miércoles, diciembre 30, 2009

Buoni propositi per il 2010





Come ogni anno, verso il 31 di Dicembre, quando ci si prepara tutti a salutare il nuovo anno con il sorriso (spesso forzato) sulle labbra e i calici di spumante (o di champagne) in alto, scatta l'ora dei buoni propositi. Come ogni anno, checché se ne dica, uno è spinto a porseli, questi benedetti buoni propositi, non foss'altro che per una specie di tradizione diventata ormai superstizione. E così, come ogni anno, a fine anno, provo a immaginarmi cosa m'aspetta e cosa devo riuscire a svolgere al meglio:

1) lavoro (precario) a scuola (mi hanno tolto una classe, ma le altre 3 della sezione B sono in mano mia; devo riuscire a fare meglio; quelli che hanno l'insufficienza devono studiare di più, ma anch'io devo rallentare per dare loro il tempo per recuperare, sennò diventa una corsa a ostacoli e chi arriva primo è sempre il primo della classe e io m'annoio, se non vedo sviluppi e miglioramenti in progress da parte di tutti, anche di quelli più deboli);

2) lavoro (precario) all'Università (30 ore di Lingua Spagnola per quelli del I anno; sarà dura, anche perché varie colleghe mi hanno confessato che il clima è cambiato; oggi arrivano all'Università studenti distratti, demotivati, che non conoscono l'italiano, figuriamoci una seconda - o una terza - lingua straniera; gente che si trova lì per caso, perché così vogliono i genitori che pagano le loro tasse, perché in Italia, si sa, non c'è lavoro, e allora che fai? Passi un po' d'anni all'Università, t'iscrivi a un qualche corso che possa anche solo lontanamente titillare la tua già scarsa voglia di studiare, e aspetti...l'Università italiana come parcheggio per chi non vuole o non trova lavoro...mah! La vedo dura...Provare a ripassare il materiale che mi consegnerà Rosa a breve e provare a catturare la loro attenzione con la massima professionalità possibile; poi si vedrà);

3) traduzione di romanzo picaresco minore (una follia, un'impresa titanica, forse, per le mie capacità traduttive dallo spagnolo - seicentesco - all'italiano - contemporaneo; ma ormai ho dato la mia parola, cazzo, mi sono compromesso, non posso tirarmi indietro proprio ora - anche se non sono ancora a metà dell'opera e trovo ostacoli che mi paiono insormontabili; portare a termine nel modo più decente possibile questa cosa; consegnare alla casa editrice in tempo per i termini fissati nel contratto - che, fino a oggi, non ho ancora visto - e sperare che la prof.ssa che dirige la squadra non si penta di avermi assegnato quest'incarico);

4) relazione con Alyssa - o della mia "vita sentimentale" (qui i nodi da sciogliere sono tanti; forse troppi; forse ci lasceremo, perché quando a nessuno dei due, all'interno di una coppia, va di lottare, allora vuol dire che la battaglia è definitivamente persa; spero tanto di continuare a combattere; certo è che se ci dobbiamo rimettere la nostra sanità mentale e la nostra serenità, tanto vale allontanarsi e seguire ognuno il proprio cammino; anche solo pensarci mi fa male, e mi fa venire i brividi, e mi fa incazzare come una bestia, ma questa è la realtà, inutile, ormai, fare finta di niente; frase storica - di mia madre, saggia marsicana dei tempi che furono: "si fa presto a lasciarsi, il difficile è stare insieme"; come darle torto).

Sono solo 4 punti; ce ne sarebbero degli altri, ma per ora provo a fissarmi questi 4 buoni propositi...poi vedremo di affrontare anche gli altri...La precarietà continua (in tutti i sensi); la voglia di porvi fine anche (ma mi sa tanto che è un'utopia, di questi tempi bui).

martes, diciembre 29, 2009

Bouvard e Pécuchet, di Gustave Flaubert: un libro di libri che non conclude

CLASSICI: si presume che si siano letti” (p. 273 dell’ed. Einaudi, Torino, 1996). Questa è soltanto una delle molte “idee comuni” raccolte nel Dictionnaire des idées reçues che segue al romanzo “impossibile” Bouvard et Pécuchet e il lettore si sente subito colto in fallo, sbeffeggiato, denudato davanti alla sua “banalità” di lettore di testi classici. E se è vero che Bouvard et Pécuchet lo è, è pur vero che noi contemporanei, in quanto lettori di questo “classico” ci troviamo ancora (sempre di più) spaesati perché non sappiamo proprio da che parte pigliarlo, come inquadralo, che senso trovargli.

La trama: due copisti s’incontrano un giorno per caso e fanno amicizia. L’uno lavora in una ditta di commercio, l’altro al Ministero. Entrambi si piacciono subito, trovano immediatamente idee e principi che li accomunano. Geniale la descrizione dei primi momenti della nascita di questa amicizia (come Don Quijote così pure Bouvard e Pécuchet: il fascino di questi capolavori sta anche nel modo in cui il tema “romanzesco” dell’amicizia tra i due protagonisti diventi un elemento trainante che cambia sia la trama sia i loro rispettivi caratteri):

Mai a corto di argomenti, i due seguitavano a intrattenersi insieme; alle osservazioni seguivano gli aneddoti, alle considerazioni filosofiche i punti di vista personali. Vilipesero il genio civile, la manifattura tabacchi, il commercio, i teatri, la marina, l’intero genere umano, col risentimento di chi ha patito amare delusioni. Ognuno, ascoltando l’altro, riscopriva qualcosa di sé che aveva scordato. […] Più volte s’erano alzati da sedere, avevano fatto insieme la strada dalla diga chiusa a monte a quella a valle, erano tornati a sedersi: col proposito ogni volta di separarsi, ma senza mai risolvervisi, come prigionieri di un incantesimo” (p. 5).

E’ l’incantesimo dell’amicizia che, da questo momento in poi, li legherà fino a prendere la decisione della loro vita: basta vita di città, grazie al denaro ricevuto inaspettatamente in eredità da Bouvard, i due lasceranno Parigi e andranno a vivere in una bella casa in aperta campagna col proposito di dedicarsi all’agricoltura e al loro benessere fisico e mentale. Ma c’è di più: hanno in mente di dedicarsi allo studio come mai prima d’allora sono riusciti a fare per via dei loro rispettivi lavori. E qui la faccenda si complica: perché si da il caso che sia Bouvard che l’amico Pécuchet sono due tipi piuttosto impulsivi e onnivori. Quando decidono di studiare una materia, se la sorbiscono fino in fondo; leggono tutto d’agricoltura, pur non essendo mai stati prima dei contadini. Poi s’appasionano d’astronomia. E cominciano a spendere soldi per avere il miglior telescopio. Poi di geologia: e riducono la casa a un museo di fossili e pietre antiche, scavando lo scavabile nei dintorni della loro dimora. Poi di religione: e trasformano l’antico casolare in una specie di chiesa a cielo aperto, con croci e statue di San Pietro a fare da corredo.

