jueves, enero 29, 2009


Liste

 

Dopo aver viaggiato dal Nord al Sud d’Italia, faccio una sosta di un paio di giorni dai miei, in terra d’Abruzzo. Il pomeriggio ho rivisto Marco, un amico d’infanzia, uno di quei vecchi amici che, anche se sono decenni che non vi vedete, poi è tutto come prima, come se non vi foste mai separati, come se il tempo non fosse passato e la distanza non contasse nulla…

 

Marco lavora in una ditta che rifornisce di caffè le macchinette automatiche che io e te (potenziale lettore che leggi) troviamo nelle Università, negli ospedali, e in un monte di altri locali pubblici. Marco lavora parecchio ed è già stanco (anche se sono solo le 17,36 del pomeriggio). Mi offre un campari corretto al gin (fin troppo forte, per le mie abitudini alcoliche) e mi dice che la fidanzata l’ha mollato per un altro. Convivevano da quasi due anni (davvero? Non lo sapevo mica che eri andato a convivere, accidenti! Il più grosso sbaglio della mia vita) e ora lei l’ha lasciato e Marco è dovuto tornare a stare dai suoi (e pensa che la consideravo la mia donna ideale, tu pensa, credevo perfino di farci un figlio insieme, con quella stronza! E che ci vuoi fare? E’ la vita, vagliò).

 

Mi conferma che qui la vita è sempre uguale (come se a Firenze, o Milano, o Catania, fosse diversa) e che si è rotto le palle. Sarà per Valeria (questo il nome della stronza), sarà per la routine o il lavoro (che lo stressa parecchio e che, economicamente, non lo soddisfa affatto), sta di fatto che Marco ha pensato anche alla fuga, si è arrovellato intorno all’idea più azzardata: lasciare tutto, casa dei genitori, lavoro sicuro e la nostra piccola cittadina arroccata sui monti, per costruirsi un futuro se non “migliore”, almeno “diverso” (è così che dice e me lo ripete, scolandosi il bicchiere dell’aperitivo con una rapidità estrema: “se non migliore, almeno diverso” e aggiunge: “cazzo!”, mi pareva strano che non mettesse il puntino).

 

Mi chiede di me. Se sto ancora con Alyssa, come mi va il lavoro all’Università (ma non sospetta che per campare me ne devo trovare un altro), se continuo a viaggiare (tanto, troppo, e aggiungo: “cazzo”, ovvio), se mi trovo bene con Alyssa e se lei è la donna della mia vita (grossa domanda, questa, vagliò: e chi lo sa per certo se quella con cui dorme tutte le notti e sotto lo stesso tetto è davvero la donna della sua vita? Chi? Già, hai ragione, non mi ci far pensare… Quella stronza, che troia, andarsene con un altro…).

 

Poi ci salutiamo. E mentre riesco a far uscire l’auto da un parcheggio troppo stretto senza fare danni alla carrozzeria, mi domando se Alyssa è davvero la donna giusta per me e se è quella della mia vita. E mi viene da pensare a un futuro remoto in cui saremo genitori. E a come ti cambia la vita avere un figlio. Marco ci avrebbe fatto anche dei figli con Valeria… se non fosse successo quello che è successo. E come si fa a mettere al mondo dei figli in un postaccio come il nostro, in una situazione come quella attuale?

 

Chiamo Alyssa e glielo chiedo: “tu sei tutto di fuori; cos’hai, bevuto?”. Le dico che ho solo sorseggiato un po’ di campari corretto con il gin. E le riassumo la chiacchierata che ho avuto con Marco, quel ragazzo, amico mio, che non vedevo da una vita. E mentre Alyssa prova a farmi ragionare, penso a come sarebbe bello, se avessi un bambino, fargli vedere tutti i film che hanno significato qualcosa per me, e a come sarebbe eccitante leggergli ogni notte (per conciliare il sonno) una delle tante pagine dei tanti libri che hanno segnato la mia vita di bambino (prima) e di adulto (poi).

