi alla National Library di Londra; alle ore passate all'interno della Biblioteca Nacional di Madrid; alle conferenze e ai convegni cui ho partecipato dal lontano 2003; alla fatica di studiare in un mondo che sembra(va) andare in una direzione opposta rispetto ai miei interessi chiamiamoli illuministicamente "umanistici"...

E poi penso ai volti di questi studenti di oggi che vogliono un'Università pubblica degna di questo aggettivo e che funzioni in base al merito e non in base ai soldi o al nepotismo imperante di tanti centri di potere. Sono dalla parte degli studenti; anche di quelli che vorrebbero continuare a dare esami e a seguire le lezioni, ma non possono, perchè le aule sono occupate. Sono dalla parte di quelli che si spogliano e ridono per mettere a nudo le ipocrisie di chi davvero mette a nudo la ricerca in Italia. E poi guardo dritto in faccia il mio vice-direttore: "Bene", gli dico: "dunque da Novembre devo fare la valigia". Lui mi guarda e non capisce. Capisco che non ha capito. E me ne rallegro interiormente.

In Italia si sta facendo il massimo per rendere le persone più vulnerabili e più paurose; nel resto d'Europa non so. Mi scrive un amico uruguayano da Barcelona; dice che ha perso il lavoro ma che comunque sta cambiando casa con la sua fidanzata e futura moglie e spera che, ora che ha il permesso di soggiorno e le carte in regola, potrà trovare qualcosa che lo soddisfi; qualche mese fa, Gabriele, da Praga, mi parlava di quanto siano economici gli affitti nella città di Kafka; e un mio amico di ritorno da Dublino mi dice che si stabilirà in Irlanda perchè per quelli come lui (ingegnere informatico) il lavoro si trova subito ed è ben pagato. Ne approfitta, anche per imparare meglio l'inglese e, magari, trovare la donna della sua vita.

"A Dublino piove spesso", gli dico, come a voler rovinargli la festa.
"Sì, ma guadagno quasi 2mila euro nette di stipendio al mese", taglia corto l'ingegnere.

Il vice-direttore va via; comincio a stamparmi qualche foto di Donatella Finocchiaro. Stasera me la porto a casa; la mostro ad Alyssa e le faccio vedere quanto si somigliano. E se dirà che non è vero, non le crederò. Perchè Alyssa è una tipa molto modesta e si vede sempre brutta, anche se non lo è, ovviamente...

viernes, octubre 24, 2008

Nostos

E' piacevole tornare a casa dopo un'intera giornata passata sui treni. Ed è curioso constatare come cambia il clima, il set dell'azione e le facce degli attori e delle comparse sullo sfondo: al caos "equilibrato" (direi quasi "civile") di Firenze fa da contraltare immediato il casino "anarchico" e "caciarone" di Roma (la città più bella del mondo, nonostante tutto).
Ma che tristezza vedere la Stazione Termini ridotta a una specie di prototipo di hangar futuristico (alla Balde Runner, per intenderci) infarcito a ogni angolo e su ogni binario di schermi piatti a cristalli liquidi che emanano sempre le stesse immagini e sempre la stessa fastidiosa melodia della stessa pubblicità ripetuta ad infinitum...
Si nota subito che c'è fermento nell'aria: vicino al McDonald un gruppo di studenti universitari prepara gli striscioni anti-Gelmini e si appresta a sfilare lungo le vie del centro (Piazza della Repubblica, poi Via Nazionale, chissà se arrivano fino a Piazza Venezia); intanto, una piccola pattuglia di poliziotti in tenuta anti-sommossa osserva i preparativi con sguardo torvo. E che ridere (mi ha rallegrato il momento della pausa-pranzo) quando al tg di Rete4 uno dei manifestanti replica alla domanda del giornalista spiegando quali sono i motivi reali delle loro proteste (sacrosante - sono 3 secondo me i perni da cui si misura il grado di civiltà e di progresso di un Paese: a) il rispetto verso le donne; b) il grado d'istruzione dei cittadini; c) la pulizia delle strade - e su tutti e 3 questi punti l'Italia, ahimè, è lontana dal prendere la sufficienza) e, con fortissimo accento romanesco, questo risponde: "Perché è ora de finilla, è ora! Perché nun è giusto fa i tagli alla scola, c'è dietro un motivo palesemente politico, ce vonno tutti ignoranti, ce vonno, vonno fa un paese d'ignoranti, è questa la verità!" (chissà cosa avrebbe detto - o scritto - Pasolini, all'ennesima protesta del mondo della scuola e dell'Università contro le scelte del governo...).
E come cambia ancora il paesaggio dopo circa 100 km da Roma, andando verso la città tra i monti abruzzesi in cui sono nato (Tivoli, Carsoli, Tagliacozzo... sono i nomi delle fermate della mia via crucis personale, della via crucis della memoria...). Al clima temperato della capitale si sostituisce subito l'aria più fredda della Regione Abruzzo, il verde degli alberi sembra più verde, le rocce più rocciose, la terra più selvaggia...
E com'è, infine, piacevole e rassicurante aprire la porta e gettare lo zaino e la valigia pesante sul primo divano che mi capita sotto tiro e risalutare e riabbracciare i miei e poi riguardare la cameretta e lo studio, con i vecchi libri, gli amici lasciati a malincuore in questa casa, in quella che è (stata) la mia prima biblioteca, quella che ho costruito con pazienza nel corso degli anni, dall'adolescenza in avanti... quella cui tengo di più...
Accarezzo la ponderosa biografia di Joyce scritta da Sir Richard Ellmann; riapro a casaccio una pagina di Pnin di Nabokov (e ci scappa una risata); leggo due versi della comica e strampalata commedia degli errori di Shakespeare, The Merry Wifes of Windsor ("Le allegre comari di Windsor"): 