Flaubert, a quanto lui stesso confessa in forma epistolare ad un collega (da quanto si evince dallo splendido saggio di Raymond Queneau annesso all’edizione Einaudi che maneggio – un saggio acuto, pieno di ironia, quasi sarcastico, nei confronti di Flaubert, eppure attento, penetrante, chiarificatore come pochi), lesse più di 1500 libri per “mimare” la “fame di sapere” dei due bonhommes protagonisti del romanzo. Italo Calvino lo ricorda (se non ricordo male) nel suo Lezioni americane, quando parla del valore della “molteplicità”. E questo è uno dei nodi del romanzo (anche se a questo punto chiamarlo solo “romanzo” può apparire non solo riduttivo, ma anche fuorviante): si snoda in molteplici direzioni, senza intraprenderne mai una in modo univoco e definitivo. Bouvard e Pécuchet sono degli “umanisti folli”, per certi versi, perché credono ancora nell’abilità delle parole nello spiegare il mondo che abbiamo davanti agli occhi, ma al contempo si accorgono del fatto che nessun libro potrà mai insegnare come si fa a coltivare quel determinato tipo di pianta; nessun articolo di medicina potrà dirci la verità ultima sul funzionamento della corteccia cerebrale; nessun prete riesce a convincerli delle verità religiose contenute all’interno della Bibbia e nessuna religione riesce a convincerli del dogma che professa…

L’affanno ulissiaco di conoscenza permette allo stesso Queneau di definire Bouvard et Pécuchet come una sorta di Odissea moderna. I due protagonisti (che a me ricordano molto da vicino Don Chisciotte e Sancio Panza) si mettono in viaggio nell’oceano immenso e pericoloso (perché privo di confini) dello scibile umano, ma non approdano a nessuna Itaca. Gli altri li snobbano; o addirittura li minacciano di azioni legali. Mentre loro due sono spacciati: non potranno più sopportare la visione (o l’ascolto) della stupidità umana. Il loro prossimo, impegnativo progetto sarà quello di stilare una specie di dizionario dei luoghi comuni; per smascherare la stupidità del genere cui (malgré eux) appartengono e per passare il tempo che gli resta da vivere (in quella casa che è stata museo archeologico, chiesa, fattoria, sala di mostre d’arte contemporanea, sala di consiglio, e così via – sarebbe interessante studiare sia lo spazio che il tempo in un romanzo in cui la percezione sia dello spazio che del tempo cambia in relazione al cambiare dell’atteggiamento “filosofico” e “investigativo” dei due protagonisti: sembra quasi che più i due studiano e più diventano ignoranti e più tendono a modificare lo spazio che li circonda – rendendolo più malleabile – e il tempo che passano insieme – un tempo che più li vede invecchiare e più li vede farsi “giovani” di spirito; la curiosità di Bouvard e Pécuchet è ciò che non li fa invecchiare e, anzi, li spinge a osservare con occhi sempre attenti e giovani le fette di realtà su cui la loro curiosità sempre viva fa poggiare i loro sguardi).

Un romanzo “onnivoro”, dunque, questo romanzo postumo (e inconcluso) di Flaubert; un romanzo sul Tutto che finisce col coincidere col Nulla. Un romanzo sul niente. Perché il Tutto è pieno di contraddizioni e non si riesce a trovare la strada che ci potrebbe condurre alla Verità (è per questo motivo che parliamo di un "libro che non conclude": perché proprio non può concludere; né rientra nelle facoltà (e tantomeno nel progetto) di Flaubert il concluderlo. Da un lato, dunque, giusto destino, quello di un libro che non conclude (e viene pubblicato postumo) perché non ne esiste un finale né potrebbe esisterne. E strano destino, dall'altro lato, quello di questi due poveri cristi: studiare, leggere tanto e di tutto, con la vaga speranza di arrivare a capire qualcosa del mondo infinito che li circonda; accorgersi, poi, che nessun libro al mondo potrà mai dire l’ultima parola su nulla, perché è tutto molto più complicato di quanto appare. Non ci resta che il già citato Dizionario dei luoghi comuni: un’enciclopedia del sapere all’incontrario (che Jorge Luis Borges dovette trovare molto divertente; o quantomeno interessante, un pezzo prezioso da riporre all’interno della sua ipotetica Biblioteca di Babele):

QUADRATURA DEL CERCHIO: Non si sa cos’è, ma quando se ne parla, un’alzatina di spalle ci sta bene.

POESIA (LA): Del tutto inutile. Fuori moda.

TEMPO: Eterno argomento di conversazione. Lamentarsene sempre. Causa universale di malattie.

ITALIANI: Tutti musicisti. Traditori.

LIBRO: Qualunque esso sia, sempre troppo lungo.

LETTERATURA: Occupazione di oziosi… (infatti).

miércoles, diciembre 23, 2009

Lasciami entrare, di Tomas Alfredson (Svezia, 2008): una storia (originale) di vampiri (preadolescenti)


Me ne aveva parlato bene una persona amica con cui ho sempre avuto una forte intesa intellettuale e devo dire che, ancora una volta, ho fatto bene a fidarmi di lei... Lasciami entrare(tit. originale: Låt den rätte komma in) è un film horror svedese del 2008, il regista - Tomas Alfredson - è un giovane che si è fatto le ossa nei circuiti del cinema indipendente e che, con questo piccolo capolavoro, ha ottenuto un successo internazionale (a quanto leggo dalle prime ricerche fatte su Google).


Quello che colpisce è innanzitutto l'originalità del plot: lo spettatore intuisce che si tratta di un film di vampiri, ma capisce anche subito che qui si trova davanti a una storia di vampiri davvero originale. La protagonista è Eli, una ragazzina di 12 anni, dall'odore strano, a detta di Oskar, il fanciullo biondo coetaneo che le abita affianco. Occhioni verdi e capelli perennemente smunti, Eli diventa poco a poco amica e confidente di Oskar, un tipo timido che non riesce a difendersi dagli atti di violenza dei bulli della sua classe. Eli vive da sola con il padre, un uomo ambiguo sin dalle prime inquadrature del film. Se in un primo momento potrebbe sembrare un pedofilo che ha appena accalappiato la preda, nel corso della trama ci dimostrerà tutta la sua umanità di padre in quando succube di una figlia che lo maltratta e, addirittura, lo spinge a raccogliere letteralmente per lei il sangue umano di cui questa si nutre.


Ma anche Oskar è ambiguo: soffre in silenzio gli sgarbi pesanti dei compagni di scuola, eppure gira in casa nudo con un coltello tra le mani. Anche lui vive da solo con la madre, apprensiva e divorziata.

Al di là del tema del vampirismo, quindi, appare evidente come qui la trama si snodi grazie al modo con cui il regista ci dipinge: a) la società svedese di oggi; b) i rapporti interpersonali (padri-figli e preadolescenti tra loro); c) il paesaggio naturale che fa da sfondo centrale all'azione (una città svedese di cui non ci viene detto il nome, perennemente avvolta in una cappa di silenzio e neve e ghiaccio).

Per certi versi, si tratta di un film poetico. Non c'è quasi inquadratura che non trasmetta questa sorta di alone d'incomunicabilità che esiste tra i vari personaggi (protagonisti o comprimari che essi siano). C'è sempre come un'aria di tempesta che sta per arrivare o di violenza trattenuta che, nei momenti in cui esplode, ci terrorizza e può far saltare dalla sedia.

La preadolescenza come mondo a sé; l'età adulta come mondo oscuro che fa paura; i rapporti d'amore o di consanguineità come enigmi affascinanti e pericolosi.

Un film horror che riesce a parlare di tutte queste cose e che, per giunta, lo fa sfruttando un tema antico come il cinema qual è il vampirismo (oggi così tanto abusato - vade retro Twilight!) non può non essere un piccolo capolavoro; da rivedere e tenere sott'occhio anche per chi non è propriamente un amante del genere.