 

Alyssa mi chiede di spiegarmi meglio. “Scegli dieci titoli di film e dieci dei libri che, a tuo parere, sono i primi dieci di un’ideale top-ten mondiale”. Alyssa mi richiede se ho bevuto. “Dai, su, quali sono secondo te i primi dieci film e i primi dieci libri più importanti della storia del cinema e di quella della letteratura?”. A me vengono in mente questi (ma riduco la lista della metà, non sta bene far vedere o scoprire tutto e subito, poi spetterà a lui, all’ipotetico bambino – o bambina – andare avanti da soli nella scoperta del meglio che, nonostante il postaccio in cui siamo, siamo riusciti a produrre nell’arco dei secoli):

 

I PRIMI 5 FILM:

 

1-Citizen Kane, ovvero: “Quarto Potere”, di Orson Welles;

2-Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola;

3-La febbre dell’oro, di Charlie Chaplin;

4-2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick;

5-Sussurri e grida, di Ingmar Bergman.

 

I PRIMI 5 LIBRI:

 

1-Odissea, di Omero;

2-La Divina Commedia, di Dante;

3-Don Quijote, di Cervantes;

4-Ulysses, di Joyce;

5-Alla ricerca del tempo perduto, di Proust.

 

Ripasso mentalmente e velocemente le due liste, partendo dalla prima: forse ci sono troppi americani (ma come dare loro torto? Se è vero che i primi film li hanno girati i fratelli Lumière, è pur vero che il cinema inteso come “arte del sogno” e che “fa sognare a occhi aperti” l’hanno inventata loro); forse potevo metterci il Rossellini di Roma città aperta al posto di quel Bergman (o Umberto D., di De Sica, al posto di… boh?); e riguardando la seconda lista, m’accorgo che sono tutte e 5 opere-mondo, di narrativa, bene o male, e molto lunghe… Saranno adatte a una creatura nella fase della crescita? (Ma sì, basta leggerne dei passi, quelli “antologizzabili”, sono opere “smontabili” – come direbbe Umberto Eco…o no?).

 

Poi Alyssa riattacca, s’è stufata del gioco. A me verrebbe voglia di richiamare Marco e chiedere a lui le sue due belle liste. Ma Marco mi sa che è uno che lavora tanto e legge poco, non va quasi mai al cinema. Mi ha detto che l’ultimo film che ha visto è stato un horror, The Saw V, “l’enigmista” che sbudella le sue vittime con cinismo sopraffino. Forse Marco a quest’ora già dorme. O chissà se ancora non prende sonno, perché gli ho rinfrescato la memoria e starà ancora maledicendo la stronza…

domingo, enero 25, 2009

L’hotel di fronte casa

Ho scoperto che quello di fronte casa (non proprio di fronte, diciamo di fronte ma spostato sulla sinistra di dieci metri) non è un ospizio per anziani, né un collegio per studenti americani (come suggeriva la padrona), ma un hotel. Ecco spiegati i due fari che, dal basso, dal pianterreno, sparano due raggi di luce durante la notte, fino a che non spunta il sole. Ed ecco spiegata la nicchia scavata nel cemento con dentro il nome: “Hotel President”. Il punto è che sembra sempre vuoto. Non c’è ombra di turista nei paraggi. Né di dipendenti. Eppure… le luci sono sempre accese di sera. Se mi affaccio dal balcone riesco a vedere perfino un quadro, di quelli tristi tipici di certi ospedali, una natura morta. E, dalla finestra di fianco, un crocefisso e una porzione di lampadario…

L’hotel è immerso nel verde (come casa nostra, d’altronde – io di fronte ho una collina di ulivi). L’ingresso è dato da una stradicciola sterrata che conduce a un portone alto due metri. Di legno antico. Con due battenti di bronzo che, a occhio e croce, devono pesare un accidente.

Se si segue la stradina che costeggia l’hotel si può arrivare fino a San Domenico e da qui su su fino a Fiesole. Da casa non solo riesco a vedere la cupola del Brunelleschi, ma anche spicchi di colline della zona fiesolana.

