domingo, septiembre 27, 2009

Basta che funzioni ("Whatever works") di Woody Allen: guerra ai clichés e giochi del destino



Chi va a guardare un film di Woody Allen sa già cosa lo aspetta: New York con i suoi grattacieli o i suoi scorci più romantici; storie di amori incrociati, e corrisposti, e poi di nuovo spezzati; personaggi nevrotici e simpaticamente problematici; una colonna sonora in cui prevalgono pezzi di musica jazz e classica di alto livello; etc. etc. Non solo: chi ha apprezzato La rosa purpurea del Cairo o conosce a memoria quel famoso e stupendo monologo con cui si apre Io e Annie ("Annie Hall") in cui il personaggio protagonista ci guarda dritto negli occhi e ci parla della sua particolare "filosofia di vita", ebbene, chi ricorda le immagini legate a questi due film sa anche che quando si va a vedere un film di Woody Allen può saltare il principio di verosimiglianza e l'illusione di realtà (o "effét du reél", come lo chiamava Roland Barthes) e i personaggi possono interagire con lo spettatore chiamandolo direttamente in causa e rendendolo esplicitamente "co-attore" e "co-autore" del film stesso.

E' quanto succede anche con quest'ultima fatica del Nostro: Basta che funzioni ("Whatever works") inizia con il protagonista, Boris Yellnikov, che a un certo punto smette di chiacchierare con gli amici e si rivolge a noi spettatori fissandoci in primo piano e "bucando" lo schermo. Da questo esatto momento in poi noi spettatori diventiamo testimoni oculari del processo che ha portato Boris a essere quello che è; e non solo: guardiamo la sua storia, ascoltiamo la sua vicenda, con quella giusta dose di malizia e di ironia distanziante che, nella vita reale, raramente applichiamo a noi stessi e alle nostre esistenze. E' come se, attraverso la "maschera" del suo alter-ego isterico, nevrotico, scorbutico e misantropo, Woody Allen ci dicesse: "Guardate che quello che state guardando non è altro che un film; ma sappiate che il film parla proprio di voi; anzi, di noi, delle paure, delle ansie, delle illusioni che ci rendono - tutti - umani, ovvero, quello che siamo: limitati nel tempo, condannati a morire e a sparire per sempre, a volte fin troppo assuefatti al dolore e sempre troppo pronti a lasciarci influenzare da quella strana malattia che molti chiamano amore"; d'altronde, lo diceva anche Eco: "lector in fabula" - di te si parla qui dentro questa storia fittizia che sembra finta ma che, forse, non lo è poi tanto).

E così, da testimoni oculari e ironici, ascoltiamo e vediamo come mai questo quasi Premio Nobel per la fisica (specialista in meccanica quantistica) per una fase della propria vita lascia che una giovane e bella fanciulla proveniente dal Sud nella Grande Mela riesca ad allontanarlo per un po' dal suo stato di pessimismo cosmico (o "leopardiano") e lo spinga a guardare con un po' più di ottimismo la vita.

Non solo: attorno a questa incipiente storia d'amore (coronata con tanto di matrimonio lampo), si andranno intrecciando nel corso del film le storie degli altri comprimari; la madre della ragazza, dopo lo shock di vedere sua figlia sposata a un uomo di 40 anni più vecchio, si aprirà a nuovi orizzonti e smetterà di ragionare come una "cattolica fervente e ortodossa"; il padre della ragazza, addirittura, accetterà la propria omosessualità repressa; e insomma, alla fine tutti scopriranno angoli del loro carattere che erano tenuti nascosti forse per il timore di essere "condannati" da Dio e dalla società o forse per il timore di accettarsi per quello che sono.