P.S.: perché non mi sono piaciuti (o non mi hanno convinto) invece film come Jennifer's body (di Karyn Kusama) o Antichrist (di Lars von Trier) o Twilight (di Catherine Hardwicke) o L'incarnazione del demonio (di José Mojica Marins)? Beh, se ci rifletto e li metto a confronto con Lasciami entrare la risposta è presto detta:

a) perché il primo è una vera e propria scemenzuola per adolescenti in calore (anche se Megan Fox merita, ovviamente, tutto il nostro plauso caloroso);
b) perché il secondo è insulso e pretenzioso (addirittura, a Venezia, nella conferenza stampa durante la Mostra del Cinema, quel matto di von Trier ha citato Dante e il suo Inferno come fonte d'ispirazione!);
c) perché il terzo è una scemenzuola per adolescenti romantici;
d) perché il quarto è uno "splatterone" senza un minimo (un minimo!) di trama decente...(anche se Zé do Caixao mi fa ridere e qualche scena "no tiene desperdicio", come si dice in spagnolo - tipo quella in cui una fanciulla dalle forme provocanti per punizione viene sadicamente cucita all'interno di una carcassa di maiale...).

Ciò detto, ribadisco: Lasciami entrare è una spanna superiore a questi film di genere (che poi uno li guarda anche perché lo riportano indietro nel tempo, a quando era un adolescente romantico o in calore... Non è che si può stare sempre là ad attivare il cervello e a guardare tutto Ingmar Bergman o Jean-Luc Godard o, per dire, l'opera omnia di Andrej Tarkovskij!).

sábado, diciembre 19, 2009

Firenze sotto la neve

di notte...



...e stamattina...


Fa il suo effetto (anche se questo non è certo uno degli scorci più rappresentativi, ma solo quello che guardo io dalla finestra di casa mia)

viernes, diciembre 18, 2009


FINESTRE ILLUMINATE

by Enrique Vila-Matas


Penso al grande scrittore Roberto Arlt e a quella mattina del 1929, quando i colleghi lo trovarono nella redazione del giornale con i piedi sopra il tavolo e senza scarpe, piangendo, con i calzini bucati. Davanti a sé aveva un bicchiere con dentro una rosa appassita. Davanti alle domande e alla preoccupazione degli amici, disse:

Ma non vedete il fiore? Non vi rendete conto del fatto che sta morendo?”

Sono le quattro del mattino a Barcellona e sono io ora quello che ha davanti a sé un bicchiere con una rosa che appassisce. Il bicchiere non smette di preoccuparmi, ma mi permette di pensare ancora di più a Roberto Arlt. In realtà, penso a lui da ieri, da quando un amico letterato mi ha chiesto se, come aveva fatto Arlt in altre occasioni, mi ero mai soffermato a riflettere sulle finestre illuminate alle quattro del mattino. Ha fatto una pausa e poi ha aggiunto: “Ci sono parecchie storie lì dentro”.

Ed è vero. Ce ne sono molte. Lo so bene io ora, perfettamente insonne nella mia personale zona d'angoscia, alle quattro del mattino. Il punto è che ho appena visto, oltre alla rosa appassita, la misteriosa finestra appena illuminata di un vicino e mi sono chiesto immediatamente che storia si nasconderà dietro di essa, cosa starà succedendo in quell'interno.

A Roberto Arlt, uomo di grande intuito, le finistre illuminate a notte fonda lo tenevano sveglio per molte notti interminabili: “Niente di più curioso nel cubo nero della notte di un rettangolo di luce bianca. Chi c'è là dentro? Giocatori, ladri, suicidi, malati? Sta nascendo o morendo qualcuno in quel luogo? Finestra illuminata a notte fonda. Se si potesse narrare tutto ciò che si nasconde dietro i tuoi vetri smerigliati o rotti si potrebbe scrivere il poema più angosciante che l'umanità possa mai conoscere”.

Guardando dalla mia zona d'angoscia la finestra illuminata del vicino, la mia immaginazione s'è destata e ho pensato, in primo luogo, a qualcuno che a quest'ora sta navigando nell'infinita rete dello schermo del suo computer. Non so perché ho scelto questa opzione. Il fatto è che spesso, iniziando da una zona d'angoscia un testo sonnambulo come questo, pretendo di realizzare un atto che mi permetta di situarmi in quel mondo. Ma è pur vero che, non appena scrivo la prima frase, la mia angoscia mi lascia in bocca qualcosa di simile a un retrogusto di pianto davanti a una rosa appassita, poiché vedo che il mio mondo è divenuto subito limitato.

La mia angoscia deriva dal mio desiderio di essere domani una persona diversa, qualcuno che non resta legato alla prima frase dei suoi testi. E riesco a calmarmi adesso pensando che il mio vicino sta spiando un'altra finestra illuminata a tarda notte, e quella finestra è la mia, e per lui io posso essere ora sul punto di suicidarmi, o forse di festeggiare per una vincita al casinò o, semplicemente, qualcuno a cui si sono bruciate le pupille a forza di guardare la rosa appassita o lo schermo del computer.

Finestre che sono fari nel cuore della notte. Ci sono molte storie dietro di loro. Storie di ladri con la torcia o di moribondi in procinto di dettare le ultime volontà. Storie di madri che, ubriache di sonno, s'inclinano su una culla. Storie di coppie che fanno l'amore o di tizi che chiacchierano del mistero dell'universo. Storie d'insonni che pensano che il poema più angosciante che si possa scrivere sull'umanità si trova lì, dietro le finestre illuminate alle quattro del mattino.

Finestra illuminata del vicino, quella che contemplo adesso. E' la finestra di uno che si è affacciato sulla rete e ha a sua disposizione il mondo intero, senza limiti. Ha anche me, spia sterile che spera che domani sia un altro giorno e che io non continui ad essere colui che ha scritto questo testo che è nato sonnambulo a notte fonda. Chissà se domani riuscirà ad essere un altro, anche se credo che continuerò ad essere colui che ancora una volta proverà a situarsi in questo mondo e che, per questo, dalla grande zona d'angoscia della rete, tornerà a scrivere la prima frase sonnambula di un testo che, ancora una volta, sarà incapace di comprendere un mondo che, come la profonda aria azzurra, non è in nessun luogo ed è interminabile.

Traduzione mia del brano "Ventanas iluminadas", disponibile in versione originale sul sito di Enrique Vila-Matas al link: http://www.enriquevilamatas.com/textventana.html

lunes, diciembre 14, 2009

La tempesta



Para C. Z., con el deseo de poder verla juntos algun dia

Tra i quadri più misteriosi della storia dell'arte, La tempesta, di Giorgione, resta un mistero...Tanto che, come ci racconta Salvatore Settis nelle ultime pagine del suo splendido studio La tempesta interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto (Torino, Einaudi, 1978), ancora oggi, resta uno di quei quadri per i quali è possibile inventarsi le interpretazioni più variopinte e bizzarre (da quelle esoteriche a quelle bibliche; dalle letture "sapienziali" a quelle "mitologiche", etc. etc.).

I punti fermi sono due: a) il paesaggio che si staglia dietro i due personaggi in primo piano è altrettanto importante (se non più importante) degli stessi personaggi "umani"; b) i due personaggi sono al centro di un conflitto di cui, per ora, non possiamo scorgere l'origine e la natura.

Chi è davvero quell'uomo, vestito in modo piuttosto elegante, che si sorregge su un bastone e che guarda a debita distanza la donna? E' poi davvero un bastone, quello che si vede, o non piuttosto un'arma, una specie di lancia, un'asta per colpire o difendersi?