Leggo da una Storia della Letteratura Italiana edita da Einaudi che Fiesole e Firenze sono state acerrime nemiche durante il XIV e XV secolo. E che solo dopo anni di feroci battaglie campali, i fiorentini hanno avuto la meglio. Nel romanzo picaresco Guzmán de Alfarache, il cap. 1 del II Libro della “Segunda Parte” descrive la Firenze ai tempi della famiglia De’ Medici nei suoi più minuti dettagli; il narratore ne loda le strade pulite, l’ampiezza delle piazze, l’ordine e l’architettura delle case e dei palazzi, la vastità dei giardini di Palazzo Pitti, la grandiosità del Duomo, per poi sottolineare la gentilezza degli abitanti. A detta di Guzmán, Firenze gli stranieri “los admite, agrega, regala y favorece más que a sus propios hijos”. Oggi non mi sembra sia più così. E comunque fa un certo effetto leggere (oggi) di una città di oggi attraverso gli occhi di un autore (di ieri) puntati sulla stessa città così come appariva (allora).

C’è una finestra, al terzo piano, che resta sempre aperta, anche di notte. Solo che dentro non si vede mai nessuno (non a questa distanza, almeno).

Tutto intorno è buio. E stranamente, stanotte, soffia un vento caldo, pur essendo ancora pieno inverno. Ci sono solo due macchine, parcheggiate vicino all’ “Hotel President” e spero che siano di qualche dipendente. Perché io di turisti, qui attorno, non ne ho mai visti…né sentiti.

lunes, enero 19, 2009

Di che parla (o sembrerebbe parlare) INLAND EMPIRE: ovvero quante porte aprono i protagonisti nei film di David Lynch

 L’altra sera soffrivo d’insonnia e così mi è venuta la brillante idea di vedere l’ultimo film di David Lynch, INLAND EMPIRE, uscito nelle sale nel 2006, dopo anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. Di che parla INLAND EMPIRE? (N.B.: il regista vuole che il titolo del film venga trascritto – e pubblicizzato – a caratteri cubitali. Motivo? Non lo so. Bisognerebbe chiederglielo. Questa puntualizzazione, comunque, me ne ricorda un’altra: quella del titolo del romanzo di Tiziano Sclavi, Nero., con “punto” finale incluso… ma non divaghiamo). La domanda: “di che parla?” è mal posta, ogni qualvolta si parla dei film di Lynch; e questo non perché egli non sappia raccontare una storia con un suo inizio, uno sviluppo e il suo finale catartico (vedi: The Straight Story (1999), ovvero: Una storia vera, in cui, appunto, Lynch racconta la storia vera di quel vecchietto che decide di rivedere suo fratello dopo anni di silenzio e di reciproco astio e che, per portare a termine la missione, lo raggiunge (da solo) con una specie di motozappa attraversando mezza America dopo non ricordo più quanti mesi), ma perché, sin dagli esordi, egli ha manifestato una particolare predilezione per la rappresentazione dell’inconscio e degli incubi o sogni inquietanti di cui questo si nutre (vedi: Eraserhead, ovvero: La mente che cancella, un film del lontano 1978 con al centro della trama un giovane padre che, abbandonato dalla compagna, continua ad accudire il figlio, una specie di esserino a metà tra un neonato e un coniglio, che per tutto il film non fa altro che giacere su un letto emettendo un fastidioso e monotono ronzio o lamento da far tremare i polsi anche al più imperterrito degli amanti dei film di terrore). Chi ha già visto Strade perdute (del 1996) o Mulholland Drive (del 2001) sa a cosa mi riferisco; chi non li ha mai visti, e fosse curioso, beh, caro il mio potenziale spettatore dei film di Lynch, un consiglio spassionato: metti da parte la logica aristotelica, la logica narrativa, la consequenzialità spazio-temporale, la verosimiglianza e il principio di causalità (insieme a quello di non-contraddizione e a quello di identità) e abbandonati per un po’ all’irrazionale e al surreale, a mondi dove risulta complicato sapere chi fa cosa e dove e quando, esattamente, lo fa, oltre che perché la fa… Pensiamo anche solo all’incipit di un altro capolavoro lynchiano “doc”: quel Blue Velvet (1986), ovvero Velluto blu, che ha come attore protagonista quello stesso Kyle MacLachlan che impersonerà poi l’agente Cooper in Twin Peaks: una scolaresca attraversa la strada guidata da una amabile nonna-vigile; un fiammante camion dei pompieri cammina al ritmo della canzone anni 50 che dà il titolo al film, tutto è luce, splendore, e gioia di vivere, quando ad un tratto la musica (del geniale Angelo Badalamenti) cambia, si fa cupa, e la macchina da presa si abbassa sul prato fino a mostrarci un orecchio umano immerso nell’erba… Ecco, è così che funziona coi film di Lynch: quando tutto sembra preannunciare qualcosa di già visto (o già noto e prevedibile), ecco che qualcos’altro irrompe per distruggere ogni forma di tranquillità (e razionale e filmico-narrativa). Da lì in poi, Velluto blu diventerà una specie di indagine amatoriale condotta da MacLachlan intorno all’uomo che ha perso l’orecchio e una specie di discesa agli inferi intorno alla pulsione verso il male che ognuno di noi sente (o ha sentito almeno una volta) nel corso della sua placida vita da “persona per bene”.