Il film è tra i migliori di quelli girati fino a oggi dal regista americano: le battute sono tantissime e tutte esilaranti (sarebbe impossibile riportarle tutte per esteso; e molte sono da antologia); non posso non citare quella del gay che chiacchiera seduto in un bar con il padre della fanciulla appena andata in moglie a Boris: "Dio è gay"; anzi: "Dio è un arredatore gay", dopo che il più morigerato fa notare al suo interlocutore la bellezza dei fiori, delle piante, degli alberi, dei boschi, delle montagne...). Il ritmo è sempre sostenuto; è impossibile annoiarsi guardando questo film (sebbene Boris all'inizio ci avvisi: "Non ho niente d'interessante da raccontarvi; non sono un bel carattere; odio tutti questi vermicelli" - ovviamente, si riferisce a noi, ovvero: il resto dell'umanità). E la sceneggiatura è attentissima nel calcolare i momenti clou, quelli in cui le apparenze mostrano di essere tali e le verità nascoste vengono alla luce del sole grazie agli incroci che il caso (o il destino) si diverte a creare nostro malgrado...

Potrei riassumere il tutto dicendo che il film parte come una sorta di "guerra ai clichés" (quelli pronunciati troppo spesso dalla bella e inesperta giovane sposa di Boris, e che lui, il genio, s'impegna a debellare, riuscendo a trasferire le perle della sua infinità ed eccelsa saggezza da "uomo superiore alla massa" alla pulzella senza laurea) e finisce come una sorta di "lode ai giochi del destino".

Nessuno si salva: né dai clichés, né dai giochi del destino. Siamo tutti vittime e carnefici (allo stesso tempo): Boris trova l'amore vero gettandosi dalla finestra al suo ennesimo tentativo di suicidio (fallito); ed è lo stesso "quasi-Nobel" a riassumere la sua "filosofia" in quello che, certamente, possiamo considerare come un bel cliché: "basta che funzioni" (come a dire: "finché dura fa verdura"; "cogli l'attimo"; divertiamoci finché ce n'è, tanto la vita è corta e nessuno può scampare alla morte).

Woody Allen allo stato puro e in stato di grazia...

Qui sotto il monologo tratto da Annie Hall (uno dei capolavori del Nostro e uno dei film più belli della storia del cinema, a mio modesto parere):

martes, septiembre 22, 2009

Cambiamenti epocali

Oggi, 22 Settembre del 2009, ho messo il mio primo 30 e lode a un'alunna meritevole da quando faccio questo "mestiere" (docente precario all'Università). A differenza di quanto possano immaginare gli studenti, fa piacere anche ai docenti premiare chi studia e si impegna e sa dimostrarlo dando prova di aver "digerito" e fatte sue le letture affrontate durante il corso, lezione dopo lezione.

Come capire se uno studente ha studiato davvero e si merita la lode? 1) Lo si può intuire subito anche dal tono di voce e da come si esprime: alla cosiddetta "proprietà di linguaggio" si unisce un tono di voce naturale; chi parla perché sa di cosa sta parlando non divaga, non ha la voce tremante, ti guarda dritto negli occhi, non scosta la vista dal prof., anzi, sembra quasi sfidarlo in un gioco di sguardi come a dire: "vediamo chi li abbassa per primo"; 2) Chi sa il fatto suo è capace di argomentare le sue affermazioni: i ragionamenti, da semplici e lineari, possono diventare arguti e complessi e, soprattutto, spaziare tra campi tematici e materie diverse (dalla letteratura alla filosofia alla storia dell'arte, per fare un'esempio); 3) Chi ha studiato non teme le domande più difficili, anzi, sembra sfidare il docente affinché questi gliele faccia e gli dia quindi modo di dimostrare a se stesso e al prof. quanto è bravo.

