jueves, octubre 30, 2008

Su Donatella Finocchiaro, i licenziamenti ai precari e le proteste degli studenti (troppa la carne al fuoco, forse, ma cercheremo di essere brevi - del resto, di vita da vivere ne abbiamo solo una, ahinoi)...

La prima volta che ho visto Donatella Finocchiaro (senza sapere ovviamente che si chiamasse così e che fosse siciliana e che venisse dal teatro) fu nel film Angela, di Roberta Torre. Lì vestiva i panni della moglie di un boss locale sotto le mentite spoglie di una commessa di un negozio di scarpe. Ricordo ancora la sua camminata sensuale; gli sguardi (in primo piano) con quegli occhi che brillano (di paura o di tenerezza) e quelle labbra carnose (che invitano al bacio appassionato). Poi me ne dimenticai, fino a quando non l'ho rivista su qualche giornale di quelli tipo Tv sorrisi e canzoni e me ne sono letteralmente innamorato. Questa donna mi accende; mi fa "sesso" (come direbbe il mio fornaio di fiducia); mi ispira gioia di vivere; forse, in tutti questi anni, e dietro il viso delle varie fidanzate che ho avuto, non ho fatto altro che inseguire lo sguardo e il sorriso di Donatella Finocchiaro (e sarà per questo che alcune delle mie ex assomiglino tantissimo a lei; anche Alyssa, anche se non lo ammetterebbe mai e anche se, sì, è vero, è un po' più palliduccia della mediterranea Finocchiaro). 

Il vice-direttore sta per lasciare l'hotel e mi tuffo sul suo pc e da Google provo a fare la ricerca per immagini; voglio riempire il mio desktop delle foto di Donatella; la voglio, sì, io la desidero.

Dopo un po' torna il vice-direttore; ha appena ricevuto una telefonata dal suo capo, il direttore, quello che detiene il controllo di altri 4 alberghi (insieme al "nostro"). Per problemi di "budget" si vedono costretti a licenziarmi. Non ci sono più le condizioni (economiche) per potermi rinnovare un contratto di un anno. 2009, penso: è un numero che mi sta simpatico; chissà come andrà a finire se cominciamo così, con un licenziamento (non in tronco, almeno questo... ho un mese e passa di autonomia...).

Penso ai precari; ai licenziamenti in tronco che ci si può permettere con gente assunta in una ditta con contratto a tempo; al concetto di "liquidità" coniato dal sociologo Zygmut Bauam; al papa che dice che dobbiamo fare più figli (io ne farei pure subito uno; una femminuccia; ma la mantiene lui poi?); a quel ministro che definì i giovani di oggi "bamboccioni"; a chi, diffondendo panico e con lieve accento isterico, ha parlato in questi giorni della "fine per implosione del sistema capitalistico" così come è stato adottato dall'America libera e liberale; a chi, in questi momenti, sta ancora manifestando contro il decreto-Gelmini sulla riforma della scuola.

Penso a quello che sono riuscito a fare con una borsa di dottorato di 800 euro nette mensili per 3 anni; ai viaggi alla Sorbonne di Parigi; ai viaggi alla National Library di Londra; alle ore passate all'interno della Biblioteca Nacional di Madrid; alle conferenze e ai convegni cui ho partecipato dal lontano 2003; alla fatica di studiare in un mondo che sembra(va) andare in una direzione opposta rispetto ai miei interessi chiamiamoli illuministicamente "umanistici"...

E poi penso ai volti di questi studenti di oggi che vogliono un'Università pubblica degna di questo aggettivo e che funzioni in base al merito e non in base ai soldi o al nepotismo imperante di tanti centri di potere. Sono dalla parte degli studenti; anche di quelli che vorrebbero continuare a dare esami e a seguire le lezioni, ma non possono, perchè le aule sono occupate. Sono dalla parte di quelli che si spogliano e ridono per mettere a nudo le ipocrisie di chi davvero mette a nudo la ricerca in Italia. E poi guardo dritto in faccia il mio vice-direttore: "Bene", gli dico: "dunque da Novembre devo fare la valigia". Lui mi guarda e non capisce. Capisco che non ha capito. E me ne rallegro interiormente.

In Italia si sta facendo il massimo per rendere le persone più vulnerabili e più paurose; nel resto d'Europa non so. Mi scrive un amico uruguayano da Barcelona; dice che ha perso il lavoro ma che comunque sta cambiando casa con la sua fidanzata e futura moglie e spera che, ora che ha il permesso di soggiorno e le carte in regola, potrà trovare qualcosa che lo soddisfi; qualche mese fa, Gabriele, da Praga, mi parlava di quanto siano economici gli affitti nella città di Kafka; e un mio amico di ritorno da Dublino mi dice che si stabilirà in Irlanda perchè per quelli come lui (ingegnere informatico) il lavoro si trova subito ed è ben pagato. Ne approfitta, anche per imparare meglio l'inglese e, magari, trovare la donna della sua vita.

