domingo, septiembre 28, 2008

"Lectura, una educación sentimental"


Mi si chiede di partecipare a un convegno, nel Sud della Spagna, il cui tema è riportato nel titolo di questo post. Mi si chiede, in pratica, di parlare delle influenze letterarie degli scrittori che reputo importanti per me (e che potrebbero esserlo anche per l'epoca in cui (mi) trovo a vivere). Mi si chiede, forse, anche, di parlare di come certe letture mi hanno influenzato e hanno così determinato il mio modo di rapportarmi alla vita. Mi si chiede, in soldoni, l'impossibile, o comunque qualcosa che esula sia dalla critica letteraria che dall'analisi saggistica di tipo accademico. E io, per ora, non so come fare; anche perchè non mi è mai capitato di scrivere e parlare in pubblico esulando da quel tono (saggistico e accademico insieme) che tanti sbadigli può provocare "malgré nous" nel rispettabile...


E come affrontare un argomento del genere? (la dead-line - come la chiamano gli anglofoni, con lieve accento militaresco e minaccioso - o plaza - come dicono gli spagnoli - "s-cade" il 17 Ottobre prossimo, fra poco, dunque). E cosa dire per non indurre allo sbadiglio il rispettabile? Da quale aspetto o autore posso partire?


Se mi fermo a riflettere ho un primo, nitido ricordo delle mie abitudini da "lettore incipiente" e in potentia (parliamo di un'epoca in cui ancora giocavo a calcio con gli amici nel campo sotto casa dalle 13 alle 20 della sera, tutti i giorni, esclusa la Domenica - passata a guardarle, le partite, davanti alla tele del bar): ricordo ancora molto chiaramente la copertina misteriosa dell'edizione italiana (Mondadori) di Cent'anni di solitudine, del Premio Nobel Gabriel García Márquez... Un libro strano che parlava di cose strane, tipo personaggi femminili che volavano, morti che tornavano in vita, vecchi generali che scampavano un'infinità di volte all'esecuzione capitale...

Lessi quel romanzo in 3 giorni, dimenticandomi a volte di fare merenda, e facendo sgolare mia madre per spingermi a scendere giù a cenare. Ne rimasi folgorato: e quando arrivai alla fine la voce del narratore esterno e onnisciente mi lasciò di sasso, avvertii dei brividi lungo la schiena e per un po' mi parve di essere finito anch'io nello stesso vortice biblico che travolge le vite degli ultimi sopravvissuti della stirpe dei Buendía...

García Márquez mi ha insegnato che la scrittura può ri-creare il mondo; non uno qualsiasi, ma proprio questo qua, in cui viviamo, leggiamo e ci muoviamo quotidianamente. Macondo siamo noi, direbbe qualche cattivo editore o pubblicitario in crisi creativa. Ma nella sostenza è così (e non ci è più possibile guardare la realtà esterna a prescindere dall'esistenza "letteraria" di Macondo)...

Poi è stata la volta di James Joyce. Come scrisse Italo Svevo chissà in quale articolo o saggio: "Ulisse è come una cattedrale gotica: per apprezzarne la bellezza vi si deve entrare in punta di piedi, e contemplarne la struttura". Non si può aprire la prima pagina del romanzo come si spalanca la porta di una chiesa; e non si può pretendere di "contemplare" tutto in un unico colpo d'occhio. Bisogna accettare umilmente i propri limiti; e forti di questa umiltà lasciarsi guidare dall'istinto e dalla mobilità della mente nel creare connessioni lì dove sembra non esserci nulla...