Marta è entrata in aula con il suo solito caschetto tricolore (bionda, mora e rossa) e un paio di jeans attillati dal colore indefinito; indossa una maglietta a quadri e ai piedi porta le famose Converse (tutte consumate). Ha il viso sorridente e ricorda vagamente Audrey Hepburn. Nel corso del suo esame orale, parliamo di tante cose; la sua riflessione su che cosa sia veramente un'autobiografia (e cosa distingua questa da una pseudo-autobiografia o da una "autobiografia romanzata"), ci porta a ragionare entrambi su un cambiamento epocale: nel 1554 scrivere in prima persona una sorta di "lettera pubblica" su un presunto "ménage à trois" poteva essere solo uno strumento, un sotterfugio letterario per titillare la fantasia del lettore e invogliarlo a leggere l'intera opera come opera non di finzione, ovvero, come una vera e propria "lettera reale"; nel 2009, invece, c'è gente che si sente in diritto di parlare di sé (di mettere in mostra il proprio "io" narrante) soprattutto se ha fatto esperienze negative di cui, in generale, ci si dovrebbe vergognare (o di cui, comunque, si fa fatica a parlare pubblicamente). E' cambiata la percezione della vergogna, questo è evidente. Così come è lampante che dal Cinquecento a oggi il concetto di pudore, di morbosità, di virtù interiore, di fama abbiano subito un capovolgimento totale. Oggi basta aver avuto un passato da drogato; da calciatore con problemi legati alla droga; da prostituta; da studentessa che, per mantenersi agli studi, si vende (a Parigi o magari a Berlino); da cubista che cambia partner e droghe ogni sera; da "escort" (come direbbe oggi Berlusconi); da ex-serial killer o ex-cacciatore di serial killer; da transessuale operato in seguito a violenze sessuali; da "fenomeno da baraccone", in sintesi, per sentirsi in diritto di scriverne e di fare della propria vita personale un "romanzo da leggere", ovvero, un best-seller che venderà (non milioni di copie; e però venderà).

Se prima si scriveva di sé soprattutto per rinnegare gli errori del passato e attribuire alla scrittura autobiografica una funzione edificante ("guarda gli sbagli che ho commesso io,caro lettore, e impara la lezione affinché tu non li commetta nella tua stessa vita"); se prima si poteva parlare di sé fingendo scandali e vergogne che erano inventate solo per catturare l'attenzione morbosa del lettore (vedi l'incipit mitico di Moll Flanders di Daniel Defoe, vero manifesto di come si può parlare di sé in termini ironicamente spregiativi); oggi si usa la prima persona per riscattarsi socialmente, fare soldi e vendere una propria immagine mitizzata soprattutto se si è tanto peccato e si è tanto vissuto "al limite". Più sei "freak" più sai che qualcuno vorrà sapere come te la sei passata a vivere da drogato, prostituta, cubista, ballerina, escort, etc etc.

P.S.: speriamo che Patrizia D'Addario (si scrive così? O era Daddario tuttattaccato?) non prenda spunto per rifilarci anche lei la sua "scottante verità"... perché mi sa che ci sarà sempre il lettore morboso e curioso pronto ad acquistare e leggere con avidità l'autobiografia "ufficiale".

sábado, septiembre 19, 2009

miércoles, septiembre 16, 2009

Maestri di vita




Roma mi fa impazzire, mi ringiovanisce, mi fa viaggiare ad alta quota. E mi porta fortuna. In un solo giorno (in un sol colpo) sono riuscito a vedere due dei miei migliori maestri di vita in assoluto: il prof. Carmelo F.C., docente di lingua spagnola presso l'Università "La Sapienza", e Roby (detto anche "Er Polipo"), docente di vita presso il quartiere del Tufello (periferia nord della capitale).

Carmelo lo conosco dal 1998, per l'esattezza: dal 12 Febbraio del 98, quando diedi con lui il mio primo esame orale di Lingua Spagnola I. Mi mise 30 e lode e non lo dimenticherò mai: fu il primo a dirmi che studiavo per piacere e non per dovere. E ciò traspariva dal modo in cui (testuali parole) "mi impossessavo della bibliografia del programma d'esame per farne cosa mia".

Roby (o "Er Polipo") lo conosco dal 2002, per l'esattezza dal 1 Novembre del 2002. Posso dire senza ombra di dubbio che è uno dei miei migliori amici; soltanto con lui, di fatto, riesco a parlare di cose di cui non parlo nemmeno con mio fratello. In effetti, Roby per me è' un po' come un secondo fratello e lui lo sa, e sa che io so che lui sa. Attualmente fa il "panificatore", ovvero: sforna pane e pizze in un forno del suo quartiere. In passato ha avuto problemi con la legge, per errori di gioventù che continua a pagare ancora oggi che non è più tanto giovane (ha superato da poco la trentina, come me); porta pazienza, lotta e va avanti a testa alta.