Ecco, in parte è quanto succede anche in INLAND EMPIRE: solo che qui le irruzioni nel surreale e nell’anormalità avvengono sin dall’inizio e di continuo; il film dura quasi 3 ore, ma non si ha proprio mai il tempo per realizzare in quale fase dell’incubo (o del sogno inquietante) ci troviamo (e una volta entrati nell’ottica, posso assicurare che diventa davvero difficile: a) annoiarsi; b) staccare gli occhi dallo schermo; c) guardare il film con calma). C’è (anche qui, come in Mulholland Drive, o ancora, come in Strade perdute) un minimo di “storia” e di “trama”. E’ il plot principale che riguarda Niki (impersonata dalla bravissima Laura Dern, già attrice lynchiana sin dai tempi di Velluto blu), una donna di mezza età,  felicemente sposata, che riesce ad ottenere la parte in un film in cui si parla di un triangolo amoroso tra lui, lei e l’altro. Nei primi venti minuti del film capiamo anche chi sia il regista (Jeremy Irons) e chi l’altro attore chiamato a impersonare la parte dell’amante (Justin Theroux). E capiamo anche che il film, in realtà, non è basato su un soggetto originale, ma che è una sorta di remake di un film polacco che sembra non si sia mai riusciti a finire di girare per la morte dei due attori protagonisti. Un film “maledetto”, dunque, intorno a cui iniziano a circolare varie storie macabre; un film polacco, come polacca è la lingua parlata (e tradotta in didascalia) dalla coppia che apre il film in un iniziale bianco e nero (lei è una prostituta, lui un cliente; entrambi dal volto oscurato come si fa quando si censura un particolare anatomico). Ecco, mi diventa impossibile continuare a “parafrasare” o a “riassumere” il film. Di certo, questa è la storia (o trama) iniziale che Lynch ci presenta in quanto condannata a spezzarsi, a frantumarsi, a moltiplicarsi in mille altre storie a essa (più o meno) concatenate. Laura Dern inizierà a confondere il piano della realtà e quello della finzione fino a credere di aver tradito davvero il marito con l’attore che è suo amante sul set e fino ad avere degli incubi allucinanti.