Ulysses è stato un incontro fatale, proprio come Cent'anni di solitudine: lo lessi in una settimana, mi ci persi com'era ovvio che accadesse e com'era giusto (secondo l'osservazione di Svevo), e mi ci feci un sacco di risate... Sì, perchè quest'opera-mondo è piena di ironia o di scenette umoristiche o esplicitamente comiche (anche se nel capitolo "girato" nel cimitero prevale un tipo di "humor" molto ma molto "nero"). Lo spiegò lo stesso Joyce: "Non c'è una sola riga dell'Ulisse che non sia stata concepita sotto l'egida dell'ironia". Mi fa venire in mente il reverendo Lawrence Sterne, quando, nell'incipit al primo volume del suo geniale e divertentissimo Tristram Shandy afferma: "Sono fermamente convinto che un giorno senza un sorriso o, peggio, senza una risata è un giorno che non vale la pena di essere vissuto" (cito non verbatim e perciò potrei sbagliarmi, ma la sostanza è quella).

Joyce m'insegnò le molteplici tecniche che un narratore avrebbe potuto sfruttare per raccontare (o far finta di raccontare) una storia e che nessun monologo interiore o flusso di coscienza ha la sua ragion d'essere se non diventa veicolo d'un messaggio più profondo (ed è difficile capire quale sia questo messaggio profondo, ma deve pur esserci una risposta alla sete di "canoscenza" dell'uomo ulissiaco; e deve pur esserci una spiegazione alla fame d'amore di Leopold Bloom, o all'ansia da "fine della Storia" di cui soffre Stephen Dedalus)...

E poi toccò a Don Quijote, un'altra opera-mondo, forse l'inizio di quello che alcuni considerano il "romanzo moderno" (vedi L'arte del romanzo di Milan Kundera per una ben ragionata motivazione a tale tesi). Si sono sprecate milioni di parole e oceani d'inchiostro, nel corso dei secoli, per spiegare il fascino "discreto" e ancora attuale (diciamo pure "atermporale") di questo libro, ma nessuno è mai davvero riuscito a spiegare in cosa consiste l'originalità dell'opera cervantina. Io gli ho dedicato un corso intero di 30 ore all'Università e ho potuto constatare con gioia quanto gli studenti abbiano seguito con interesse e divertimento la lettura critica che ho approntato di soli alcuni passi del Don Quijote. E' impossibile parlarne esaurientemente in un corso di 30 ore. Ma è utile almeno per introdurre in quella che è "l'ironia superiore" di Cervantes.

L'impressione che ebbi alla prima lettura fu di un'innato piacere del racconto che Cervantes esplicitava attraverso i diversi narratori e/o autori del testo (primo e secondo autore, Cide Hamete Benengeli, traduttore dall'arabo al castigliano, quante voci s'incrociano o si sovrappongono nel corso dei vari capitoli tra prima e seconda parte...). Leggere Don Quijote era come leggere un racconto infinito fatto di racconti intrecciati tra loro all'infinito col gusto di raccontare e intrattenere "onestamente" il lettore... E bisognerebbe riflettere attentamente sull' "onestà" dei narratori cervantini, perchè forse la chiave è anche lì...

E poi seguirono gli altri: Svevo, Oscar Wilde, E.A. Poe, Thomas Mann, Calvino, non so perchè, ma, in quanto lettore, ho sempre preferito i romanzi alle opere liriche o a quelle drammatiche... e non so in che modo queste letture, negli anni, hanno determinato la mia vita, le mie scelte e la mia "personalità" di lettore... Certo è che grazie a questi autori e alle loro opere ho vissuto più intensamente di quanto avrei potuto fare a prescindere da loro e dalla letteratura in generale.

E oggi che il bombardamento delle immagini sembra ridurre i lettori a una specie in via d'estinzione mi sento ancora più privilegiato. E continuo a coltivare il vizio, al di là di internet e della tv e delle altre forme d'intrattenimento globale tanto di moda attualmente.

"Che Iddio ci coadiuvi!", esclama qualcuno in Finneganswake (libro, a detta di Joyce, scritto per un ideale lettore che soffra di un'insonnia eterna). E che il futuro ci veda ancora "lettori beati, che non hanno nulla da fare", come esordisce Cervantes nel prologo alla sua "Primera parte"...

jueves, septiembre 18, 2008

Finzione (felliniana)

C'è una scena, nel film di Fellini E la nave va... (1983), in cui una coppia di distinte signore si ferma a guardare un sole al tramonto palesemente falso dalla prua della nave che le sta portando chissà dove e una delle due esclama: "Che bel tramonto! Sembra finto!".