Carmelo mi ha insegnato la grammatica spagnola e mi ha permesso di correggere la mia pronuncia in questa lingua; Roby mi ha istruito sulla vita di strada, mi ha insegnato a muovermi nelle strade più pericolose del quartiere, a come farsi rispettare quando ci si trova davanti gente ignorante e prepotente (o troppo furba), e a come salvare la pelle nei frangenti più - diciamo - rischiosi...

Carmelo mi ha invitato a un piatto di pappardelle con funghi porcini in una delle trattorie più "popolari" che abbia mai visto in vita mia (in zona San Lorenzo); lo stesso giorno, di sera, Roby mi ha invitato a casa sua e mi ha fatto mangiare una delle "carbonare" più buone che abbia mai provato fino a oggi (Mery, sua moglie, si è messa in un angolino, ha ascoltato la lezione con me, in religioso silenzio, in previsione di future cene con pasta alla carbonara).

Carmelo ha superato i 40 anni e ha messo sù un po' di pancietta; Roby continua a lottare e sebbene sia sposato da quasi 4 anni continua a mantenersi in forma per i grandi sacrifici che implica lavorare in un forno su turni effettivamente assurdi. Entrambi, sia Carmelo che Roby, mi trattano come uno di famiglia e cercano sempre di farmi sorridere o, ancora meglio, ridere. Perchè la vita è breve e prenderlo in quel posto è un attimo.

Mi trovo a mio agio quando chiacchiero e mangio in presenza dei miei maestri di vita e anche se gli argomenti sono diversi la sintonia è la stessa. Non c'è mai un attimo di silenzio o una pausa d'imbarazzo quando sto a tavola con Carmelo o con Roby; mai un attimo di tregua (sempre tante, troppe, le cose da dirsi e gli eventi di cui fare il punto, i fatti su cui riaggiornarsi). Sia con Carmelo che con Roby mi sento come se fossi a casa mia (dai miei) e non esistono censure, nè pudori, nè falsità o freni morali di sorta.

Con amici così, e maestri di tal fatta, diventa davvero facile dirsi le verità anche più scottanti in faccia, così come sono (o come ci appaiono), senza girarci intorno, o senza falsi infingimenti. E la vita, per un attimo, sembra meno breve di quello che è, le ore scorrono più lente, i ragionamenti si fanno più articolati e complessi, la folla intorno scompare e la risata e lo sfottò reciproco diventano i simpatici ingredienti con cui condire il pranzo o la cena di turno.

Maestri di vita che rendono la vita meno pesante e meno triste di quello che (spesso) è... Gente da cui è un piacere continuare ad apprendere e imparare...

P.S.: la foto, scattata dal balcone di casa di mio fratello, ritrae uno scorcio di Via Leopardi. E' la via di Roma in cui più ho amato, sofferto, studiato, odiato, mangiato, bevuto e fumato di tutta la mia vita..."e il naufragar m'è dolce"...in questa via.

lunes, septiembre 14, 2009

David Foster Wallace docet



Un anno fa moriva suicida David Foster Wallace. Sono già iniziate le commemorazioni, la pubblicazione delle opere postume, i convegni, le celebrazioni, le letture pubbliche, etc. etc. Dalle pagine culturali de La Repubblica di oggi estraggo questa citazione, molto istruttiva, a parer mio (perchè riflette la realtà - o vi si avvicina parecchio - e perchè mi ricorda un'altra citazione, di Tiziano Sclavi, da La circolazione del sangue, se non ricordo male, quella che recita: "in fondo, le scopate di cui ci ricordiamo nella vita sono solo tre o quattro"):

"Il buon vecchio semplice coito diventa carico di erotismo e significativo a livello interiore proprio nei momenti in cui impedimenti, conflitti, tabù ed eventuali conseguenze gli conferiscono un carattere a doppio taglio: il sesso che ha significato è quello nel quale si vince o si soccombe a uno stesso tempo; vi sono trascendenza e trasgressione; è quello esultante e straordinario ed estatico e malinconico".