Chi è davvero quella donna, seminuda, che allatta al seno il proprio bambino? Cosa rappresenta quella specie di soprabito bianco (o mantella) che, in parte, serve a coprirle le spalle e, in parte, a farla adagiare sul prato come se fosse un lenzuolo? E soprattutto (è questa la domanda cruciale): chi sta guardando (per sempre) questa donna così bella e così distante nella sua bellezza ieratica?Non certo l'uomo, che, rispetto al suo sguardo, resta quasi in uno sdegnoso secondo piano... Non certo il bambino che, a rigor di logica, è l'essere umano più vicino che abbia a portata d'occhio... Non lo sappiamo. Anzi, forse sì, lo sappiamo, e nel momento stesso in cui ce ne accorgiamo, questa donna ci fa quasi paura, crea nello spettatore una sorta d'inquietudine inspiegabile, perché sembra che la donna guardi proprio noi, gli spettatori del quadro, con occhi attenti, sguardo diretto e quasi altero...

Perché diretto e altero? Perché trasmette quest'idea dell'alterità e, oserei dire quasi della rabbia? Ce l'ha con l'uomo che si trova alla sua destra? Quell'uomo è il suo amante, suo marito, suo fratello, un amico, è il padre del bambino? Se così fosse, perché i due non si guardano e sono così distanti (empaticamente) l'uno dall'altro?

In realtà, se spostiamo la nostra attenzione dalla donna all'uomo (soldato, cavaliere, nobiluomo, plebeo?), ci accorgiamo di come quest'ultimo rivolga il proprio sguardo sulla donna che allatta. Quindi, una qualche empatia o interesse verso la compagna si riesce a indovinare, anche se non lo si può certificare: ci manca un primo piano di quello che potrebbe essere un sorriso, oppure, e al contrario, un ghigno, una smorfia di dolore, oppure di sorpresa, o di compassione o di pietà o, peggio, di rabbia, dell'uomo verso la (propria) donna...e il bambino intento a nutrirsi dal seno materno...

Cosa è mai successo tra questi due? Sono davvero, come ipotizza Settis, Adamo ed Eva dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre? E quel lampo che, letteralmente, "spacca" a metà il quadro, divenendone il centro perfetto, cosa starebbe a simboleggiare? La rabbia divina? Dio che manifesta la propria ira con un lampo che preannuncia la tempesta che da il titolo all'opera?

E' certo il lampo uno degli elementi che ci permette di dire che qui, dentro questo quadro tanto misterioso ed enigmatico, la Natura (con la maiuscola), da semplice "comparsa" o "sottofondo visivo" diventa protagonista assoluta...Con quelle foglie che sembrano mosse da un vento sovrannaturale; e quegli alberi e quell'erba perfettamente realistici; e quei pezzi di costruzioni urbane che s'intuiscono o si vedono chiaramente in mezzo al mondo vegetale, come quelle colonne infrante e quel ponte, in lontananza, e quelle case che sembrano proprio le abitazioni tipiche di Venezia, con le sue calli e la presenza costante dell'elemento marino (acqua scura su cui si riflettono in parte le nuvole illuminate per una frazione di secondo da quel lampo maledetto che, se da un lato preannuncia la tempesta in arrivo con effetto sonoro di rimbalzo - io vedo il lampo, e immagino di sentire subito dopo il tuono -, dall'altro sottolinea una tempesta emozionale, o sentimentale, che, in un modo o nell'altro coinvolge i due protagonisti "umani" del quadro...cosa sarà mai successo per determinare questo distacco così atroce, così netto, così...misterioso, appunto).

Come Las meninas di Velazquez, così La tempesta di Giorgione sembra essere anche un quadro dentro il quadro; un quadro che ci fa riflettere sull'essenza stessa dell'arte della pittura (ossia, sull'arte di "confinare dentro a un quadro" tutto un pezzo di mondo, con i suoi tratti salienti e le sue piccole o grandissime tragedie quotidiane).

A me piace pensare che quei due, l'uomo e la donna (col bambino attaccato al seno), prima o poi, potranno superare ogni ostacolo si frapponga tra di loro e li tenga a questa distanza così anomala. Mi piace immaginare che, dopo la tempesta, troveranno di nuovo la forza di vivere insieme e di andare avanti, nonostante le divergenze, o le delusioni reciproche o le inevitabili incomprensioni...

A me piace pensare che quei due, dopo la tempesta, ritroveranno l'amore perduto che ha permesso loro di mettere al mondo quel bambino che si nutre del latte materno e che, probabilmente, non sa ancora nulla della vita, né di come va il mondo, né di cos'è un lampo o un tuono, o una tempesta...che s'intuisce, ma non si vede. Che si addensa nel cielo del quadro ed è sempre in procinto di esplodere.

martes, diciembre 08, 2009

Idiossea: "Heart of darkness: a Filmaker's Apocalypse" di Fax Bahr e George Hickenlooper (grazie al materiale inedito di Eleanor Coppola), USA, 1991




Dopo tanti anni ho rivisto questa sorta di documentario su uno dei film più "titanici" e "mastodontici" della storia del cinema (in rapporto ai soldi spesi per girarlo e al numero di giornate di riprese spese prima di arrivare al montaggio finale): mi riferisco a uno dei miei film preferiti (se non "il preferito" in assoluto), Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola (USA, 1979).

Il documentario è in gran parte montato sul materiale che la moglie di Coppola, Eleanor, girò su incarico del marito durante i quasi 4 anni che lo videro impegnato nelle Filippine, scelte come set ideale in cui ricreare il paesaggio del Vietnam che fa da sfondo alla vicenda. Il resto è composto dalle interviste che i due registi succitati fanno ai protagonisti di allora (gli attori che, seguendo gli ordini di Coppola, finiscono per vivere anche loro una specie di "apocalisse" interiore).

Ma, prima di parlare del documentario, poniamoci la domanda principale: cos'è davvero Apocalypse Now?

"Apocalypse Now non è un film sul Vietnam: è il Vietnam". Non ricordo dove lessi questa frase (forse nel capitolo che Antonio Costa, nel suo utile e ben scritto Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura (Torino, UTET, 1993), dedica all'analisi comparativa del romanzo conradiano e del film di Coppola). E per certi versi è vero, e il documentario (intitolato in italiano in modo poco fedele ma ben più evocativo: Viaggio all'inferno) sta a dimostrare in parte la validità di tale assioma. Ma in che senso è il Vietnam?

Scopo dichiarato di Coppola era approfittare dei milioni di dollari guadagnati con il primo capitolo de Il padrino per realizzare un progetto cui pensava da tempo: parlare della guerra che l'America aveva da poco combattuto in Vietnam (con le conseguenze disastrose che conosciamo e che la Storia sta lì a ricordarci) partendo dal romanzo Heart of Darkness dello scrittore polacco, naturalizzato inglese, Joseph Conrad. In realtà, il film prende spunto da Conrad per espandersi in molteplici direzioni diverse che consentono un'interpretazione "multiprospettica" della trama. Tanto è così che, come lo stesso Coppola confessa alla moglie in una scena piuttosto "schizzata" in cui appare letteralmente in mutande e davanti alla sua fedele macchina da scrivere, il film si trasforma negli anni in una specie di nuova Odissea (o in una ri-lettura postmoderna della stessa).