"A Dublino piove spesso", gli dico, come a voler rovinargli la festa.
"Sì, ma guadagno quasi 2mila euro nette di stipendio al mese", taglia corto l'ingegnere.

Il vice-direttore va via; comincio a stamparmi qualche foto di Donatella Finocchiaro. Stasera me la porto a casa; la mostro ad Alyssa e le faccio vedere quanto si somigliano. E se dirà che non è vero, non le crederò. Perchè Alyssa è una tipa molto modesta e si vede sempre brutta, anche se non lo è, ovviamente...

viernes, octubre 24, 2008

Nostos

E' piacevole tornare a casa dopo un'intera giornata passata sui treni. Ed è curioso constatare come cambia il clima, il set dell'azione e le facce degli attori e delle comparse sullo sfondo: al caos "equilibrato" (direi quasi "civile") di Firenze fa da contraltare immediato il casino "anarchico" e "caciarone" di Roma (la città più bella del mondo, nonostante tutto).
Ma che tristezza vedere la Stazione Termini ridotta a una specie di prototipo di hangar futuristico (alla Balde Runner, per intenderci) infarcito a ogni angolo e su ogni binario di schermi piatti a cristalli liquidi che emanano sempre le stesse immagini e sempre la stessa fastidiosa melodia della stessa pubblicità ripetuta ad infinitum...
Si nota subito che c'è fermento nell'aria: vicino al McDonald un gruppo di studenti universitari prepara gli striscioni anti-Gelmini e si appresta a sfilare lungo le vie del centro (Piazza della Repubblica, poi Via Nazionale, chissà se arrivano fino a Piazza Venezia); intanto, una piccola pattuglia di poliziotti in tenuta anti-sommossa osserva i preparativi con sguardo torvo. E che ridere (mi ha rallegrato il momento della pausa-pranzo) quando al tg di Rete4 uno dei manifestanti replica alla domanda del giornalista spiegando quali sono i motivi reali delle loro proteste (sacrosante - sono 3 secondo me i perni da cui si misura il grado di civiltà e di progresso di un Paese: a) il rispetto verso le donne; b) il grado d'istruzione dei cittadini; c) la pulizia delle strade - e su tutti e 3 questi punti l'Italia, ahimè, è lontana dal prendere la sufficienza) e, con fortissimo accento romanesco, questo risponde: "Perché è ora de finilla, è ora! Perché nun è giusto fa i tagli alla scola, c'è dietro un motivo palesemente politico, ce vonno tutti ignoranti, ce vonno, vonno fa un paese d'ignoranti, è questa la verità!" (chissà cosa avrebbe detto - o scritto - Pasolini, all'ennesima protesta del mondo della scuola e dell'Università contro le scelte del governo...).
E come cambia ancora il paesaggio dopo circa 100 km da Roma, andando verso la città tra i monti abruzzesi in cui sono nato (Tivoli, Carsoli, Tagliacozzo... sono i nomi delle fermate della mia via crucis personale, della via crucis della memoria...). Al clima temperato della capitale si sostituisce subito l'aria più fredda della Regione Abruzzo, il verde degli alberi sembra più verde, le rocce più rocciose, la terra più selvaggia...
E com'è, infine, piacevole e rassicurante aprire la porta e gettare lo zaino e la valigia pesante sul primo divano che mi capita sotto tiro e risalutare e riabbracciare i miei e poi riguardare la cameretta e lo studio, con i vecchi libri, gli amici lasciati a malincuore in questa casa, in quella che è (stata) la mia prima biblioteca, quella che ho costruito con pazienza nel corso degli anni, dall'adolescenza in avanti... quella cui tengo di più...
Accarezzo la ponderosa biografia di Joyce scritta da Sir Richard Ellmann; riapro a casaccio una pagina di Pnin di Nabokov (e ci scappa una risata); leggo due versi della comica e strampalata commedia degli errori di Shakespeare, The Merry Wifes of Windsor ("Le allegre comari di Windsor"): 

Love like a shadow flies when substance love pursues, / Pursuing that that flies, and flying what pursues

Di quest'opera non ricordo nulla, so vagamente in cosa consiste la trama, ma ricordo bene il fatto che protagonista assoluto è lui, Sir John Falstaff, allegro e ciccione, divertente e malinconico come sempre (una sorta di antesignano di Sancho Panza - o suo lontano parente - ma dalla filosofia di vita più complessa e sofferta). La traduzione a fronte in italiano non aiuta: "Amor, qual ombra involasi se amor sostanza segue, insegue ciò che fugge, fugge ciò che insegue"; ritorna la proverbiale domanda: chi vince in amore, chi insegue o chi fugge? E torna in mente Dante, col suo (purtroppo sputtanatissimo) "Amor ch'a nullo amato amar perdorna"...