E questa scena me ne ricorda un'altra, questa volta da Roma (1972): quella in cui assistiamo alle cene chiassose della gente di borgata, in una trattoria che fa angolo lì dove passa il tram. E c'è questa signora grassa che avverte il cameriere che porta in tavola le fettuccine fumanti: "Aho, a me poca pasta, che me fa male la panza". E allora si vede il cameriere che le porge un piattone enorme di fettuccine e la grassona esclama, ironica e "alla romana": "Aho, t'ho detto poca, ma no così poca!".

Non è un caso, allora, se Fellini sia stato tra i pochi registi della Storia del Cinema a dare adito a un neologismo dal proprio cognome.

"Molto felliniano", commenta uno dei ragazzi del gruppo di giovani in crisi di Ecce bombo (1977) di Nanni Moretti. Il ragazzo si riferisce a una scena di ballo che si sta svolgendo su una chiatta del Lungotevere durante la notte estiva romana: la musica di Gino Paoli accompagna il ballo di coppie di innamorati maturi abbracciati come fidanzatini al primo appuntamento; sì, è molto "felliniano"...

domingo, septiembre 14, 2008


I libri che ho comprato (e devo ancora leggere) da quando sono andato a convivere

Dunque, vediamo, perchè c'è qualcosa che non torna (o che m'incuriosisce nelle mie ultime scelte d'acquisto): da quando sono andato a convivere con Alyssa (e Silvia, una delle due o tre lettrici di questo blog ha scoperto anche - finalmente - chi si cela dietro questo nick-name o nomignolo finto inventato ad hoc per motivi che è meglio tralasciare in questa sede), ho comprato:

1-L'uomo senza qualità, di Robert Musil (Torino, Einaudi, 1996, due volumoni che superano le 1700 pagine);

2-Cantare del Cid, di autore anonimo (Milano, Garzanti, 2003, a cura di Andrea Baldissera, è il primo poema epico della letteratura spagnola);

3-La natura, di Lucrezio (Milano, Garzanti, 1994, a cura di Francesco Giancotti, è forse uno dei "classici" più universali della tradizione greco-latina);

4-L'era del porco, di Gianluca Morozzi (Milano, TEA, 2008, forse non un "classico" della contemporaneità, ma certamente scorrevole e divertente - di fatto, finora, è l'unico libro che abbia comprato e letto);

5-Fotografia come letteratura, di Giuseppe Marcenaro (Milano, Bruno Mondadori, 2008, saggio su una mia antica passione - parallela a quella sui rapporti ormai antichi tra cinema e letteratura).

Dunque, escludendo il libro n. 4 (un piacevole passatempo) e il n.5 (un saggio agile e interessante), i libri dall'1 al 3 sono dei "classici" indiscussi. Sono libri complessi e complicati; che implicano una lettura attenta e meditata. Sono anche libri che durano nel tempo (perchè sono arrivati fino a noi, nonostante le mode dei secoli e del momento). Sono libri, diciamolo, "seri". Sono diventato più serio, da quando vivo con Alyssa sotto lo stesso tetto? Non direi (Morozzi viene in mio soccorso e smentisce la serietà da "topo da biblioteca" della succitata lista - evviva Morozzi!); sono diventato improvvisamente lettore di "classici"? Non è proprio così: quel saggio al n. 5 sulla fotografia sta lì a testimoniarlo. E alllora? Che succede?