Gli elementi che fanno del film un'odissea sono facili da dedurre per tutti coloro che hanno visto (e apprezzato) il film: il capitano Wilard (Martin Sheen) deve risalire un fiume della Cambogia che lo porterà nel "cuore di tenebra" del Vietnam per portare a termine una missione speciale diretta dai servizi segreti americani: uccidere il generale Kurtz (Marlon Brando), un berretto verde che ha intrapreso una strana guerra personale, massacrato un numero imprecisato di vietcong, e fondato una sorta di regno di cui è il capo assoluto (oltre che temuto e venerato).

L'intero viaggio di Wilard, quindi, si presenta come una specie di "anabasi" o "discesa agli Inferi", durante la quale dovrà fare i conti con i molti ostacoli che, novello Ulisse, è chiamato a superare.

Accanto alla trama "omerica", però, Coppola costruisce una trama "ideologica" per tentare di spiegare cos'è stato il Vietnam: non solo una guerra, ma anche uno spettacolo (e si sa che gli americani "dovunque vadano, spettacolarizzano tutto" - come confessa George Lucas in una delle interviste del documentario), una sorta di "messa in scena" folle e priva di senso.

Ecco allora come le conigliette di Playboy sbarcate con gli elicotteri in una base americana diventano il "correlativo oggettivo" (per dirla con T.S. Eliot) delle Sirene omeriche; e come il capitano Kilgore (quel pazzo che pretende di fare surf cavalcando le onde in mezzo ai bombardamenti aerei) svolga il ruolo di una sorta di Polifemo privo di ogni morale; Kurtz, seguendo questa lettura, sarebbe una specie di Zeus incazzato, una sorta di divinità assoluta in crisi d'identità e in cerca di un nemico vero da abbattere o ammirare...

La citazione da T.S. Eliot non è casuale: insieme a Conrad e a Omero, Coppola unisce anche il poeta americano naturalizzato inglese... Tutto il film, sin dalla primissima inquadratura (che vede in primo piano l'esplosione e l'incendio immediato di parte della giungla cambogiana, con, in sottofondo, la canzone dei Doors "This is the end"), intende presentarci il Vietnam come una "waste land" (anzi, come "la" terra desolata per eccellenza). E a nessuno saranno sfuggiti i versi che recita Marlon Brando-Kurtz nella scena in cui finalmente Wilard lo ha raggiunto e ne diventa prigioniero: "Siamo gli uomini morti, siamo gli uomini vuoti", tratti da un altro famoso poema di T.S. Eliot: The Hollow Men ("gli uomini vuoti", appunto, como sembrano "vuoti" i soldati americani che si trovano a vivere l'inferno della guerra).

Dunque, appare evidente che quella di Coppola vuole (o pretende) essere un'operazione culturale, oltre che cinematografica, attraverso cui parlare per immagini di quello che fu la guerra in Vietnam sia da un punto di vista morale che da un punto di vista simbolico, etico, ideologico. E appare evidente come il regista usi tutta la cultura (la letteratura, la musica, l'arte, il cinema stesso) che ha a sua disposizione per mettere in scena questo film-trattato o film-monumento su una delle sciagure più atroci cui possa dedicarsi l'uomo: l'arte della guerra; l'arte di ammazzare il prossimo...con o senza motivazioni reali o apparenti.

Ora, il punto è che, come ci mostra molto bene il documentario, il rischio che si corre è quello: a) della dispersione; b) del kitsch. Coppola li ha corsi entrambi, uscendo vincitore sia per una grossa dose di fortuna che per una gran forza di volontà.

Il documentario ci parla delle difficoltà che incontra sul suo cammino l'artista che pretende di plasmare il mondo dentro un unico film; o gli scogli che deve superare chi, credendosi egli stesso una specie di Kurtz (o di Dio super-partes), pretende di dirci la verità su un fatto tanto anomalo e complesso e disturbante come la guerra (per questo credo che molte scene del film siano immerse nella nebbia o nel fumo giallo del napalm: perché in realtà la tragedia del Vietnam, all'epoca in cui Coppola girò il film, era talmente troppo "grossa" e talmente "recente" che perfino per Coppola sarebbe stato impossibile girare un film "realistico" su quella tragedia, pur con tutta la buona volontà e coraggio d'artista e di intellettuale).

a) Dispersione: Coppola perde letteralmente alcuni pezzi del film, man mano che va avanti nella realizzazione dello stesso. Dopo i primi ciak, non è più contento di Harvey Keitel; lo sostituisce con Martin Sheen. A più della metà del film, Sheen ha un'infarto e per poco non ci rimette le penne. Gli elicotteri usati per girare le scene dei bombardamenti aerei sono elicotteri veri appartenenti all'esercito filippino impegnato a sedare una ribellione comunista nel Sud del paese, e più volte Coppola si vede costretto a girare di nuovo le stesse scene perché l'esercito gli ha "rubato" parte della scenografia. Un tornado manda in pezzi più set del film. Marlon Brando, ingrassato in eccesso per il ruolo che è chiamato a svolgere, fa lo schizzinoso e non vuole che lo si riprenda in figura intera, etc. etc.

b) Kitsch: Coppola non sa come finire il film. Non sa quale finale potrebbe essere quello più efficace e, di fatto, ne gira almeno 3 differenti. Il rischio da evitare è sia essere troppo didascalici sia essere troppo espliciti. Lo spettatore deve riflettere su quanto ha visto, ma senza schierarsi né dalla parte di Wilard né da quella di Kurtz. Solo così, il regista sente di poter fare un film "bello" che non scada nella "pacchianeria" (lo dice lui stesso nel documentario: "Il confine tra sublime e ridicolo è labilissimo, in questi casi"). E poi c'è la questione dell' "apocalisse" interiore. Tutti coloro che vengono coinvolti nelle riprese, chi più chi meno, finiscono con l'entrare in contatto con la loro parte più oscura e inquietante. La foto di sopra sintetizza bene questo status mentale: Coppola, in particolare, si gioca tutto nel film, anche perché, da un certo punto in poi, i soldi investiti nella produzione non sono più della United Artists, ma dello stesso regista, che finisce con l'ipotecarsi anche la casa e l'auto...

Insomma, Apocalypse Now è quel capolavoro che è anche perché lo stesso regista (e i collaboratori insieme a lui) vive e gira in modo estremo un film dalla trama estrema che sembra fare acqua da tutte le parti sia perché troppo dispersiva sia perché a volto troppo rasente quell'effetto kitsch che va assolutamente evitato...

"Il regista è uno dei pochi incarichi dittatoriali che restano in un mondo sempre più democratico", confessa un Coppola ingrassato e comodamente seduto su una sedia e sullo sfondo della sua mega-tenuta da milionario produttore di vini doc. E il documentario, in effetti, è divertente (e interessante) anche per questo: ci fa vedere in che modo deve lavorare un regista cinematografico di razza, una specie di dittatore da cui dipende la sorte di tutti gli altri (e del film, in primo luogo).

E quando vediamo Coppola accorrere alla prima del film non possiamo non essere d'accordo con lui: chi gira un film (sia esso eccelso o mediocre) deve prendersi la responsabilità sia del successo che del fallimento. E ci viene da tirare un sospiro di sollievo, quando una voce in off, sul finale del documentario, ci informa sui premi che il film ha vinto grazie al coraggio (artistico, economico e morale) di un regista che ci ha messo la faccia, i soldi e l'anima per poterci regalare un'opera d'arte destinata a restare tale nel tempo. Una vera e propria "Idiossea" (Idiot+Odissey), come la ribattezza ironicamente lo stesso Coppola, davanti alla sua povera macchina da scrivere, quando ancora non sa quale finale gli darà e se mai arriverà ad un finale unico e definitivo...

domingo, diciembre 06, 2009

Statu quo




Eccoci, ci risiamo, ricomincia a respirarsi l'aria natalizia per le strade del centro e a me viene l'orticaria, come si fa? Dove m'esilio? In quale eremo posso rintanarmi per finire questa traduzione che non è nemmeno a metà e mi sta facendo già impazzire? Quanta pazienza mi ci vuole?