Ha proprio ragione quello scrittore spagnolo, come si chiama, sì, quello, Javier Marías, l'autore di Tomorrow in the battle think on me, Shakespeare ci piace (e ci turba - o ci piace perché ci turba) perché è indeciso; non sai mai bene cosa voglia dire; non esiste un solo suo verso che non possa dare adito a più d'una interpretazione (o a una serie di interpretazioni contrastanti tra di loro); non c'è una sola sua frase che non apra la porta o la strada verso altri mari, altri lidi...

E' bello tornare a casa, dopo tanto viaggiare...

miércoles, octubre 22, 2008


Teoría del conocimiento, di Luis Goytisolo (Barcelona, Seix Barral, 1981)

Mentre Alì chatta con i suoi fratelli e riesce a sentire la sua Giordania molto più vicina di quanto non sia grazie a messanger, e mentre qualche cliente entra ed esce dall’hotel in preda a chissà quale strana smania o inquietudine interiore, leggo un romanzo strano sin dal titolo. Un’opera dello scrittore spagnolo Luis Goytisolo; un libro il cui titolo è già (di per sé) un enigma: “Teoria della conoscenza”… Che s’intende per teoria? E cosa per conoscenza? Esisterà mai una “teoria della conoscenza”? Mi vengono subito in mente altri due libri: due saggi, in realtà: l’uno di Immanuel Kant (Critica della capacità di giudizio, la cosiddetta “terza critica” – quella in cui il filosofo tedesco s’interroga su che cosa sia il “bello” e se esista una “capacità” o “facoltà” di giudizio che operi nel momento stesso in cui decidiamo che qualcosa ci risulta essere “bello”); l’altro di Ludwig Wittengstein (Osservazioni filosofiche, una specie di work in progress in cui non sapremo mai chi è l’assassino, anche se un qualche assassinio deve essere stato commesso in principio). E mentre mi ripeto la domanda: “esisterà mai una vera teoria della conoscenza, una teoria che sappia spiegarci per filo e per segno cosa succede quando “apprendiamo” e “conosciamo” qualcosa?”, leggo sul risvolto di copertina dell’edizione dell’81 che maneggio che Teoría del conocimiento è, in realtà, la quarta parte di una tetralogia composta dagli altri tre capitoli: Recuento (1973); Los verdes de mayo hasta el mar (1976) e La cólera de Aquiles (1979). Inutile aggiungere che la scoperta non fa che aggiungere ansia a sconforto, sconcerto a ansia. Non so se riuscirò a leggere mai le altre tre parti. E non so ancora di cosa mi parla la fine, questo quarto capitolo che, chissà in quale strano modo, dovrebbe concludere e chiudere l’intero impianto narrativo…

Eppure vado avanti a leggere. Mi affascinano i libri che non riesco a capire o a interpretare subito; mi piacciano le trame complesse o inesistenti. La prima pagina mette in crisi chiunque: perché ripete il titolo che si legge in copertina ma aggiunge un dettaglio, anzi, due: a) il nome del presunto autore, tale Raúl Ferrer Gaminde; b) il sottotilo “novela”, ovvero, in italiano, “romanzo”, come a voler sottolineare il fatto che sì, chi legge si trova davanti a un “romanzo”, un libro che ha una sua trama narrativa, un suo sviluppo e, eventualmente, una sua fine… o conclusione esplicativa.

Il libro è diviso in 12 capp.; sono arrivato al cap. VIII, ma non so ancora niente del finale né se ci sarà un finale. Intuisco che sulla pagina scritta si alternano i monologhi di diversi personaggi; spicca su tutti la voce di un tale, un architetto, che sembra rispondere al nome di Ricardo Echave (niente a che vedere con il Raúl Ferrer Gaminde del titolo iniziale; il secondo, dopo quello ufficiale che appare in copertina). Non che mi sia molto simpatico, ma i discorsi che questo Ricardo fa intorno alla sua infanzia, i familiari, l’adolescenza, i primi atti di ribellione politica all’Università (contro il franchismo, che dal 39 al 75 regna sovrano imbavagliando ogni forma di resistenza interna alla Spagna più civile e democratica), i suoi amori plurimi con donne che rispondono ai nomi di Magda, Rosa e Margarita, i suoi odi o dissensi nei confronti del padre o dei fratelli, insomma, tutto ciò che dice con uno stile forbito e un periodare complesso, da analista, da filosofo analitico, mi coinvolgono e mi spingono a continuare la lettura… fino a quando non si verifica una prima grossa sorpresa. A un certo punto qualcuno fa un commento intorno al presunto diario di Ricardo Echave: si nota che vuole scioccare il lettore, descrivendo nel dettaglio alcune sue esperienze sessuali. Ma si nota anche l’influsso dello stile di Luis Goytisolo… Accidenti! Ma allora il diario è solo un finto diario autobiografico. Chi scrive dicendo di parlare con tutta onestà e franchezza lo fa con lo stile-Goytisolo… c’è qualcosa che non quadra.

