viernes, febrero 29, 2008

Diario di bordo del viaggio verso il Sud del Mondo

[sezione avventurosa di questo diario di borderlines, per chi abbia voglia di leggere di disgrazie varie occorsemi o inventate da me di sana pianta negli spostamenti plurimi verso Eboli, Sala Consilina e il Sud del Sud d'Italia; ovvero: "come imparare a sopravvivere tra treni, pullman notturni, navi, taxi e autostop"]

Notte in bianco. Il pullman è semi-vuoto; una polacca racconta a una vecchina di Vicopisano che si è inventata una nuova tinta, un nuovo colore per i capelli: osservo i capelli della polacca, e sono d'un celeste spaziale. Mi ricorda qualche protagonista femminile di qualche cartone animato giapponese. Però è carina: molto carina. E parla un'italiano ottimo.
Dall'altro lato, sulla destra, un materano sta spiegando a un fiorentino la convenienza di fare un mutuo a tasso fisso. Lui è da 11 anni che lo paga. E visti i tempi che corrono e quanto è successo, meglio così, cazzo, meglio il tasso fisso che quello variabile, no? Il fiorentino, mezzo assonnato, fa cenno di sì con la testa.

Arrivo all'alba. Sono nella rupestre Lucania. Ho un appuntamento importante con la segretaria della Presidenza alle 8,30. E alle 9 dovrei cominciare a fare lezione. Temporeggio osservando dei cani randagi che pascolano liberamente in stazione. Poi, finalmente, dopo un caffè di rito, entro nell'ufficio della segretaria. Che è molto carina. E molto simpatica e disponibile. Mi dà anche le chiavi dello studio. Ringrazio e volo in classe.

Mi ricordo che alle 17, dopo la fine delle lezioni, ho ricevimento con una ragazza della SISS (famosa e famigerata). Sono le 15,30 e dopo 3 ore di lezione sento le gambe tremare. Le forze scemano. Iniziano i sudori freddi. Sono le 17,05 e la ragazza non si vede. Chiudo rapidamente la porta dell'ufficio e mi trasporto con movimenti lenti e scoordinati verso l'uscita. La ragazza è lì che, tutta affannata, esclama: "Professore, è lei!". Dico sì e lei: "Per fortuna che l'ho trovata! Mi ero persa dentro questo labirinto". Sorrido. Ma sono a pezzi. E qui comincia la parte onirica del racconto.

Intravedo due occhi verdi molto luminosi. Labbra carnose. Mi parla di supplenze d'inglese e di spagnolo. Ora vorrebbe avere anche l'abilitazione in tedesco. Mi chiede il programma. Mi ritrovo non so come tra le mani il "mio" programma. Con tutta la lista dei libri d'esame. "Posso fotocopiarla?". Le dico che può farne ciò che vuole. Mi accascio su una panchina. "Vada pure lei, io l'aspetto qui". La vedo scomparire dietro la porta a vetro di una copisteria che si chiama "Flash-copy". Vedo il commesso che fa un'espressione strana e mi indica, come fossi un barbone buttato là per caso. Rivedo i due occhi verdi e luminosi. "Fatto, professore". Fatto? Sono fatto? Poi due mani al volante. "La prego, non svenga, perchè tra le altre cose l'ospedale è lontano da qua, eh?". Apro un finestrino di una macchina nera. E' l'auto di questa studentessa. Fatto? Ospedale? Sono io che parlo o è un altro? Siamo qui o a Pisa? O questa è Firenze? E chi guida l'auto? "Ecco, vede, deve scendere lungo viale Garibaldi, se vuole arrivare alla stazione a quell'ora di notte, come mi ha detto lei. Non prenda viale dell'Università, è troppo lungo e poi con le valigie è scomodissimo". Mi s'incrociano i nomi delle strade. Siamo davanti a un hotel. "La ringrazio, è stata davvero gentile. Mi ha fatto da guida, è stata un'ottima cicerone". Le stringo la mano. Siamo davanti a una caserma. No, è un collegio di frati. No, mi dice lei: "E' questo il suo hotel". E penso: "Io a questa la dovrò interrogare. E come farò, quel giorno, a dimenticarmi del fatto che mi ha dato una mano pratica così spassionatamente? Se non era per lei a quest'ora ero ancora in giro. O forse, ero svenuto e mi trovavo già all'ospedale". Poi l'auto riparte. E io vomito anche l'anima, all'ingresso dell'hotel.