Questa riflessione (sempre ricca d'ironia, com'è nello stile di DFW) mi offre anche (e in parte) la risposta alla domanda che mi ponevo qualche post fa: perchè si smette di fare l'amore con trasporto e passione quando si va a convivere o quando si vive sotto lo stesso tetto magari legati dal sacro(santo) vincolo del matrimonio (non succede a tutti, comunque, e per quanto sono venuto a sapere da amici vicini e lontani, è un fatto frequente - oltre che preoccupante e pericoloso)....La risposta è tutta contenuta nella frase di cui sopra: togli gli ostacoli, togli i conflitti o gli impedimenti e il sesso (quello vero, passionale, fatto a regola d'arte, con trasporto irrefrenabile) o si affievolisce o, peggio, svanisce (sostituito dalla routine o, peggio, dall'astinenza totale).

P.S.: mi sa che la frase di DFW diventerà l'epigrafe a un mio racconto (che s'intitola - vichianamente - Corsi e ricorsi)...

jueves, septiembre 10, 2009

Ringraziamenti

Molti di loro non sanno nemmeno che io abbia questo blog; molti di loro non sospettano nemmeno che io scriva (racconti, fregnacce, pseudo-romanzi), nei momenti di ozio o in quelli di massima attività (come accade per la lettura); io li ringrazio di cuore perchè hanno contribuito a rendere il giorno del mio 32esimo compleanno un giorno speciale (tre notizie buone in un colpo solo, e nella stessa giornata, non possono essere un caso; e se lo sono, che caso fantastico! Unico neo, la scomparsa di Mike! Ma Mike, proprio ieri dovevi morire?): segue la lista di tutti coloro che ringrazio, anche se a distanza e anche se solo virtualmente:

1-Silvia (da Vercelli)

2-Giovanna (da Livorno)

3-Daniela (da Livorno)

4-Rosa (da Milano)

5-Ambra (da Madrid)

6-Jole (dal paese sui monti abruzzesi)

7-Ines (idem)

8-Mauro (da Madrid)

9-Pompea (da Taranto)

10-Maria Fernanda (da Como)

11-Nadia (da Lamezia Terme)

12-Dadda (da Roma)

13-Alessia (dal paese su monti abruzzesi)

14-Rosa (da Pisa)

15-Roby e Mery (da Roma)

16-Iacopo (da Firenze)

17-Sabrina (da Firenze)

18-Alì (da Firenze)

19- Nicola (da Pisa)

20-Jens (da Aarhus - Danimarca)


Thanks folk! To all of you!

martes, septiembre 08, 2009

32 years old!



L'ora della sepoltura s'avvicina!

Verano attendimi!

Arriverò mai alla pensione?

Speriamo di sì

Ohilapeppa!

Ma cosa vedo all'orizzonte? Una donna che si spoglia...Mhm...

Sogno o son destro?

Bah!

domingo, septiembre 06, 2009


Come raccontare la guerra: Camilo José Cela e San Camilo 1936 (Madrid, Alfaguara, 1970)




Un giovane si guarda allo specchio e non riesce più a vedere chi sia: sullo sfondo, dietro di lui (ma anche dietro quello stesso specchio che non riflette più l'immagine reale), la guerra impazza, i cittadini fuggono da Madrid o si rintanano in casa o sotto gli scantinati mentre i repubblicani, insieme agli anarchici, ai sindacalisti e ai comunisti, provano a coalizzarsi e a dare vita a quello che sarà il cosiddetto "Frente Popular" contro le armi ben affilate (e ben più moderne) di Franco e dei franchisti.

E' la Guerra Civile spagnola (o meglio, l'inizio della): Camilo José Cela (l'ultimo Premio Nobel per la Letteratura di nazionalità spagnola, vinto nel 1989) ce la racconta adottando il punto di vista di uno zio che parla e prova ad insegnare al nipote come ci si comporta nella vita, come si affrontano le avversità, in che modo si può fronteggiare la morte. E' proprio questo rivolgersi al protagonista in seconda persona singolare a permettere al lettore di entrare nella mente, per così dire, di questo ragazzo impaurito e, al contempo, codardo, forse spia al soldo del nemico, incapace di mantenere un rapporto sentimentale con Toisha, la sua fidanzata, e incapace di gettarsi nell'azione o di prendere una decisione netta tra i due schieramenti in lotta tra di loro.