Vado avanti nella lettura e nel cap. V trovo un paragrafo che mi chiarisce e, al contempo, mi complica ulteriormente le cose: Teoría del conocimiento è evidentemente un meta-romanzo; ma chi guarda chi (o chi legge chi) quando chi scrive ci mette sotto i nostri stessi occhi le sue stesse critiche al modo di poter scrivere dei propri dubbi nel momento stesso in cui si mette a scrivere di sé? Chi guarda chi? Chi legge chi? Chi scrive di chi? Il cap. V è centrale, in tal senso: e l’ultimo paragrafo (dal titolo significativo “El ojo” – ovvero “l’occhio”) serve a ribadire quanto andavamo solo ipotizzando. In questa parte l’autore ci coinvolge pienamente nel lavoro di “scrittura” e “ri-scrittura” del testo attraverso le sue riflessioni:

1-     mentre leggiamo un testo di finzione (traduco al volo e, forse, male)scopriamo aspetti non solo imprevedibili da parte dello stesso autore, ma anche insospettabili, completamente estranei ai piano di questi;

2-     ciò accade non solo e non tanto perché quanto l’autore si è proposto di scrivere racchiude significati non progettati, e che in tal modo si riflettono nell’opera, ma anche e soprattutto perché leggere un libro è come sottolinearlo a matita, come evidenziare, segnalare e perfino aggiungere commenti a margine, non tanto intorno a ciò che è importante rispetto al testo in sé, quanto intorno a ciò che è importante per noi, motivo che spiega perché ci dia tanto fastidio prestare libri sottolineati nella misura in cui la nostra intimità può venire coinvolta; ciò porta a questo nuovo ragionamento:

3-     il lettore di un’opera di finzione trova sempre una serie di significati che l’autore non saprebbe spiegare perché sono lì, nell’ipotesi che si sia accorto del fatto che ci sono, per progettata che avesse pensato l’opera, tanto nelle linee maestre che la determinano, quanto in rapporto ai dettagli minori della sua realizzazione, soppesata parola per parola;

4-     e allora che cosa diventa l’opera, da questo punto di vista? L’opera diventa il punto verso cui convergono autore e lettore, l’ambito in cui si riflettono le loro rispettive attitudini.

Mi fermo a pensare. Mi accendo una sigaretta, anche se non si può (ordino ad Alì di spalancare le porte e di consegnare lui le chiavi se torna qualche cliente nottambulo o ritardatario). Rileggo il punto 4. E mi viene in mente Proust. E Cesare Pavese (in particolare il suo diario intimo, Il mestiere di vivere). Non solo vivere è un mestiere (che a volte richiede pazienza e forte capacità d’adattamento o doti di prestigio), ma anche leggere è vivere e scrivere è vivere; mi viene in mente un altro scrittore spagnolo, Enrique Vila-Matas, che colpisce perché non sai mai quando parla sul serio o sta solo scherzando. E penso a James Joyce. Dopodiché continuo a leggere e il narratore prova a spiegare la sua “teoria” attraverso vari esempi, tra cui Proust e il suo Contre Saint-Beuve; e il Velázquez de Las Meninas, quel quadro in cui si vede Velázquez nell’atto di dipingere un quadro di cui vediamo solo la parte posteriore, e mai il soggetto, che (sono i Re) appare di riflesso su uno specchio posto dietro il pittore, mentre in primo piano vediamo le “damigelle” che accompagnano la piccola “infanta”, e sullo sfondo uno spettatore scuro che, incorniciato dentro una porta, sta per salire delle scale (o forse le ha appena scese) e contempla la scena (il pittore che dipinge) mentre su tutto aleggia un’atmosfera da sogno, bello e inquietante, com’è l’atto del leggere, com’è leggere questo romanzo, che comincio a sottolineare a matita e a commentare con commenti e giudizi al margine, senza riuscire più a capire chi scrive cosa e chi legge chi, ma con la ferma convinzione del fatto che sì, è vero, il testo scritto (di finzione) è davvero l’unica superficie riflettente in cui autore e lettore possono incontrarsi e scontrarsi o venire a patti, in cui l’universo dell’uno si completa e prende vita grazie all’universo dell’altro, e i nostri occhi guardano l’universo attraverso gli occhi dell’autore, che, non visto, forse ancora ci sta guardando, come Velázquez guarda il soggetto del suo quadro, un quadro che non vedremo mai (più).

sábado, octubre 18, 2008

Fat Boy Slim (un)censored

Consiglio questo link:


Per farsi due risate (che non fanno mai male) e vedere come si può giocare con ironia sulla mania che ancora oggi hanno taluni di censurare e tagliare lì dove non ce n'è motivo (soprattutto quando a essere pornografico non è un fatto o un oggetto in sè quanto lo sguardo di chi ce lo presenta...).