Love like a shadow flies when substance love pursues, / Pursuing that that flies, and flying what pursues

Di quest'opera non ricordo nulla, so vagamente in cosa consiste la trama, ma ricordo bene il fatto che protagonista assoluto è lui, Sir John Falstaff, allegro e ciccione, divertente e malinconico come sempre (una sorta di antesignano di Sancho Panza - o suo lontano parente - ma dalla filosofia di vita più complessa e sofferta). La traduzione a fronte in italiano non aiuta: "Amor, qual ombra involasi se amor sostanza segue, insegue ciò che fugge, fugge ciò che insegue"; ritorna la proverbiale domanda: chi vince in amore, chi insegue o chi fugge? E torna in mente Dante, col suo (purtroppo sputtanatissimo) "Amor ch'a nullo amato amar perdorna"...

Ha proprio ragione quello scrittore spagnolo, come si chiama, sì, quello, Javier Marías, l'autore di Tomorrow in the battle think on me, Shakespeare ci piace (e ci turba - o ci piace perché ci turba) perché è indeciso; non sai mai bene cosa voglia dire; non esiste un solo suo verso che non possa dare adito a più d'una interpretazione (o a una serie di interpretazioni contrastanti tra di loro); non c'è una sola sua frase che non apra la porta o la strada verso altri mari, altri lidi...

E' bello tornare a casa, dopo tanto viaggiare...

miércoles, octubre 22, 2008


Teoría del conocimiento, di Luis Goytisolo (Barcelona, Seix Barral, 1981)

Mentre Alì chatta con i suoi fratelli e riesce a sentire la sua Giordania molto più vicina di quanto non sia grazie a messanger, e mentre qualche cliente entra ed esce dall’hotel in preda a chissà quale strana smania o inquietudine interiore, leggo un romanzo strano sin dal titolo. Un’opera dello scrittore spagnolo Luis Goytisolo; un libro il cui titolo è già (di per sé) un enigma: “Teoria della conoscenza”… Che s’intende per teoria? E cosa per conoscenza? Esisterà mai una “teoria della conoscenza”? Mi vengono subito in mente altri due libri: due saggi, in realtà: l’uno di Immanuel Kant (Critica della capacità di giudizio, la cosiddetta “terza critica” – quella in cui il filosofo tedesco s’interroga su che cosa sia il “bello” e se esista una “capacità” o “facoltà” di giudizio che operi nel momento stesso in cui decidiamo che qualcosa ci risulta essere “bello”); l’altro di Ludwig Wittengstein (Osservazioni filosofiche, una specie di work in progress in cui non sapremo mai chi è l’assassino, anche se un qualche assassinio deve essere stato commesso in principio). E mentre mi ripeto la domanda: “esisterà mai una vera teoria della conoscenza, una teoria che sappia spiegarci per filo e per segno cosa succede quando “apprendiamo” e “conosciamo” qualcosa?”, leggo sul risvolto di copertina dell’edizione dell’81 che maneggio che Teoría del conocimiento è, in realtà, la quarta parte di una tetralogia composta dagli altri tre capitoli: Recuento (1973); Los verdes de mayo hasta el mar (1976) e La cólera de Aquiles (1979). Inutile aggiungere che la scoperta non fa che aggiungere ansia a sconforto, sconcerto a ansia. Non so se riuscirò a leggere mai le altre tre parti. E non so ancora di cosa mi parla la fine, questo quarto capitolo che, chissà in quale strano modo, dovrebbe concludere e chiudere l’intero impianto narrativo…