Novello Amleto, egli sa di essere un ignavo, è preda dell'inerzia, dell'apatia e dell'egoismo: sa che non potrà mai essere Giulio Cesare nè Napoleone Bonaparte nè tantomeno il Re Cirillo d'Inghilterra. Lui è un debole e, dinanzi alle tragedie scatenate dalla Storia, si sente un fallito, un perfetto idiota, un fatuo, un intruso. Non sarà mai un eroe (come per Stephen Dedalus così è per lui: la Storia con la "S" maiuscola non è nient'altro che un "incubo dal quale vorrei svegliarmi").

Ecco, qui tocchiamo uno dei temi centrali del romanzo: la confusione e il senso d'incertezza acuto che provoca la guerra, momento catartico della Storia (o che la Storia produce nel corso del tempo cronologico umano). In questa sorta di monologo interiore ininterrotto, la voce narrante riesce a inglobare tutto, dagli elementi più madornali (i titoli dei giornali, la censura contro il nemico politico, i rastrellamenti che potevano significare la morte anche solo per l'abbigliamento che si indossova, gli spari e le sparatorie dei giudizi sommari impartiti da entrambi gli eserciti) a quelli più minuti (i bordelli - che continuano a funzionare anche quando Madrid è una città sotto assedio; le relazioni dei vari personaggi - accomunati dalle stesse ansie e paure e, a volte, in lotta tra loro proprio perchè appartenenti a partiti politici opposti; le cene e i pranzi - più miseri o meno lauti perchè cominciano a scarseggiare pane, latte e altri beni di prima necessità).

Siamo nel bel mezzo dell'abisso: e Cela, famoso per aver inventato una corrente letteraria che va sotto il nome di tremendismo, si diverte, per certi versi, a scandagliare gli aspetti più biechi o truci della realtà quotidiana in tempo di guerra. C'è l'omosessuale che, senza mai essere venuto allo scoperto, si spara un colpo con un fucile infilato nell'ano; c'è la prostituta che si getta sotto un vagone della metropolitana; c'è il mendicante che raggranella pochi spiccioli per l'ultima sbronza prima che cada la notte e arrivi il corpifuoco.

Non si salva nessuno; San Camilo 1936 (esattamente come succede nell'altro grande romanzo di Cela, La colmena, del 1951) è popolato da un numero ragguardevole di personaggi, ma non ce n'è nemmeno uno che si possa definire "sano" o "positivo". Sono tutti colpevoli: dal Primo Ministro all'ultimo giornalista da strapazzo; dal commerciante al barbiere; dalla prostituta al nobile decaduto, non c'è personaggio che spicchi sugli altri in quanto a eroismo.

D'altronde - sembra suggerirci il ragazzo che si contempla nello specchio - siamo davvero certi che Giulio Cesare o Napoleone o Re Cirillo siano stati degli eroi? Chi decide chi sarà ricordato in futuro per le sue azioni in guerra?

Altro tema è quello della confusione dei ruoli e delle apparenze che ingannano: è un dato accertato, ormai, che durante il conflitto (durato 3 anni, e terminato nel 1939) si poteva finire in carcere o si poteva venire giustiziati con un colpo di pistola a cielo aperto anche solo per il modo di vestire o di salutare. Anche qui, come in altri romanzi spagnoli sulla Guerra Civile, si narra di persone normali, appartenenti alla borghesia media, che vengono fatte prigioniere o "rastrellate" dai "rossi" solo perchè non fanno il saluto con il pugno chiuso o solo perchè vestono troppo bene (da "nobili" o "señoritos" come si diceva in gergo); anche qui si narrano i casi di suore e preti costretti alla fuga per gli incendi che alcuni ribelli appiccano alle loro chiese; e anche qui si narrano i casi di contadini che si rifiutano di salutare al modo fascista o che non si fanno il segno della croce davanti a un cimitero o a una chiesa e che per tali motivi finiscono nelle fosse comuni o spariscono nelle prigioni franchiste. E' il tono che cambia; Cela ha il gusto per tutto quanto è "grottesco" e "sporco" e non risparmia i dettagli più apocalittici e sgradevoli.