N.B.: la cosa più assurda è che You Tube vi chiederà di "confermare la data di nascita" e, quindi, di dimostrare d'essere maggiorenni, presentando il video come fosse per "soli adulti", e quindi, in certo senso, censurandolo per chi maggiorenne non è, quando il video parla proprio di questo, di non vedere streghe ovunque o diavoli lì dove non ce n'è l'ombra! Ma tant'è...

viernes, octubre 03, 2008


David Foster Wallace (DFW, da ora in avanti) e le aragoste

Ho scoperto questo scrittore per caso, leggendo sul giornale la notizia della sua morte il giorno dopo del suo suicidio (DFW si è tolto la vita impiccandosi il 12 Settembre scorso all'età di 46 anni - stando a quanto dicono i giornali; nonostante fosse scrittore puro e solo scrittore, non ha lasciato nessun messaggio scritto, nulla che possa guidare i futuri biografi a spiegare il suo gesto più estremo...). E quindi, non avrei mai letto i suoi saggi, i racconti e reportages se lui non si fosse impiccato (ed è curioso pensare che un autore diventa noto a un lettore nel momento stesso in cui smette d'essere un autore in carne ed ossa e comincia a diventare un autore "morto" da manuale di storia della letteratura, con tanto di trattino tra la data di nascita e quella della morte, un autore "ormai appartenente al passato", un classico (per alcuni) di cui ora si può disquisire perchè tanto, tra le altre cose, non avrà più modo di rispondere alle accuse o di smussare le critiche o gli elogi, insomma, di dare la sua versione dei fatti sui suoi stessi scritti...). Se DFW non si fosse mai tolto la vita, io non avrei mai letto e apprezzato saggi come Considera l'aragosta o Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più o racconti come La ragazza dai capelli strani (mi restano ancora i romanzi, e primo fra tutti l'enciclopedico e immenso Infinite Jest - un libro la cui mole non può non spaventare anche il più intrepido e famelico dei lettori di romanzi....); e già questa "frase condizionale" (se non...allora...) mi fa pensare a quant'è strana la vita e a quant'è ingiusta la sorte verso certi autori divertenti che hanno riflettuto spesso e volentieri su com'è strana la vita e su quant'è ingiusta la sorte a volte con noi, poveri umani confinati su questa Terra, a volte nostro malgrado.
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Ma chi è (era) veramente DFW? Non pretendo di rispondere a una simile domanda, anche perchè ne so ancora (troppo) poco per poter anche solo ipotizzare una qualche risposta plausibile... Posso però fin da ora dire chi è (e sarà per sempre) DFW per me: uno scrittore puro; cioè uno che, attraverso la scrittura, poteva fare ogni cosa e parlare di ogni argomento; uno che, attraverso il racconto, sapeva farti penetrare nell'ottica dei suoi personaggi desquiciados e un po' paranoici con un umorismo degno dei fratelli Marx o di Buster Keaton (forse tra i due esempi DFW assomiglia di più a BK, anche se sarebbe stato davvero difficile qualificare uno come DFW come "l'uomo che non ride mai" (o the great stone face); anzi... ci sono molte foto su internet che lo ritraggono mentre sorride a trentasei denti, con sincera spensieratezza e liceale spontaneità - cfr. supra). Qualche es. di quanto vado argomentando (senza filo logico stringente, come piace a me argomentare): DFW sa narrarci una sua visita a un Fiera del Bestiame Puro Americano nell'Illinois come fosse una sorta di discesa agli Inferi (cfr. "Invadenti evasioni" in Tennis, tv, trigonometria, tornado, etc.). Ora qualcuno dirà: e che ci vuole a scrivere di una fiera come di un luogo da incubo dal quale non si desidera altro che scappare? Ma non è solo questo; è che DFW fa la cronaca di quanto vede "dal vivo" di quella Fiera (gli animali, i bambini che mangiano schifezze ipercaloriche, i genitori obesi che esultano per un gadget idiota in omaggio, etc.) e, al contempo, ci fa intravedere tutto il marcio che si nasconde dietro certi tic nervosi o vezzi ipocriti tipici dei suoi connazionali americani (geniale la riflessione sulle t-shirt con le scritte idiote indossate da idioti che credono di distinguirsi dalla massa quando invece...). E già questo è un punto a suo favore: può cominciare un suo articolo come "cronista" o "giornalista accreditato", ma c'è sempre un momento nel corso della sua scrittura basata "sul vero" in cui appare la vena riflessiva, direi quasi filosofica, sul senso profondo di quanto vede e descrive. DFW sa essere filosofo come pochi scrittori americani odierni. E non si tratta di una filosofia spicciola o, peggio, "meditata". E' questa la sua particolarità: è che fa filosofia a-sistematica a partire dal caso, da ciò che il caso gli mette inaspettatamente sotto gli occhi (e a proposito di a-sistematicità, non deve essere un caso se DFW cita spesso, anche se velatamente, l'ammirato L. Wittengstein, uno che di "osservazioni filosofiche anti-sistematiche e a-sistetamiche" se ne intende parecchio). 
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Un evidente indice stilistico di questa sua tendenza è dato dalla presenza a volte davvero massiccia delle note a piè di pagina. DFW usa le note sia per gli articoli di taglio giornalistico che per quelli di taglio più critico e letterario (oltre che per le opere di narrativa: ripeto, ancora non ho avuto il coraggio, ma pare che Infinite Jest presenti un apparato di un centinaio di note scritte a carattere 10 e fitte fitte). Dunque, DFW è uno scrittore che parte dalla realtà esterna per poi riflettere anche sui massimi sistemi, ma sempre con atteggiamento scanzonato e ironico (a volte caustico, altre sarcastico), mai con atteggiamento da "secchione della classe" o "saputello tuttologo". E qui sta la sua seconda particolarità: DFW è un autore tremendamente ironico e umoristico e che sa usare con garbo anche l'auto-ironia. Non posso non ricordare in tal caso il brano "Il figlio grosso e rosso" dalla raccolta Considera l'aragosta: in questo caso il Nostro ci fa "penetrare" di soppiatto nel variegato mondo del cinema hard-core. Siamo agli AVN Awards (i Premi Oscar del porno) e diventa davvero difficile non sorridere e, al contempo, non impallidire davanti alle mille piccole follie di cui si rendono protagonisti registi, attrici e spettatori di una simile manifestazione. E le note a piè pagina contribuiscono ad aumentare, se possibile, entrambi gli aspetti (l'assurdità del comportamento di certi loschi figuri e la quasi "innocenza adolescenziale" di chi paga per applaudirli e filmarli con la telecamerina portatile).
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Quindi, tocchiamo in questo breve schizzo (o ritratto) dell'autore suicida quello che potremmo elencare come il terzo aspetto che salta agli occhi leggendo le sue cose e che lo rende identificabile rispetto agli altri scrittori (quasi un marchio di fabbrica): DFW fa dell'umorismo e dell'ironia anche su temi scottanti o che scuotono le coscienze (non solo del lettore americano, anche se soprattutto lui - e io, se fossi americano, mi vergognerei un po' più di me, dopo aver letto DFW). Altro es. tratto da Considera l'aragosta, il mini-saggio "Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente": qui DFW ci fa riflettere su un aspetto notevole della scrittura kafkiana, e cioè sulla sua evidente (ma difficilissima a spiegarsi razionalmente) comicità. Kafka è comico, oltre che inquietante, onirico, surreale, etc. DFW sta parlando di questo tema così interessante quando ecco scattare la nota n.3 (p. 68 dell'ed. Einaudi che maneggio - del 2005) in cui si legge: 