Certe volte, poi, mi sento così scemo: ieri, ad esempio, avrei potuto prendere un treno per Milano e rivedere una persona amica che non vedo da due anni. E invece mi sono fermato in tempo; avrei rischiato troppo. Avrei compromesso lo "statu quo", e ne vale la pena? Ne vale davvero la pena?

Certe volte, mi sento come il regista protagonista de Los abrazos rotos di Pedro Almodovar (non tra i suoi migliori film di queste ultime annate, e nemmeno Penelope Cruz sembra sempre all'altezza del ruolo che il regista madrileno le ha disegnato su misura, comunque sempre un bel film che si lascia guardare con interesse e già è tanto, di questi tempi).

Mateo Blanco diventa cieco in seguito a un incidente oscuro di cui narrerà al figlio della sua migliore amica e collaboratrice. Ora Mateo si fa chiamare con uno pseudonimo, Harry Caine, non gira più film, ma continua ad interessarsi alla settimana arte scrivendo sceneggiature. La prima scena ci descrive Mateo alle prese con una bella bionda che l'ha appena aiutato ad attraversare la strada. Sono in casa sua; lei è carnale e disponibile, lui la tocca con le dita per farsene un'idea...Inutile dire che i due finiscono sul divano a fare l'amore con trasporto e passione.

Ecco, certe volte mi sento cieco davanti all'evidenza: non vedo quello che ho sotto gli occhi e vado a inventarmi un romanzo a Milano quando io a Milano non ci sono mai stato...Eppure...quella persona m'intriga, mi spinge a inventarmi racconti che, forse, non leggerà mai.

Los abrazos rotos è anche un film sul cinema: al di là delle molte citazioni notate anche dalla critica (veri omaggi o ghigni ironici di Almodovar al cinema di cui si è sempre nutrito - pensiamo a Viaggio in Italia, di Rossellini, o Ascensore per il patibolo, di Louis Malle, o a Peeping Tom, di Michael Powell, ma anche auto-citazioni, prima fra tutte, quella portata a compimento nel finale, con la riscrittura di Mujeres al borde de un ataque de nervios...), è un film costruito sul fascino delle immagini, come quando Mateo Blanco, ancora dotato di vista, fa indossare varie parrucche all'aspirante attrice di cui si innamorerà perdutamente (Penelope Cruz, ovviamente) e la contempla mentre il figlio, su incarico del padre, produttore del film e geloso della moglie, la riprende con la sua telecamera amatoriale...

Come quando, nel finale, quello stesso ragazzo gli fa recapitare il filmato che registra la morte della donna, l'ultimo bacio, gli ultimi istanti di vita, prima che un'auto si schianti contro la loro macchina rendendo Mateo cieco e l'amante un corpo morto...

Il fermo-immagine su quell'ultimo bacio che Mateo tocca con le dita e prova a "vedere" con l'occhio della mente; la commedia rimontata e rimessa a posto per mettere fine a un film di cui lei, Penelope, doveva essere la protagonista assoluta; le risate per i dialoghi di quella commedia che altri non è che la riproposizione di Donne sull'orlo di una crisi di nervi; la frase di Mateo: "I film bisogna sempre finirli"...

E questo clima natalizio che mi fa venire l'ansia e questa traduzione che non finisce più e che dovrò pur portare a termine, e quella Milano che resta per me ancora un mistero...come quella persona che avrebbe dovuto venirmi a prendere, appena sceso dal treno...

sábado, noviembre 28, 2009

Abbracci d'oltretomba



Sono sempre stato attratto, sin dai tempi del liceo, dalle scene d'incontro dei vivi con i morti nel mondo dell'al di là. Uno dei primi episodi risale in realtà alle medie e riguarda il Libro XI dell'Odissea, quando, seguendo il consiglio della maga Circe, Ulisse scende nell'Erebo (il regno di Ade, dove riposano o vagano i morti - non si capisce mai se in effetti lì sotto ci si riposi o si vaghi, come in una condanna di Sisifo) per ascoltare la profezia di Tiresia, il cieco che gli predirà il futuro ritorno a Ilio, dalla moglie Penelope e il figlio Telemaco.

E' uno dei capitoli più belli e, dal punto di vista emozionale, più "struggenti" di tutto il poema. L'atmosfera è cupa, l'Erebo si trova ai confini del mondo conosciuto, per l'esattezza, lì dove finisce l'Oceano. Il luogo è contraddistinto dal buio e dalla nebbia: Ulisse ci dice che su quel popolo "i raggi del sole non discendono mai". Sono eternamente avvolti nell'oscurità. Per parlare con Tiresia deve seguire le istruzioni che Circe gli ha precedentemente dato e sacrificare degli animali. Le anime dei defunti verranno subito attirate dall'odore del sangue, ma Ulisse dovrà tenerle alla larga con la spada e la lancia per fare in modo che il primo a nutrirsene sia proprio Tiresia. Tra i morti, quelli che più spaventano Ulisse sono i vecchi, i bambini e le fanciulle morti di morte violenta. A un certo punto, vede anche "molti, squarciati dall'aste punta di bronzo, guerrieri uccisi in battaglia, con l'armi sporche di sangue". Fino a quando non fa l'incontro più insperato: Ulisse s'imbatte nell'anima della madre, che sembra non riconoscere il figlio. Di fatto, sarà solo dopo il discorso di Tiresia che Ulisse potrà far avvicinare la madre al sangue versato in sacrificio e questa lo riconoscerà.

Quali sono le prime parole che pronuncia? Quelle di una madre apprensiva nei confronti del figlio: "Creatura mia, come venisti sotto l'ombra nebbiosa vivo?". E' logico: una madre si spaventa a vedere il figlio ancora in vita nel regno dei morti. Subito dopo, però, cambia argomento e gli chiede se è già tornato a casa, a Ilio, dalla moglie e dal figlio, o se ancora è in balia del mare e degli dei. Ulisse risponde con una serie di domande: è lui quello più curioso, vuol sapere come e di cosa è morta; lei, che è nel regno di Ade e che perciò conosce il destino dei vivi, può dirgli se suo padre è ancora in vita e se Penelope pensa a lui come al suo sposo legittimo; se il figlio non l'ha tradito a favore dei Proci. La madre risponde, dando informazioni esaurienti, fino a quando non arriva a parlare di sé e della sua dipartita: "Così anch'io mi sono sfinita e ho seguito il destino; / no, non in casa la dea occhio acuto, urlatrice / con le sue miti frecce venne a uccidermi, / non male mi colse, che terribilmente / con odioso languore del corpo distrugge la vita, / ma il rimpianto di te, il tormento per te, splendido Odisseo, / l'amore per te m'ha strappato la vita dolcezza di miele" (vv. 197-203 del Libro XI, p. 303 dell'ed. Einaudi a cura di Rosa Calzecchi Onesti).