In vita, Cela fu criticato da molti (colleghi, critici, giornalisti, politici); ora che sono passati 7 anni dalla sua morte (avvenuta nel Gennaio del 2002) possiamo azzardarci a separare il "grano" dalla "paja" (quanto di buono scrisse, rispetto alle opere minori) al di là delle ideologie. Senza alcun dubbio, San Camilo 1936 è uno dei suoi romanzi migliori; è come se Cela avesse usato la tecnica del monologo interiore e del flusso di coscienza di Joyce per mescolarla alla tecnica del montaggio "alternato" usato da John Dos Passos in Manhattan Transfer; ed è come se, attraverso quel mix sperimentale e coinvolgente, avesse voluto trasmetterci tutto l'orrore che si può respirare vivendo in mezzo alle grida, agli spari e ai soprusi che l'un bando e l'altro hanno commesso nel momento in cui si scatena il conflitto. Non solo: Cela sembra usare quelle stesse tecniche adottate ne La colmena per riflettere in modo ancora più esplicito su che cosa voglia dire "essere spagnoli". Su chi sia lo "spagnolo tipico". La risposta non è delle più allegre o rassicuranti. Come si evince anche da queste parole:

"(p. 298): “[…] sul cielo di Madrid inizia a vedersi subito lo splendore degli incendi, uno, due, tre, fino a cinquanta o più, chissà se ancora di più, a tuo zio Jerónimo dà molto da pensare la relazione tra la chiesa e il fuoco, non avere dubbi, nipote, dentro ogni spagnolo abita un incendiario religioso, basta solo dargli l'occasione giusta per mettere in mostra le sue abilità, gli estremi si toccano, la reazione brucia eretici e libri e la rivoluzione brucia chiese e immagini sacre, purchè si bruci qualcosa, osserva nipote che il popolo spagnolo anche se patisce la fame non brucia le banche ma i conventi, dietro tante fiamme non c'è una motivazione politica nè tantomeno economica ma religiosa e magica, forse lo spagnolo confonde la politica, l'economia, la religione e la magia, tutto è possibile, il fuoco come grande soluzione, la panacea universale per ogni dubbio e lo spagnolo dubita di tutto tranne del fuoco eterno, del fuoco della pentola di Belzebù che viene dal catechismo, qui l'unica cosa che non è permesso bruciare sono i cadaveri perchè dicono che è peccato, qui si bruciano persone vive e case con dentro persone vive, lo spagnolo ha anima da "falla valenciana", quanto più fuoco tanto meglio, i militari si sono ribellati e negli acquartieramenti di Madrid nessuno sa cosa succede ma il popolo invece di andare contro i militari va contro i preti, il fuoco religioso ha l'effetto del miracolo sugli spagnoli, su tutti gli spagnoli, qui non si salva nessuno, o meglio, si salvano in pochi da questa mania di bruciare o di essere bruciati, qui tutto si deve risolvere con la fiamma che brucia, lo spagnolo vorrebbe bruciare la propria storia affinché dopo, quando non sia rimasto più nulla, possa gettarsi sulle braci urlando, in Spagna ci sono molti più pazzi di quanti ce ne sia bisogno [...]".
(p. 298 dell'ed. originale; la traduzione, liberrima, è mia).

sábado, septiembre 05, 2009

Videocracy di Erik Gandini (2009, Fandango)

Non ho ancora visto questo film-documentario sulla tv generalista in Italia e su come Berlusquoni (attraverso le sue reti private) abbia plasmato (gran) parte della mentalità italica nell'arco degli ultimi 30 anni; e non mi piace fare pubblicità a scatola chiusa; ma credo che questo breve trailer sia istruttivo per diverse ragioni. Es.: provate a guardarlo senza audio (e senza leggere le didascalie in inglese); provate a guardare attentamente quei volti; concentratevi solo sulle facce; i volti parlano, il volto (e gli occhi) sono lo specchio dell'anima, come dicevano gli antichi (classici); questi volti (Berlusconi, Corona, Lele Mora) dicono più di quanto non vogliano a chi sappia guardarli con attenzione e freddezza e un minimo di obiettività...

Come ha annunciato qualche critico, mi sa che Videocracy, in realtà, è un film-horror...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...