Eppure vado avanti a leggere. Mi affascinano i libri che non riesco a capire o a interpretare subito; mi piacciano le trame complesse o inesistenti. La prima pagina mette in crisi chiunque: perché ripete il titolo che si legge in copertina ma aggiunge un dettaglio, anzi, due: a) il nome del presunto autore, tale Raúl Ferrer Gaminde; b) il sottotilo “novela”, ovvero, in italiano, “romanzo”, come a voler sottolineare il fatto che sì, chi legge si trova davanti a un “romanzo”, un libro che ha una sua trama narrativa, un suo sviluppo e, eventualmente, una sua fine… o conclusione esplicativa.

Il libro è diviso in 12 capp.; sono arrivato al cap. VIII, ma non so ancora niente del finale né se ci sarà un finale. Intuisco che sulla pagina scritta si alternano i monologhi di diversi personaggi; spicca su tutti la voce di un tale, un architetto, che sembra rispondere al nome di Ricardo Echave (niente a che vedere con il Raúl Ferrer Gaminde del titolo iniziale; il secondo, dopo quello ufficiale che appare in copertina). Non che mi sia molto simpatico, ma i discorsi che questo Ricardo fa intorno alla sua infanzia, i familiari, l’adolescenza, i primi atti di ribellione politica all’Università (contro il franchismo, che dal 39 al 75 regna sovrano imbavagliando ogni forma di resistenza interna alla Spagna più civile e democratica), i suoi amori plurimi con donne che rispondono ai nomi di Magda, Rosa e Margarita, i suoi odi o dissensi nei confronti del padre o dei fratelli, insomma, tutto ciò che dice con uno stile forbito e un periodare complesso, da analista, da filosofo analitico, mi coinvolgono e mi spingono a continuare la lettura… fino a quando non si verifica una prima grossa sorpresa. A un certo punto qualcuno fa un commento intorno al presunto diario di Ricardo Echave: si nota che vuole scioccare il lettore, descrivendo nel dettaglio alcune sue esperienze sessuali. Ma si nota anche l’influsso dello stile di Luis Goytisolo… Accidenti! Ma allora il diario è solo un finto diario autobiografico. Chi scrive dicendo di parlare con tutta onestà e franchezza lo fa con lo stile-Goytisolo… c’è qualcosa che non quadra.

Vado avanti nella lettura e nel cap. V trovo un paragrafo che mi chiarisce e, al contempo, mi complica ulteriormente le cose: Teoría del conocimiento è evidentemente un meta-romanzo; ma chi guarda chi (o chi legge chi) quando chi scrive ci mette sotto i nostri stessi occhi le sue stesse critiche al modo di poter scrivere dei propri dubbi nel momento stesso in cui si mette a scrivere di sé? Chi guarda chi? Chi legge chi? Chi scrive di chi? Il cap. V è centrale, in tal senso: e l’ultimo paragrafo (dal titolo significativo “El ojo” – ovvero “l’occhio”) serve a ribadire quanto andavamo solo ipotizzando. In questa parte l’autore ci coinvolge pienamente nel lavoro di “scrittura” e “ri-scrittura” del testo attraverso le sue riflessioni:

1-     mentre leggiamo un testo di finzione (traduco al volo e, forse, male)scopriamo aspetti non solo imprevedibili da parte dello stesso autore, ma anche insospettabili, completamente estranei ai piano di questi;

2-     ciò accade non solo e non tanto perché quanto l’autore si è proposto di scrivere racchiude significati non progettati, e che in tal modo si riflettono nell’opera, ma anche e soprattutto perché leggere un libro è come sottolinearlo a matita, come evidenziare, segnalare e perfino aggiungere commenti a margine, non tanto intorno a ciò che è importante rispetto al testo in sé, quanto intorno a ciò che è importante per noi, motivo che spiega perché ci dia tanto fastidio prestare libri sottolineati nella misura in cui la nostra intimità può venire coinvolta; ciò porta a questo nuovo ragionamento:

3-     il lettore di un’opera di finzione trova sempre una serie di significati che l’autore non saprebbe spiegare perché sono lì, nell’ipotesi che si sia accorto del fatto che ci sono, per progettata che avesse pensato l’opera, tanto nelle linee maestre che la determinano, quanto in rapporto ai dettagli minori della sua realizzazione, soppesata parola per parola;

4-     e allora che cosa diventa l’opera, da questo punto di vista? L’opera diventa il punto verso cui convergono autore e lettore, l’ambito in cui si riflettono le loro rispettive attitudini.