"Professore si sente male?". Una monaca di clausura, con il viso mezzo coperto dal velo, s'interessa del mio stato di salute.
"Non si preoccupi, sorella", le rispondo, come fossimo in un film e vado verso la reception, a riconquistare la chiave della stanza, e un po' di tranquillità, e un po' di sonno ristoratore...

lunes, febrero 18, 2008



Alain Robbe-Grillet est mort




L'ho saputo il 18 Febbraio, di pomeriggio, dopo un pranzo fin troppo lauto. Ho letto un solo suo romanzo, quello che s'intitola La gelosia (pubblicato nel 1957), e ne ho un ricordo vago, mi risultò ostico, un romanzo che non era un vero romanzo, con un personaggio che osserva un triangolo amoroso, se non erro e non ricordo male, e passa tutto il giorno a cercare di svelare un mistero che non si capisce bene cosa sia, il tutto scritto con una prosa secca, asciutta, ma proprio per questo ancora più complessa, difficile da seguire. Poi lo incontrai in Spagna, per una delle casualità di cui è fatta la vita. Ascoltai con interesse il suo intervento (qualcuno, prima di lui, qualche critico spagnolo, citò dei brani dalla sua raccolta di saggi Pour un Nouveau Roman, e allora ricollegai la figura, così simpatica e barbuta, al teorico del famoso "Nuoveau Roman", che tanta influenza dovette avere sugli scrittori degli anni 60 e 70 e mi ricordai anche del fatto che Robbe-Grillet collaborò alla sceneggiatura di quel capolavoro che è L'année dernière à Marienbad di Alain Resnais, uno dei maestri della Nouvelle Vague, insieme a Godard, e Truffaut e, il mio preferito, Eric Rohmer). E così presi coraggio e gli domandai non ricordo più cosa circa il romanzo novecentesco e Joyce e lui mi rispose in francese, e poi in inglese (mi confessò che sapeva poco l'italiano) e mi consigliò di rileggermi uno che aveva anticipato anche Joyce, e cioè Italo Svevo, con il geniale La coscienza di Zeno. Poi ci fu un pranzo, e io finii davanti a lui e a sua moglie, una di quelle donne francesi che non riescono a smettere di pronunciare la "erre" con quel tipico accento francese anche quando parlano in inglese, o si sforzano di parlarlo davanti a ospiti non francesi. Una tipa simpatica anche lei, come il marito, che ora è morto, non c'è più, se n'è andato a 85 anni e non potrà più scrivere romanzi nè teorizzarci sopra, nè potrà più consigliare agli italiani amanti della letteratura di rileggersi Svevo... Poi passò a citare la fenomenologia di Husserl e lì persi il senso del discorso, attaccai il secondo, Robbe-Grillet rideva e non si stancava di rispondere a critici e professori che lo disturbavano con le loro domande oziose anche a pranzo, mentre lui mangiava la zuppa di pesce e la moglie sorrideva anche lei, con la "erre" moscia e una chioma bianca sbarazzina e un'eleganza innata davvero sorprendente...

domingo, febrero 17, 2008

Di quante cose abbiamo veramente bisogno per vivere?



La domanda me la sono fatta l'altra mattina, quando sono andato a dare una mano ad Alyssa e le ho fatto i vetri (mi ha detto che mi pagherà per questa mano che le ho dato... le ho risposto che non se ne parla nemmeno, che è vero, per ora non ho molte entrate, ma ancora non sono sul lastrico e poi mi fa piacere darle una mano, una mano pratica, intendo, ogni tanto). E così, mentre io m'improvvisavo lavavetri e m'impegnavo a pulire a lustro una delle vetrate dell'ingresso dell'agenzia mi si è avvicinato un barbabone, uno che il lavavetri lo fa di mestiere, lo fa sul serio, insomma, tutti i giorni. Sorrideva, mentre chiedeva qualche spicciolo agli automobilisti che erano costretti a fermarsi (semaforo rosso) e che puntualmente lo guardavano incazzati prima di sgommare e partire (semaforo verde).
Il barbone mi si è avvicinato e ha riso: "Buono!", mi fa. E indica lo spruzzino che ho in mano.
"Buono profumo! Ottimo!", mi spiega. E ride. Immagino che si stia riferendo al profumo di lavanda che emana il prodotto che fuoriesce dallo spruzzino. E penso: caspita, è vero, non ci avevo fatto caso.
"E' una bomba, questo qua, contro lo sporco", gli dico, tanto per avviare il dialogo (e nel mentre mi do del cretino, ho appena detto una frase da spot pubblicitario di quelli proprio dementi).
"Si fa bene con quella carta", mi fa, indicando il rotolo che ho poggiato su una delle scrivanie. Ha il giubbotto sporco e strappato, un paio di Nike nere consumatissime e una barba sfatta di mesi. Non puzza. Non dà l'impressione di essere pericoloso. Alyssa lo avvista e mi fa cenno di smettere di stare lì a dargli confidenza, potrebbe tornare quando io non ci sarò a farle compagnia, e lei ha paura ("e se poi, presa confidenza, entra in agenzia?"). La capisco.
Ma in quel momento il barbone torna a farsi sotto: sorridendo mi fa: "Alza, alza musica, amico!". Sto facendo i vetri e intanto ho acceso una radio scassata dell'agenzia su RDS. Il barbone accenna anche qualche passo di ballo. In questo momento stanno cantando I gemelli diversi. Rido anch'io per un po' e penso: è la seconda cosa cui non dò importanza e che questo poveraccio nota e dallo sguardo quasi mi invidia. Oltre al profumo del prodotto che uso (faccio le pulizie e ho l'olfatto titillato dal sapore della lavanda), il barbone mi fa capire quanto sia piacevole il fatto che lavori con la musica in sottofondo (lui che l'unica musica che sente è quella che magari, a sprazzi, proviene dalle auto dei potenziali clienti cui chiede qualche spicciolo). Continua a chiedere l'elemosina. Io finisco, Alyssa chiude a chiave l'agenzia. E ce ne andiamo. Torno in macchina, il barbone probabilmente se la sogna, un'automobile. Salgo le scale e prendo l'ascensore: quando sarà stata l'ultima volta che il barbone è salito su un ascensore? Entro in camera e accendo il pc e mi metto a scrivere di lui e penso: il barbone non ha un computer. Forse non l'ha mai avuto e non sa nemmeno a cosa serve, nè come si accende. E penso: di quante cose abbiamo veramente bisogno, oggi, per vivere? Di quante se ne può fare a meno? Quante ne abbiamo, ogni giorno, sotto gli occhi, e non sappiamo che farcene, non ce ne accorgiamo nemmeno che sono lì, sotto i nostri occhi, o non le usiamo o non le apprezziamo per quello che sono?