Alla fine una cosa credo di averla capita; o almeno, credo di aver carpito almeno un aspetto importante di questo film che affascina e inquieta proprio perché “ci si entra dentro” (quando e se glielo concediamo) e “non si è più capaci di uscirne” (almeno fino alla scena finale): ogni volta che Laura Dern o uno degli altri attori del film aprono una porta, ebbene, allora quella porta condurrà in un altro film, in una storia secondaria, in un incubo o in un universo parallelo (è un po’ come Alice nel Paese delle Meraviglie). Per cui la domanda sensata da porsi davanti a un film di David Lynch dovrebbe essere questa: “quante porte aprono i protagonisti dentro i film di David Lynch?”. Esempio tratto dai primi minuti del film: una ragazza (che sembra - ma non è - la prostituta intravista in bianco e nero e dal volto “censurato” citata più sopra) piange mentre guarda seminuda la televisione all’interno di una camera d’albergo; in tv danno una sorta di sit-com o rappresentazione del teatro dell’assurdo in cui tre attori travestiti da “conigli” (una reminiscenza di Eraserhead? Ma sono poi davvero dei “conigli”? Hanno le orecchie dritte, ma il muso potrebbe essere anche quello di un altro animale, un cane, un gatto, un topo, etc.) dicono frasi senza senso, scatenando le risate del pubblico che intuiamo sia presente in sala. Uno dei “conigli” a un certo punto si alza; sembra abbia sentito qualcuno; apre la porta e scompare per poi riapparire all’interno di un hotel che sembra (ma forse non è) quello in cui si trova la ragazza che sta guardando la sit-com o rappresentazione teatrale surreale dei tre “conigli”…

Due le scene geniali che non posso non citare: 1 - quella in cui Laura Dern, accoltellata con un cacciavite da una donna misteriosa, si accascia a terra su un marciapiede di Hollywood e agonizza tra una coppia di giovani sbandati e una barbona di colore (è una scena straziante, mi fa tremare e mi commuove anche solo ricordarla e scriverne; la donna sta agonizzando, si tiene la mano stretta sulla ferita, vomita sangue, mentre la barbona, con cinismo e indifferenza le sussurra: “non ti preoccupare, signora, stai solo morendo”, e poco dopo la ragazza cinese accoccolata al fidanzato di colore ricomincia a parlare di discorsi assurdi con la barbona che ascolta attenta); e 2 - quella in cui Laura Dern pronuncia una frase che riassume il dilemma che la corrode dopo il tradimento ai danni del marito, rivolgendosi a Justin Theroux, e poi si ferma e dice: “sembra una delle frasi del nostro copione”… e per un momento anche noi spettatori non sappiamo più se quanto la donna sta dicendo appartenga al piano della finzione del film o se, invece, è parte del piano della “realtà” vissuta dall’attrice…

In sintesi: INLAND EMPIRE è un film che parla di film; è un film sull’erotismo insito nell’atto del guardare e del farsi guardare; è un film sulla possibilità di scivolare da un universo (noto) a un altro (apparentemente sconosciuto) senza sorta di continuità e provando i brividi che si sentono sempre al risveglio dopo un brutto sogno. Ed è anche uno dei miei film preferiti, perché fa 3 cose per me imprescindibili e le fa tutte e 3 contemporaneamente: fa commuovere, fa riflettere e fa paura.

 

P.S.: commento a caldo di una mia ex dopo la visione di Eraserhead: “No lo entiende ni su puta madre”; commento a caldo di mia cugina dopo la visione (al cinema) di Mulholland Drive: “Lynch: linciamolo!”; commento a caldo di mia madre dopo la visione (fugace e a una certa distanza dalla tv) di Strade perdute: “Ma che schifezza è? Cambia canale, per favore!”.

lunes, enero 05, 2009

Calle Muntaner

 

Para Mauro, por su abundante hospitalidad

 

La finestra è socchiusa e, nonostante le fronde degli alberi, si riesce a intravedere l’interno della stanza. Una bella libreria bianca, il televisore al plasma sulla sinistra e la poltrona verde sulla destra. Un’ombra cammina, da destra a sinistra, per poi fuoriuscire dal mio campo visuale, dal rettangolo della finestra, dall’inquadratura di un film muto che, ormai, va avanti da troppi giorni.

 

E’ notte fonda. La ragazza (sui venticinque anni) spegne la luce dell’abat-jour accanto alla poltrona. E’ seminuda. Spensierata. Ignora che qualcuno possa spiarla dall’appartamento di fronte. Mi sento in colpa, ma la tentazione è forte. Come si può evitare di guardarla? Chi potrebbe resistere a un simile regalo? Le foglie degli alberi stanno ingiallendo; la temperatura si è fatta più fredda. Vivo in questa casa da due anni. Calle Muntaner è diventata più lugubre negli ultimi tempi. Una signora anziana apre la porta d’ingresso e sparisce dentro l’oscurità.