Fermiamoci qui un momento: proviamo a immaginare come si sarà sentito il figlio nei confronti della madre in quella sorta di rivelazione post-mortem. La madre è morta per il troppo dolore causato dalla perdita del figlio. Lo amava tanto che non saperne più la sorte l'ha uccisa. Come reagisce Ulisse? Come avrebbe reagito ciascuno di noi... prova ad abbracciare l'anima della madre morta:

"Così parlava: e io volevo - e in cuore l'andavo agitando - / stringere l'anima della madre mia morta. / E mi slanciai tre volte, il cuore mi obbligava a abbracciarla; / tre volte dalle mie mani, all'ombra simile o al sogno, / volò via: strazio acuto mi scese più in fondo, / e a lei rivolto parole fugaci dicevo: / 'Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, / che anche nell'Ade, buttandoci al collo le braccia, / tutti e due ci saziamo di gelido pianto?' " (vv. 204-213). Anche questa è una reazione logica (o verosimile): perché, chiede il vivo al morto, non possiamo unirci in un abbraccio materno-filiale? Cosa c'è di male? Quale dio impedisce loro di riabbracciarsi?

Fermiamoci ancora una volta a riflettere: Ulisse prova per tre volte ad abbracciare la madre e questa per tre volte svanisce nell'aria, tra le sue braccia protese nel tipico gesto d'affetto tra madre e figlio. La madre gli svela una triste e dura verità: "questa è la sorte degli uomini, quando uno muore: / i nervi non reggono più l'ossa e la carne, ma la forza gagliarda del fuoco fiammante / li annienta, dopo che l'ossa bianche ha lasciato la vita; / e l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando" (vv. 217-222).

Sembra di leggere Shakespeare: l'anima, come un sogno fuggendone, vaga volando dal corpo. Diventa un fantasma, o una pura apparenza. Non ci sono più carne né sangue né nervi. Ecco perché i due, nel regno di Ade, non possono toccarsi né potranno mai più abbracciarsi...

Qualche secolo dopo Omero (e dopo Shakespeare, che pure ha descritto scene d'incontri tra vivi e morti - pensiamo anche al prologo di Hamlet, quando Amleto figlio incontra all'improvviso il fantasma di Amleto padre e questi lo mette al corrente della morte violenta patita per mano del fratello e chiede giusta vendetta), il poeta inglese (e cieco come Tiresia) John Milton - quello non a caso del Paradise Lost - scrive un componimento, un sonetto, per l'esattezza, in onore di Catherine, la seconda moglie sposata nel 1656, quando egli aveva già perso la vista e di cui comunque ricordava i tratti fisici a memoria.

Nel sonetto XXIII, intitolato come il primo verso "Methougt I saw my Late Espoused Saint", Milton immagina di rivedere (con i propri occhi sanati, oltre che con l'occhio della mente) sua moglie Catherine vestita da sposa e immersa in una luce di purezza assoluta. Il poeta torna a sperimentare la dolcezza, l'intimità, l'amore che ha provato in terra quando lei era viva; la crede per un attimo viva e fatta di carne ed ossa; lei sembra protendersi verso di lui, ma (dolore degli ultimi due versi): "But Oh! as to embrace me she inclin'd / I wak'd, she fled, and day brought back my night". Esistono versi più crudelmente struggenti di questi? "Ma, ahimè, nel momento in cui lei stava inclinandosi per abbracciarmi, / mi svegliai, lei scomparve e il giorno mi restituì la mia notte", potremmo tradurre; o: "il giorno mi riportò indietro la notte", "mi riconsegnò alla mia notte"; la notte cui è condannato per la cecità che l'aveva colpito subito dopo i primi giorni di matrimonio...

Caos calmo non c'entra nulla né con Omero né con John Milton (inutile anche tentare paragoni); però l'ultima canzone del film, scritta per l'occasione da Ivano Fossati, sembra nutrirsi delle stesse sensazioni evocate sia dai versi di Omero che da quelli di Milton. Nel film (tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi) si parla di un marito che perde la moglie nello stesso momento in cui questi è impegnato a salvare una donna che non sa nuotare e che rischia di morire affogata in mare. Questo evento porterà l'uomo a una difficile "elaborazione del lutto", che avrà esito positivo solo grazie alla figlia di dieci anni che il padre si ostina a difendere dalla paura della morte aspettandola ogni giorno fuori da scuola.

La canzone di Fossati s'intitola L'amore trasparente e a un certo punto si ascolta questa frase, che diventa ritornello: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / mi sei apparsa in sogno e non hai fatto un passo". Facile ipotizzare chi sia questa donna apparsa in sogno all'uomo, se rapportiamo il testo della canzone al romanzo (e al film) che l'hanno ispirata. Gli stessi identici versi ritornano alla fine, quando Fossati aggiunge qualche frase in più, e a noi che ascoltiamo vengono i brividi, un'altro esempio di abbracci mancati, di baci impossibili, di incontri ravvicinati andati a male tra vivi e morti: "L'amore trasparente non so cosa sia / mi sei apparsa in sogno e non hai detto niente / ti ho dormito accanto e mi hai lasciato andare / sarà anche il gioco della vita ma che dolore / sarà anche il gioco della vita ma che dolore...".

miércoles, noviembre 25, 2009

Placer Licuante, di Luis Goytisolo (Madrid, Alfaguara, 1997)


Partiamo dal titolo, abbastanza ambiguo: come potremmo tradurre quell’aggettivo, “licuante”, in italiano? Piacere che “si liquefa”? Piacere che “si scioglie”? Oppure, in modo ancor più esplicito, “bagnato”? Sta di fatto che sin dal titolo il lettore può intuire che, quello che ha tra le mani, è un romanzo erotico, carico di erotismo, che parla di una storia di amore e morte secondo la migliore tradizione della letteratura erotica.

Ora, parlare di erotismo e parlare di romanzo, quando si tratta di un autore come Luis Goytisolo, è dire la stessa cosa. Nel senso che più volte e in più articoli l’autore ha sottolineato i punti in comune, i contatti viscerali che egli ha sempre trovato tra il fare sesso e lo scrivere un romanzo (o l’inventare una storia). L’immaginazione, in effetti, ha un ruolo centrale tanto nel primo come nel secondo ambito. Per vivere al meglio una storia d’amore (oltre che di sesso) non si può non ricorrere all’invenzione (inventarsi sempre nuovi percorsi da fare, nuovi ostacoli da sorpassare, nuove tecniche da affinare per dare e ricevere il massimo piacere dall’altro). E così è per il romanziere, il quale va tramando alle spalle del lettore al solo fine di affascinarlo e catturarlo nella rete della trama (quante metafore tessili quando parliamo di scrittura e di romanzo! O di scrittura romanzesca, che dir si voglia…).

Placer licuante è, in effetti, proprio un romanzo sugli effetti che può avere l’immaginazione (e gli scherzi che può giocare) in ambito amoroso-sentimentale-sessuale. Pablo, scrittore di successo, sta scrivendo un romanzo che dovrà permettergli di fuoriuscire dall’etichetta di “best-seller” e di entrare nel Parnaso degli autori “impegnati”. Nel mentre, sua moglie Maica, gallerista, s’invaghisce e finisce poi a letto con Máximo, architetto e teorico dell’architettura venerato dagli esperti e sempre in vena di nuove esperienze.

Ciò che colpisce di questo romanzo è il modo in cui l’autore riesce a farci penetrare dentro l’anima dei tre personaggi invischiati nel più classico dei triangoli amorosi (e a proposito di “desiderio triangolare”, qui uno come René Girard avrebbe molto da scovare…cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, ottima delucidazione, senza troppa enfasi freudiana a disturbare il discorso critico, sui rapporti tra Eros e Romanzo).