viernes, febrero 15, 2008



I difetti di Caos calmo (il film)



L'annosa questione se sia meglio il libro o il film ha fatto spargere fiumi d'inchiostro, come suolsi dire, da quando è nato il cinema e quest'ultimo (da arte giovane qual è) s'è nutrito per le sue storie delle storie raccontateci dalla letteratura (come sarebbe stato il film che aveva in mente García Lorca, non l'avessero ucciso i fascisti allo scoppio della Guerra Civile? Ci si ricorda mai del fatto che Pirandello collaborò alla stesura delle sceneggiature tratte dai suoi romanzi?- non vorrei dire una cazzata, ma mi sembra di ricordare proprio questo particolare dalla Storia del cinema di Rondolino e co. S'insisterà mai abbastanza sul fatto che il montaggio, ben prima di Ejzenstejn e di Griffith, venne "inventato" dai romanzieri come Charles Dickens e co.?). Un punto fermo intorno alla riflessione sui rapporti cinema-letteratura c'è, lo si è conquistato, non ci sono più dubbi in merito: ogni opera letteraria che venga trasposta al cinema subisce un'inevitabile processo metamorfico per cui, puntuale, il lettore del romanzo resta deluso dai risultati ed esclama tra sè, magari indignato: "Era meglio il libro!". E' che leggendo ci "facciamo il nostro film", che evidentemente non coincide mai con quello girato da quel determinato regista. Quanti capolavori letterari sono stati rovinati al cinema? (ma vale anche la domanda retorica al contrario: quanto libretti o libercoli sono diventati magnifiche opere cinematografiche? Pensiamo a tutti quei romanzetti di genere cui s'è ispirato Hitchcock per i suoi film... Pensiamo a cosa è diventato lo Shining di Stephen King nelle mani di Kubrick). E' che i libri sono fatti di parole; e le parole si contraddistinguono per una connaturata "polisemia" che nei film si perde. Ed è che i film sono fatti di immagini e per "polisemiche" che queste vogliano essere sono comunque sempre più precise delle parole (delle metafore, poi, non ne parliamo). Se in un libro trovo scritto: "si sedette sulla panchina davanti alla scuola della figlia", in un film devo vedere com'è fatta quella panchina, e capire che tipo di scuola è quella, il colore, la distanza, ecc. Nel libro sono libero di immaginare (su suggerimento del narratore); nel caso del film, vedo qualcosa che ha già visto per me il regista, e non sono più così libero di "divagare" con la fantasia. Quando poi il libro è letteralmente "pieno" dei pensieri di un protagonista che parla in prima persona, beh, allora, nel caso del film io i pensieri posso solo "indovinarli" a partire dai gesti, la parola al cinema deve essere "utilitaristica", deve essere merce d'uso comune, non può trasmettere i pensieri, e se lo fa, con la voce in off, lo deve fare con moderazione (immaginatevi un film con voce fuori-campo che interviene costantemente a commentare, a dire, a spiegare: sarebbe una noia mortale!).