"Si potrebbero scrivere libri interi della Johns Hopkins U. Press sulla funzione lallativa dell'umorismo nell'odierna psicologia degli Stati Uniti. In parole povere, la nostra cultura attuale è, da un punto di vista sia evolutivo che storico, adolescente. E poichè l'adolescenza è riconosciuta come il periodo in assoluto più stressante e spaventoso dello sviluppo umano - [tralascio un inciso che poi diventa un inciso segnalato dall'asterisco che poi viene collocato a fine nota per rendere la medesima ancora più complessa e intrecciata] - non è difficile capire perchè noi come cultura siamo così sensibili a quel tipo di arte e intrattenimento la cui funzione primaria sia la fuga, e cioè tutto ciò che tira in ballo il fantastico, l'adrenalina, lo spettacolare, l'amore romantico, eccetera".

Fermiamoci qui. Qui dentro (dentro questa nota) c'è quasi tutto. L'autore ci aiuta a capire perchè, ad es., negli USA hanno tanto successo ai botteghini i film d'azione o romantici (piuttosto che quelli di un Woody Allen o cosiddetti "d'autore"); non solo: ci dice anche perchè, in generale, nel mondo odierno siamo tutti più adolescenti (vedi madri che fanno a gara con le figlie per chi indossa la minigonna più corta e alla moda; o padri che vogliono essere a tutti i costi "amici" dei loro figli; vedi le varie denuncie di persone d'una certa età contro McDonald - perchè sono convinte del fatto che la loro obesità derivi dagli hamburger dei McDonalds - o dei tabagisti incalliti contro le grosse multinazionali delle sigarette - per cui se la Marlboro non mi dice a chiare lettere che il fumo provoca il cancro, io poi come faccio a smettere?). Qui dentro, dentro questa semplice nota, c'è una riflessione acuta (ma non pedante) sul perchè - sin da fine Ottocento - Nietzsche poteva parlare proprio di "infantilizzazione" della specie umana odierna in quanto incapace di prendersi delle responsabilità sul groppone e, invece, sempre pronta a "fuggire" davanti ai problemi o a scaricare sugli altri le loro debolezze (cfr. Sul danno e l'utilità della storia per la vita). E insomma, dentro una semplice nota DFW apre (per il lettore disposto a seguirlo) un ventaglio di interpretazioni possibili e interrogativi latenti che vale davvero la pena di porsi se poi, colui che te li pone, usa tanta sagacia e tanta simpatica ironia...
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Per concludere, per il momento (tornerò sui racconti e, spero, su Infinite Jest in un'altra occasione) e per non ammorbare ulteriormente il lettore, possiamo riassumere il tutto dicendo che DFW è davvero uno scrittore "totale", oltre che "puro", che purtroppo ha smesso di scrivere perchè, forse e ahinoi, non aveva più voglia di vivere e di riflettere con tanto acume sulla nostra vita grama...