Mi fermo a pensare. Mi accendo una sigaretta, anche se non si può (ordino ad Alì di spalancare le porte e di consegnare lui le chiavi se torna qualche cliente nottambulo o ritardatario). Rileggo il punto 4. E mi viene in mente Proust. E Cesare Pavese (in particolare il suo diario intimo, Il mestiere di vivere). Non solo vivere è un mestiere (che a volte richiede pazienza e forte capacità d’adattamento o doti di prestigio), ma anche leggere è vivere e scrivere è vivere; mi viene in mente un altro scrittore spagnolo, Enrique Vila-Matas, che colpisce perché non sai mai quando parla sul serio o sta solo scherzando. E penso a James Joyce. Dopodiché continuo a leggere e il narratore prova a spiegare la sua “teoria” attraverso vari esempi, tra cui Proust e il suo Contre Saint-Beuve; e il Velázquez de Las Meninas, quel quadro in cui si vede Velázquez nell’atto di dipingere un quadro di cui vediamo solo la parte posteriore, e mai il soggetto, che (sono i Re) appare di riflesso su uno specchio posto dietro il pittore, mentre in primo piano vediamo le “damigelle” che accompagnano la piccola “infanta”, e sullo sfondo uno spettatore scuro che, incorniciato dentro una porta, sta per salire delle scale (o forse le ha appena scese) e contempla la scena (il pittore che dipinge) mentre su tutto aleggia un’atmosfera da sogno, bello e inquietante, com’è l’atto del leggere, com’è leggere questo romanzo, che comincio a sottolineare a matita e a commentare con commenti e giudizi al margine, senza riuscire più a capire chi scrive cosa e chi legge chi, ma con la ferma convinzione del fatto che sì, è vero, il testo scritto (di finzione) è davvero l’unica superficie riflettente in cui autore e lettore possono incontrarsi e scontrarsi o venire a patti, in cui l’universo dell’uno si completa e prende vita grazie all’universo dell’altro, e i nostri occhi guardano l’universo attraverso gli occhi dell’autore, che, non visto, forse ancora ci sta guardando, come Velázquez guarda il soggetto del suo quadro, un quadro che non vedremo mai (più).

sábado, octubre 18, 2008

Fat Boy Slim (un)censored

Consiglio questo link:


Per farsi due risate (che non fanno mai male) e vedere come si può giocare con ironia sulla mania che ancora oggi hanno taluni di censurare e tagliare lì dove non ce n'è motivo (soprattutto quando a essere pornografico non è un fatto o un oggetto in sè quanto lo sguardo di chi ce lo presenta...).

N.B.: la cosa più assurda è che You Tube vi chiederà di "confermare la data di nascita" e, quindi, di dimostrare d'essere maggiorenni, presentando il video come fosse per "soli adulti", e quindi, in certo senso, censurandolo per chi maggiorenne non è, quando il video parla proprio di questo, di non vedere streghe ovunque o diavoli lì dove non ce n'è l'ombra! Ma tant'è...