Ogni capitolo illustra la stessa scena da uno dei tre diversi punti di vista. E così, veniamo a scoprire come quella che sembrava essere la verità non è altro che la versione parziale (relativa) di una verità possibile (e potenziale), dipendendo quest’ultima dalla carica di amore o di odio che uno dei tre “personaggi” del triangolo vi ha riversato in quel preciso momento di trasporto (amoroso o d’invidia e gelosia).

Le scene di sesso più spinte lasciano un po’ a desiderare: l’ho già scritto a proposito di Antonio Moresco e lo ribadisco a proposito di Luis Goytisolo: quando si descrivono o si tenta di raccontare certe cose, si corre sempre il rischio (sia al cinema che in letteratura) di finire con il redigere una specie di saggio di anatomia comparata (o brano da enciclopedia ginecologica). Nemmeno Goytisolo sfugge a questo rischio.

Ma le parti in cui, a partire da una scena di sesso, l’attenzione si sposta su considerazioni d’ordine più generale e filosofico, sono davvero all’altezza dell’intelligenza ironica di un simile scrittore. E’ in questi brani che scatta l’immedesimazione del lettore coi tre personaggi. Chi non si è mai sentito tradito? Chi non ha mai provato l’estasi di accondiscendere a un tradimento? Chi non ha mai temuto un tradimento da parte della persona che ha al suo fianco e con cui condivide letto e tetto? Chi non ha mai detto: “Le cose che provo per te non lo ho provate mai per nessun altro e non credo che riuscirò a provarle per nessun altro in futuro?”.

Chi non ha mai avuto la tentazione di sbirciare nelle email del compagno o della moglie o fidanzata per scoprire magari verità che era meglio lasciare nell’ambito delle ipotesi più tristi e sconcertanti?

Il bello è che questo fenomeno di immedesimazione non avviene solo rispetto a Pablo (il tradito, il marito cornuto), ma anche rispetto a Maica (la traditrice che si lascia trasportare dalle emozioni forti) e a Máximo (l’amante focoso che agisce nell’ombra).

Alla fine e in modo del tutto “romanzesco” sarà proprio il romanzo in progress che sta scrivendo Pablo l’elemento che permetterà alla trama di esplodere e risolversi nel modo migliore per Maica e Máximo. Come a dire: “attento a quello che immagini – o desideri – perché potrebbe realizzarsi”.

Certe volte, ciò che immaginiamo nel piano della finzione non solo può venire confermato da ciò che accade nel piano della realtà, ma addirittura grazie all’immaginazione possiamo anticipare anche la nostra stessa fine (soprattutto – aggiungerei - quando questa ha un esito nefasto per colui che si impegna a immaginarla).

lunes, noviembre 23, 2009

Uno come Swann: non può non esserci simpatico

Tra i personaggi centrali di tutta la Recherche, il signor Swann ci appare all'inizio de Du coté de chez Swann attraverso le notizie che di lui ci trasmette in modo alquanto obliquo e misterioso il Narratore: all'inizio appare come uno di famiglia; poi, come un vicino alquanto bizzarro, che qualcuno dei familiari del Narratore non vede di buon occhio ed eviterebbe di vedere in giro per casa con tanta frequenza; per Marcel bambino è una voce; per il nonno è un uomo di mondo simpatico ed è un piacere sentirne raccontare gli aneddoti; a un certo punto, siamo noi stessi, i lettori, a "sentire dal vivo" la voce di Charles Swann: la sua è una riflessione sui giornali "moderni" e sullo scarso contenuto degli stessi (quanto sia ancora valida una simile riflessione è sotto gli occhi di chiunque si dia la briga di aprire un qualsiasi giornale di oggi e sfogliarne le notizie principali):

"Quel che io rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali. E poiché ogni mattina strappiamo febbrilmente la fascetta del giornale, allora bisognerebbe invertire le cose e mettere nel giornale, che so, i...Pensieri di Pascal! (egli isolò queste ultime parole sottolineandole con enfasi ironica per non avere l'aria pedante)".

Un personaggio che dice cose simili non può non esserci subito simpatico; intorno a Swann ruota (per il momento) parte del fascino che Marcel adulto percepisce del mondo che visse quando era Marcel bambino; staremo a vedere come e in che direzione si svilupperà questo fascino. Per il momento, sembra di stare ancora immersi nella giungla del Congo in compagnia di Marlowe: anche lì, Kurtz, il personaggio centrale e più "ambiguo" di Heart of Darkness, si presenta (nelle prime fasi di avvicinamento al "cuore di tenebra" della giungla così simbolicamente e magistralmente descritta da Conrad) come una voce. Possente e misteriosa. Che ci attira e ci spaventa allo stesso tempo... Un po' come succede con Swann. Un intellettuale che non ha la puzza sotto il naso e che con la sua eleganza ci parla di un mondo che sembra così lontano da noi quando, in realtà, è ancora molto, troppo vicino al nostro...

lunes, noviembre 16, 2009

Cose che succedono

Sono cose che succedono, ti dici, tutta questa distrazione, ultimamente, ma cos'è? Non dormi bene la notte? (la domanda me l'ha posta la collega d'inglese; mi offre una sigaretta, dopo che io l'ho invitata a un caffè; parliamo del più e del meno, qualcuno degli studenti che abbiamo in comune ci guarda e sorride, sono già pronti a smaliziare e a spettegolare con gli altri, ben presto lo saprà tutta la classe, quello di spagnolo, hai visto?, stava insieme a quella d'inglese, sì, li abbiamo beccati al bar...).

L'altra sera, ad esempio, passeggiavo in direzione dell'ospedale (niente di grave, un'analisi del sangue da ritirare), rimuginavo sulle domande che mi aveva appena posto la dottoressa (ma scusi, lei suda molto? Sì, vado in bici e sa com'è... No perché lei ha dei valori perfetti, ma le manca il potassio, scusi, le manca tanto potassio nel sangue...), quando ad un tratto vedo due persone, due operai, dalla divisa, intenti a trasportare una bara bianca a grandezza umana, voglio dire, formato standard, dall'interno di un grosso camion all'ingresso del Teatro La Pergola...una bara, ma come mai? Chi è morto? E solo dopo ricollegare, quando sei già in casa, e hai messo a posto la bici e il giaccone: non è morto nessuno, quella bara bianca era solo un attrezzo di scena, serviva per chissà quale rappresentazione teatrale, ma come, come ho fatto a non capirlo subito? Chi mai potrebbe entrare a teatro con una bara sulle spalle?

E poi ci sono quelle notti durante la quali pensi al passato e ti domandi dove diavolo è che hai sbagliato, qual è stato l'esatto minuto (o secondo) in cui hai fatto la scelta sbagliata, e tutto è andato a rotoli, e poi è ovvio che ti domandi: ma che ci faccio qui? Come sono arrivato a questo punto? Ed è inutile riavvolgere il nastro, tanto quel punto non lo trovi più...

Sono pazzo, mi dico. O scemo. O tutte e due le cose...

Cose che succedono, ti dici, per farti forza e andare avanti... Poi passi davanti a quella libreria e vedi quel saggio che tanto ti piace, vorresti comprarlo, ma non hai abbastanza soldi, e poi ti si piazza davanti un ragazzo con giacca e cravatta e ti chiede se vuoi comprare Lotta Comunista e tu lo guardi e vorresti dirgli che ne hai abbastanza di leggere i giornali, ma poi ti fa pena e quasi tenerezza, gli dici che non hai i soldi sufficienti nemmeno per il biglietto del ritorno, rischi di restare a Pisa, ti rendi conto? E dove vado a dormire?

Cose che capitano. Pare.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...