Succede che a 31 anni (compiuti l'8 Settembre; chi non ha fatto gli auguri è scusato e perdonato in anticipo; io scordo perfino il giorno del compleanno di mia madre!) uno decide di leggere solo quello che pensa valga la pena di leggere. Mi spiego meglio: col passare degli anni (e dopo aver letto diversi libri; non migliaia, ma "diversi"...), uno si rende conto che in fondo non sono poi moltissimi i libri che valga la pena leggere. Sì, ci sono quelli che tutti leggono in quel dato periodo (i famosi e famigerati best-sellers), ma poi ti rendi subito conto che ci sono libri che non puoi non aver letto prima di morire. Più si accorcia il tempo che ci resta da vivere e più si affina l'olfatto per i libri che meritano davvero tutta la nostra piena attenzione e la nostra più pura curiosità. Di Lucrezio e del suo trattato De rerum natura sento parlare sin da quando frequentavo le medie; del Cid Campeador sono venuto a conoscenza il primo giorno di lezione di Letteratura Spagnola (da allora mi è rimasta impressa una scena che non vedo l'ora di scovare nell'originale dell'antico castigliano in cui l'opera è scritta e si è tramandata nel corso dei secoli); di Robert Musil e del suo capolavoro incompiuto ho sempre sentito parlare all'Università (per le sue digressioni, per la sua struttura "aperta", per i suoi personaggi; ho cominciato da poco a leggere il I volume e posso dire di essermi già invaghito di Clarisse e di essere già "compagno di sventure esistenziali" di Ulrich). E così per l'Eneide, di Virgilio, e le Storie di Ammiano Marcellino... e così pure per The adventures of Huckleberry Finn di Mark Twain o Moby Dick di Herman Melville... e un lungo, lunghissimo eccetera (per cui uno pensa che ci vorrebbe più d'una vita per leggere davvero tutti i libri che valga davvero la pena di leggere prima di morire...).

Avrò il tempo per sì ardua impresa?

domingo, septiembre 07, 2008

Comunista io???

E' la terza volta che mi accusa di una simile colpa... Stiamo prendendo un cappuccino in un bar. Il cameriere ci osserva, divertito. Chissà quante coppie ha visto litigare in questo bar, davanti a questo stesso bancone...
"Ma come sarebbe? Che vuol dire che sono proprio comunista?".
Alyssa sorbisce la panna con il cacao sopra. E' deliziata. Sempre stata golosa di cappuccino e cornetti alla nutella.
"Sì, sei il manifesto del perfetto comunista. E certe volte sei pure anarchico, se proprio vuoi saperlo".
"Addirittura! Cioè ora secondo te io sarei il perfetto anarco-comunista? E cosa contraddistingue un anarco-comunista dagli altri?".
Alyssa non risponde. Io mi domando cosa vuol dire essere comunisti oggi. E se esistono ancora i "veri" comunisti. E gli anarchici. Addirittura.
"Guarda anche come ti vesti. Si vede lontano un miglio che non voti Berlusconi".
I dubbi si spostano sul vestuario. Indosso semplici jeans blu, scoloriti, e una giacca blu (di seta, vera) su una t-shirt nera (comprata al mercato a 3,90 euro).
"E poi come ti comporti in casa. Non hai visto che casino?".
Penso a Castro e a Cuba. Al fatto che alcuni opinionisti politici affermano che alla morte del dittatore finirà l'embargo con gli USA e gli anti-castristri potranno tornare in libertà (o tornare a respirare). Penso alla caduta del muro di Berlino. Al successo dei film di Nanni Moretti negli anni 80 e al suo fantastico (in tutti i sensi) Palombella rossa (sulla crisi del vecchio e scomparso P.C.I. italiano). Penso alla vecchia URSS e alla possibile seconda Guerra Fredda dopo i fatti della Georgia. Penso a tante cose insieme, ma non riesco a capire cosa voglia dire essere un "comunista" (oggi).
"Mi passi lo zucchero?", chiede Alyssa. L'accontento. Mangio il mio cornetto. Le carezzo una guancia. Spero non mi consideri una specie in via d'estinzione. Anche se non mi riconosco nella categoria. O forse sì... anche se resto confuso. Il cameriere ride. E mi guarda dall'alto in basso. Che tipo!

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...