viernes, octubre 03, 2008


David Foster Wallace (DFW, da ora in avanti) e le aragoste

Ho scoperto questo scrittore per caso, leggendo sul giornale la notizia della sua morte il giorno dopo del suo suicidio (DFW si è tolto la vita impiccandosi il 12 Settembre scorso all'età di 46 anni - stando a quanto dicono i giornali; nonostante fosse scrittore puro e solo scrittore, non ha lasciato nessun messaggio scritto, nulla che possa guidare i futuri biografi a spiegare il suo gesto più estremo...). E quindi, non avrei mai letto i suoi saggi, i racconti e reportages se lui non si fosse impiccato (ed è curioso pensare che un autore diventa noto a un lettore nel momento stesso in cui smette d'essere un autore in carne ed ossa e comincia a diventare un autore "morto" da manuale di storia della letteratura, con tanto di trattino tra la data di nascita e quella della morte, un autore "ormai appartenente al passato", un classico (per alcuni) di cui ora si può disquisire perchè tanto, tra le altre cose, non avrà più modo di rispondere alle accuse o di smussare le critiche o gli elogi, insomma, di dare la sua versione dei fatti sui suoi stessi scritti...). Se DFW non si fosse mai tolto la vita, io non avrei mai letto e apprezzato saggi come Considera l'aragosta o Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più o racconti come La ragazza dai capelli strani (mi restano ancora i romanzi, e primo fra tutti l'enciclopedico e immenso Infinite Jest - un libro la cui mole non può non spaventare anche il più intrepido e famelico dei lettori di romanzi....); e già questa "frase condizionale" (se non...allora...) mi fa pensare a quant'è strana la vita e a quant'è ingiusta la sorte verso certi autori divertenti che hanno riflettuto spesso e volentieri su com'è strana la vita e su quant'è ingiusta la sorte a volte con noi, poveri umani confinati su questa Terra, a volte nostro malgrado.
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Ma chi è (era) veramente DFW? Non pretendo di rispondere a una simile domanda, anche perchè ne so ancora (troppo) poco per poter anche solo ipotizzare una qualche risposta plausibile... Posso però fin da ora dire chi è (e sarà per sempre) DFW per me: uno scrittore puro; cioè uno che, attraverso la scrittura, poteva fare ogni cosa e parlare di ogni argomento; uno che, attraverso il racconto, sapeva farti penetrare nell'ottica dei suoi personaggi desquiciados e un po' paranoici con un umorismo degno dei fratelli Marx o di Buster Keaton (forse tra i due esempi DFW assomiglia di più a BK, anche se sarebbe stato davvero difficile qualificare uno come DFW come "l'uomo che non ride mai" (o the great stone face); anzi... ci sono molte foto su internet che lo ritraggono mentre sorride a trentasei denti, con sincera spensieratezza e liceale spontaneità - cfr. supra). Qualche es. di quanto vado argomentando (senza filo logico stringente, come piace a me argomentare): DFW sa narrarci una sua visita a un Fiera del Bestiame Puro Americano nell'Illinois come fosse una sorta di discesa agli Inferi (cfr. "Invadenti evasioni" in Tennis, tv, trigonometria, tornado, etc.). Ora qualcuno dirà: e che ci vuole a scrivere di una fiera come di un luogo da incubo dal quale non si desidera altro che scappare? Ma non è solo questo; è che DFW fa la cronaca di quanto vede "dal vivo" di quella Fiera (gli animali, i bambini che mangiano schifezze ipercaloriche, i genitori obesi che esultano per un gadget idiota in omaggio, etc.) e, al contempo, ci fa intravedere tutto il marcio che si nasconde dietro certi tic nervosi o vezzi ipocriti tipici dei suoi connazionali americani (geniale la riflessione sulle t-shirt con le scritte idiote indossate da idioti che credono di distinguirsi dalla massa quando invece...). E già questo è un punto a suo favore: può cominciare un suo articolo come "cronista" o "giornalista accreditato", ma c'è sempre un momento nel corso della sua scrittura basata "sul vero" in cui appare la vena riflessiva, direi quasi filosofica, sul senso profondo di quanto vede e descrive. DFW sa essere filosofo come pochi scrittori americani odierni. E non si tratta di una filosofia spicciola o, peggio, "meditata". E' questa la sua particolarità: è che fa filosofia a-sistematica a partire dal caso, da ciò che il caso gli mette inaspettatamente sotto gli occhi (e a proposito di a-sistematicità, non deve essere un caso se DFW cita spesso, anche se velatamente, l'ammirato L. Wittengstein, uno che di "osservazioni filosofiche anti-sistematiche e a-sistetamiche" se ne intende parecchio). 
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Un evidente indice stilistico di questa sua tendenza è dato dalla presenza a volte davvero massiccia delle note a piè di pagina. DFW usa le note sia per gli articoli di taglio giornalistico che per quelli di taglio più critico e letterario (oltre che per le opere di narrativa: ripeto, ancora non ho avuto il coraggio, ma pare che Infinite Jest presenti un apparato di un centinaio di note scritte a carattere 10 e fitte fitte). Dunque, DFW è uno scrittore che parte dalla realtà esterna per poi riflettere anche sui massimi sistemi, ma sempre con atteggiamento scanzonato e ironico (a volte caustico, altre sarcastico), mai con atteggiamento da "secchione della classe" o "saputello tuttologo". E qui sta la sua seconda particolarità: DFW è un autore tremendamente ironico e umoristico e che sa usare con garbo anche l'auto-ironia. Non posso non ricordare in tal caso il brano "Il figlio grosso e rosso" dalla raccolta Considera l'aragosta: in questo caso il Nostro ci fa "penetrare" di soppiatto nel variegato mondo del cinema hard-core. Siamo agli AVN Awards (i Premi Oscar del porno) e diventa davvero difficile non sorridere e, al contempo, non impallidire davanti alle mille piccole follie di cui si rendono protagonisti registi, attrici e spettatori di una simile manifestazione. E le note a piè pagina contribuiscono ad aumentare, se possibile, entrambi gli aspetti (l'assurdità del comportamento di certi loschi figuri e la quasi "innocenza adolescenziale" di chi paga per applaudirli e filmarli con la telecamerina portatile).
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Quindi, tocchiamo in questo breve schizzo (o ritratto) dell'autore suicida quello che potremmo elencare come il terzo aspetto che salta agli occhi leggendo le sue cose e che lo rende identificabile rispetto agli altri scrittori (quasi un marchio di fabbrica): DFW fa dell'umorismo e dell'ironia anche su temi scottanti o che scuotono le coscienze (non solo del lettore americano, anche se soprattutto lui - e io, se fossi americano, mi vergognerei un po' più di me, dopo aver letto DFW). Altro es. tratto da Considera l'aragosta, il mini-saggio "Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente": qui DFW ci fa riflettere su un aspetto notevole della scrittura kafkiana, e cioè sulla sua evidente (ma difficilissima a spiegarsi razionalmente) comicità. Kafka è comico, oltre che inquietante, onirico, surreale, etc. DFW sta parlando di questo tema così interessante quando ecco scattare la nota n.3 (p. 68 dell'ed. Einaudi che maneggio - del 2005) in cui si legge: 