Caos calmo è tratto da un libro il cui fascino si basa molto sull'appeal di un personaggio che pensa cosa sarà (cosa diventa) la sua vita dopo la morte della moglie con una figlia di dieci anni da crescere e accudire. E bastano purtroppo le prime immagini per capire che quell'appeal si perde anche se a recitare la parte è uno come Nanni Moretti. La regia di Antonello Grimaldi è pulita, direi quasi troppo "scolastica"; l'attore è bravo, ma tende a prevalere sugli altri personaggi di contorno (tutti molto simpatici, nel romanzo, anche quando svolgono il ruolo dei cattivi). Nel romanzo si percepisce l'angoscia di chi subisce un trauma simile; nel film, Nanni Moretti è a volte così bravo a fare la parte di chi, nonostante il lutto, non lo elabora e non piange che ci scordiamo della moglie Lara. Nel romanzo di Veronesi l'osservazione della realtà attraverso il filtro di questo personaggio così comune che comunque vive una situazione così anomala tende a farsi spesso poesia; nel film la poesia scompare a favore della prosa; e l'unica momento lirico che mi fa commuovere è quando Nanni Moretti studia i comportamenti dei suoi simili, vede arrivare i vigili e poi capisce che di lì a poco i genitori prenderanno pacificamente d'assalto la scuola in cui si re-impossesseranno dei propri figli (la musica qui aiuta molto; la scena è molto teatrla, oltre che corale). Un po' poco, direi. Anche nel finale, si perde gran parte del pathos del romanzo. Se il libro finisce con il protagonista che, in una sorta di megatelefonata astratta, immagina di mettersi in contatto con tutti quelli che sono andati a "confortarlo" sulla sua benedetta panchina e, infine, chiede di poter parlare finalmente con Lara, nel film Moretti accusa il colpo della figlia ("non stare più qua, papà, i compagni di classe mi prendono in giro") e poi parte, ma senza dire nulla e senza pensare nulla (nè di sè, nè della figlia, nè tantomeno della moglie). Il regista deve aver ragionato "per sottrazione", rispetto a un romanzo tanto vasto e sotterraneamente passionale; però ha "sottratto" troppo, tanto da togliere gran parte della poesia insita in una storia come quella di Veronesi. Non solo non si è liberi di "divagare" con la fantasia; in questo caso, ci viene tolta anche la possibilità di commuoverci (tutto il contrario, per fare un'esempio morettiano, de La stanza del figlio, dove la musica, il montaggio, l'uso delle inquadrature servono proprio a farci "partecipare" del pathos del protagonsita).

lunes, febrero 11, 2008




Don Quijote e Sancho Panza e le frustate per amor di Dulcinea






Questa mattina mi sono svegliato male: ho avuto gli incubi, e poi sono convalescente, dopo due giorni di febbre alta e influenza virale fastidiosissima. E allora ho fatto un esperimento: ho preso una copia del Don Quijote e ho aperto una pagina a caso. L'esperimento è riuscito: Cervantes fa morire dal ridere. E' inutile, non si può, e non si deve mai smettere di notarlo e sottolinearlo e di ringraziarlo per questo . L'autore che scrisse uno dei classici più vivi della letteratura mondiale (un facchino conosciuto qui a Firenze mi ha detto, sinteticamente, ma azzeccandoci parecchio: "Sembra cosa da nulla, e invece dentro c'è tutto") dovette divertirsi moltissimo nello scrivere di simili dialoghi (riporto in originale quanto trovato a caso: DQ, II, 60):

"-¿Qué es esto? ¿Quién me toca y desencinta?
-Yo soy - respondió don Quijote -, que vengo a suplir tus faltas y a remediar mis trabajos: véngote a azotar, Sancho, y a descargar, en parte, la deuda a que te obligaste. Dulcinea perece; tú vives en descuido; yo muero deseando; y así, desatácate por tu voluntad; que la mía es de darte en esta soledad, por lo menos, dos mil azotes.
-Eso no – dijo Sancho; vuesa merced se esté quedo; si no, por Dios verdadero que nos han de oír los sordos. Los azotes a que yo me obligué han de ser voluntarios, y no por fuerza, y ahora no tengo gana de azotarme; basta que doy a vuesa merced mi palabra de vapularme y mosquearme cuando en volutad me viniere.
-No hay dejarlo a tu cortesía, Sancho – dijo don Quijote -, porque eres duro de corazón, y aunque villano, blando de carnes”.

Compassione, comicità e sottile malinconia: tutto insieme, in poche righe, nel cuore di un pazzo che crede a quanto gli racconta lo scudiero, vittima anche lui delle burle degli adulti, Sancho poveraccio che deve sculacciarsi a suon di frustate, tremila frustate sulle chiappe e passa la paura e Dulcinea verrà finalmente "disincantata": cioè vale a dir, riapparirà sotto le vere spoglie (e non quelle "reali" e brutte di Aldonza Lorenzo). Poesia è forse parola esatta... Poesia che nasce dai dolori tutti umani di personaggi che sembran più veri delle persone reali...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...