Io e mio padre

Io e mio padre abbiamo sempre avuto un rapporto difficile, anche se non oserei mai definirlo “conflittuale” (con tutte le accezioni freudiane che si possono associare a questo aggettivo quando si parla di relazioni paterno-filiali). Mio padre, Gianni, fa il musicista per necessità e per passione. Lo fa perché gli è sempre piaciuto suonare e suona perché così gli ha insegnato mio nonno, cioè suo padre, che si chiama Tonino e suona il violino dall’età di 6 anni (oggi ne ha 86, se li porta bene anche se sta sempre lì a dire che la vecchiaia è una malattia incurabile e che presto ci lascerà e che se ne andrà al cimitero e chi s’è visto s’è visto, mondo schifo, cazzo – mio nonno parla un fluente italiano corretto da membro dell’Accademia della Crusca… con questa particolarità, però: che ogni tre per due infila una parolaccia o una bestemmia nel discorso, anche quando la parolaccia è evidentemente fuori luogo). Quindi, riassumendo, possiamo dire che mio padre, Gianni, ha imparato a suonare per trasmissione genetica ed eredità paterna: mio nonno lo ha costretto a fare i primi solfeggi dall’età di 8 anni (quindi mio padre suona da allora e fino a oggi non ha mai smesso: oggi di anni ne ha 54). Tradizione avrebbe voluto dunque che anch’io diventassi un musicista, ma così non è stato e la catena si è interrotta quando, all’età di 15 anni, decisi che era giunto il momento di smetterla con l’Ave Maria di Schubert o la Primavera di Vivaldi (uno dei musicisti preferiti da mio nonno, Tonino) e di concentrarmi di più sugli svaghi di quell’età (girate in motorino con gli amici; partite infinite a calcetto; primi approcci maldestri con l’altro sesso; incipiente passione per i libri). E così, non oso nemmeno immaginare la reazione che dovette avere mio nonno, Tonino, quando mio padre, Gianni, gli comunicò che io ne avevo abbastanza e che il pianoforte era troppo difficile per me (di sicuro partì qualche “Porca la Mad…[bip]” da parte del nonno). Ma tornando a bomba: mio padre, Gianni, non ha fatto solo il musicista nella vita; per campare e subito dopo che mia madre mi mise al mondo (con una certa sorpresa da parte sua, lui che, poco più che ventenne, forse, a quell’epoca, era ancora una scavezzacollo e di certo non pensava a diventare padre e marito di mia madre a quell’età) iniziò a fare ogni sorta di lavoretto extra: quando mio padre, Gianni, ha avuto scarsità d’alunni (e quindi di denaro), si è messo a fare l’imbianchino, il falegname, l’idraulico, il muratore, il contadino, con ottimi risultati (a quanto dicono) in tutti questi diversi campi dello “scibile” umano. Non solo: per passare il tempo o sbollentare la rabbia dei periodi più brevi, mia madre mi ha raccontato che mio padre, Gianni, cominciò a dipingere quadri (nature morte, all’inizio, nudi di donna, poi) ricevendo elogi da parte di veri pittori amici di famiglia. Poi smise: all’improvviso, così come aveva iniziato (forse non aveva più bisogno di sfogarsi coi pennelli; sta di fatto che uno dei suoi quadri – uno di quelli che ritrae una donna completamente nuda, ferma immobile davanti a uno specchio a contemplarsi i capelli – sia finito a casa mia e di Alyssa ad ornare il “salotto buono”). E così, quando a lezione, alle medie o anche alle superiori, qualche prof. o compagno di classe mi chiedeva che lavoro facesse mio padre io ero solito rispondere con un vago: “un po’ di tutto”, calcando l’accento sull’aspetto più artistico (la musica) e occultando dettagli sugli aspetti più “artigianali” (l’imbiancatura, la stuccatura, la costruzione edile, etc. etc.).