"Si potrebbero scrivere libri interi della Johns Hopkins U. Press sulla funzione lallativa dell'umorismo nell'odierna psicologia degli Stati Uniti. In parole povere, la nostra cultura attuale è, da un punto di vista sia evolutivo che storico, adolescente. E poichè l'adolescenza è riconosciuta come il periodo in assoluto più stressante e spaventoso dello sviluppo umano - [tralascio un inciso che poi diventa un inciso segnalato dall'asterisco che poi viene collocato a fine nota per rendere la medesima ancora più complessa e intrecciata] - non è difficile capire perchè noi come cultura siamo così sensibili a quel tipo di arte e intrattenimento la cui funzione primaria sia la fuga, e cioè tutto ciò che tira in ballo il fantastico, l'adrenalina, lo spettacolare, l'amore romantico, eccetera".

Fermiamoci qui. Qui dentro (dentro questa nota) c'è quasi tutto. L'autore ci aiuta a capire perchè, ad es., negli USA hanno tanto successo ai botteghini i film d'azione o romantici (piuttosto che quelli di un Woody Allen o cosiddetti "d'autore"); non solo: ci dice anche perchè, in generale, nel mondo odierno siamo tutti più adolescenti (vedi madri che fanno a gara con le figlie per chi indossa la minigonna più corta e alla moda; o padri che vogliono essere a tutti i costi "amici" dei loro figli; vedi le varie denuncie di persone d'una certa età contro McDonald - perchè sono convinte del fatto che la loro obesità derivi dagli hamburger dei McDonalds - o dei tabagisti incalliti contro le grosse multinazionali delle sigarette - per cui se la Marlboro non mi dice a chiare lettere che il fumo provoca il cancro, io poi come faccio a smettere?). Qui dentro, dentro questa semplice nota, c'è una riflessione acuta (ma non pedante) sul perchè - sin da fine Ottocento - Nietzsche poteva parlare proprio di "infantilizzazione" della specie umana odierna in quanto incapace di prendersi delle responsabilità sul groppone e, invece, sempre pronta a "fuggire" davanti ai problemi o a scaricare sugli altri le loro debolezze (cfr. Sul danno e l'utilità della storia per la vita). E insomma, dentro una semplice nota DFW apre (per il lettore disposto a seguirlo) un ventaglio di interpretazioni possibili e interrogativi latenti che vale davvero la pena di porsi se poi, colui che te li pone, usa tanta sagacia e tanta simpatica ironia...
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Per concludere, per il momento (tornerò sui racconti e, spero, su Infinite Jest in un'altra occasione) e per non ammorbare ulteriormente il lettore, possiamo riassumere il tutto dicendo che DFW è davvero uno scrittore "totale", oltre che "puro", che purtroppo ha smesso di scrivere perchè, forse e ahinoi, non aveva più voglia di vivere e di riflettere con tanto acume sulla nostra vita grama...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...