Non che mi vergognassi di mio padre, per carità e lungi da me… Ma era complicato spiegare il lavoro di un genitore che di lavori ne aveva sempre svolti tanti e, alle volte, tutti insieme contemporaneamente (per cui non era raro, a volte, vederlo fare lezione di musica in tuta da muratore o con le mani callose per gli attrezzi da contadino usati nel campo di patate in nostro possesso durante tutti i fantastici anni 80).

Mio padre ha avuto successo nella vita, non c’è che dire: ci furono un paio d’annate in cui riuscì ad avere una cinquantina d’allievi sparsi per la zona in cui vivevamo allora (oggi sono molto ma molto meno). Una foto (oggi incorniciata su cornice dorata) testimonia quanto dico: è una foto di carnevale, io sono quello in basso a sinistra, vestito da Zorro, e se l’osservatore porta pazienza e si prende la briga di contarli, ebbene sì, s’accorgerà che quegli alunni sono proprio una cinquantina (53 per l’esattezza, me escluso).

Sono trascorsi gli anni e nel corso degli anni la distanza tra me e mio padre si è fatta sempre più vasta: non parlavamo mai; non litigavamo. Io facevo delle scelte che lui disapprovava: io m’incazzavo e lui dimostrava la disapprovazione con il silenzio (l’indifferenza ferisce più di mille parolacce, certe volte; lui peccava d’indifferente e io ci stavo male, ma tant’è). Ho avuto un paio di fidanzate che si sono spaventate per il nostro rapporto difficile. Le domande delle varie fidanzate di turno erano sempre le stesse e si riassumevano sempre in queste due frasi fatte: a) “Ma come fate a non parlarvi?”; b) “Ma che razza di rapporto è mai questo?”. E in effetti potevano trascorrere giornate intere in cui le mie uniche parole pronunciate direttamente verso mio padre, Gianni, potevano essere solo: “Mi passi il pane, per favore?”, se eravamo seduti a tavola, o “Mi passi il telecomando?”, se stavamo in sala e lui guardava un programma che né io né gli altri sopportavamo.

Eppure io lo sapevo e l’ho sempre saputo: mio padre, Gianni, mi vuole bene, così come io so con certezza di volergli bene. Eppure, in tanti anni di “convivenza” a volte forzata non ce lo siamo mai detto… E le domande solite tornavano a galla, anche da parte di parenti e amici stretti, tranne che da parte di colei che sa tutto e non ha bisogno di chiedere nulla perché conosce alla perfezione le due parti in lotta, ovvero, mia madre, una vera santa e una combattente nata che ha sempre manifestato un’estrema pazienza e una fortissima sensibilità nel non costringerci a sputare il rospo e a sanare questo famoso rapporto complesso e complicato. E come si fa? Qualcosa si è fatto. Negli anni io e mio padre abbiamo cominciato a parlare; del suo lavoro (oggi gli allievi di musica scarseggiano; chi non segue il conservatorio è difficilissimo s’iscriva a un corso di musica in una scuola privata, anche perché molti, troppi, forse, preferiscono fare calcio, o basket, o karatè, o nuoto, o semplicemente non fare nulla e starsene tutto il santo giorno davanti al pc o alla tv); del mio studio e dei miei lavoretti saltuari; della mie famose “scelte” che lui in passato disapprovava e che ora, nel presente, sembra quasi accettare o approvare. Intanto, io sono diventato più adulto e lui, Gianni, si è fatto più anziano: ha i capelli grigi e lo sguardo più stanco; suona ancora Mozart e Schubert e Bach, ma non dipinge più; si preoccupa per me e i miei fratelli, ma non lo da a vedere, come se lui fosse sempre lo stesso, quell’orso freddo e distaccato che non ti degna di un sì e non ti degna di un no, che a volte usa l’indifferenza per mascherare chissà quale tumulto interiore.

Giorni fa ha rischiato grosso, finendo sotto una macchina che l’ha centrato in pieno mentre lui, distratto, attraversava la strada senza guardare e senza usare le strisce pedonali. Ci siamo sentiti per telefono e mentre mi parlava con inusitata logorrea di com’erano andati realmente i fatti, mi è venuta in mente una scena abituale di quando io ero ancora piccolo e vivevo a “casa mia”: mio padre, Gianni, che se ne sta in giardino, di notte, seduto su una sedia di plastica, sotto un gazebo bianco, mentre contempla il prato antistante casa nostra. Non parla, fuma soltanto. E se gli chiedo cosa faccia, lui non mi risponde. Poi riattacchiamo, entrambi sollevati dalle buone notizie del dottore che gli ha fatto le prime radiografie alla schiena, e penso che mio padre per me è ancora un enigma. E che comunque gli voglio bene (come lui ne vuole a me) anche se non ce lo siamo mai detti (anche se, forse, non ce lo diremo mai). In fondo, io e mio padre siamo molto, forse troppo, simili per fare uno dei due il fatidico, primo passo…

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