 

Tremo all’idea di avvicinarmi al citofono. Non so come si chiama. Non ho nemmeno il suo numero di telefono. Sfoglio l’elenco telefonico come fosse un libro di magia nera che mi offrirà la formula per scovare il tesoro nascosto. Forse sto davvero diventando pazzo. Però… è così, non ci sono dubbi: basterebbe scoprire la scala, il numero dell’interno e poi incrociare il cognome con il nome della strada per dedurne anche il numero del telefono. Ogni tanto la sento ridere. Volevo dire: la vedo, mentre ride. Chissà con chi parla. E se è fidanzata. A volte balla da sola. Una volta mi ha visto. Ho gettato il fazzoletto per terra e mi sono allontanato immediatamente dalla finestra. Devo smetterla o mi denuncerà alla polizia. Uno psichiatra parlerebbe di voyeurismo. Devo smetterla di toccarmi quando lei balla o attraversa le sue stanze seminuda (reggiseno e mutandine, un culo all’insù e sodo, spesso indossa dei perizomi minuscoli, sottile striscia di tessuto sulla carne). Calle Muntaner è stranamente affollata oggi: due vecchiette col bastone attraversano sulle strisce pedonali a una lentezza snervante. Una mamma chiacchiera allegramente con la figlia piccola in divisa scolastica di rigore. La mia cara dirimpettaia ha da poco spento la luce. Un auto sta per tamponare un camion della spazzatura e si sente la frenata improvvisa all’altezza dell’incrocio. Fine dello spettacolo: chiudo persiane e finestra e mi metto a fumare in sala davanti a uno degli episodi più esilaranti della serie dei Soprano; quello in cui Tony Soprano teme di essere stato avvelenato da una spia al ristorante indiano. E vomita l’anima, mentre la moglie Carmela prova a tirarlo su di morale. Geniale.

 

Questa mattina sono andato a fare la spesa al Corte Inglés. Prezzi alle stelle. Barcellona non è più la stessa. Sembra che sull’intera città sia scesa una nube di polveri sottili che ha reso la popolazione più inerme e più idiota del solito. Una mia vicina di casa mi riconosce. Mi saluta, anche se cerco di evitarla nascondendomi dietro la pila dei detersivi.

“Ma ieri notte lei non ha sentito niente?”.

Rispondo di no, seccato.

“E’ venuta perfino l’ambulanza, non ha sentito le sirene? Ah, beato lei, che riesce a dormire, io ho il sonno leggero e se prima non prendo almeno una goccia di valeriana non riesco a chiudere occhio, sa?”.

Soffro d’insonnia dall’età di quindici anni. E’ per questo che sono costretto a prendere i sonniferi. Ieri sera, però, devo aver esagerato. Non un rumore. Non un sussurro.

La vicina ha avuto un malore. Era giovane, sui venticinque anni, bella e intelligente. Dicono frequentasse l’ultimo anno di Medicina; lavorava come praticante al Gregorio Marañon. Ha sbattuto la testa contro lo spigolo della vasca mentre faceva la doccia.

La vicina continua a parlarmi, ma è come se fosse muta. Parla e muove le labbra, ma io non sento più niente. Mi metto in fila e pago con carta di credito. Salgo le scale del palazzo a due a due. Getto la spesa alla rinfusa sul pavimento e afferro il binocolo. L’abat-jour è spenta. La poltrona verde è al suo posto. La tv è accesa. La ragazza è viva e vegeta. Balla al ritmo di chissà quale musica. Devo smetterla di dare retta alle farneticazioni di vecchie rincoglionite che non fanno altro che spettegolare dei fatti degli altri. Se mi disturba ancora con le sue storie un giorno di questi l’ammazzo. La faccio a pezzi e poi la carico sul carrello e la prezzo… Un prezzo diverso per ogni pezzo del corpo…

 

Oltre ai Soprano adoro Woody Allen. Sono andato al Cine D’Ors per vedere Vicky Cristina Barcelona. Troppo sdolcinato, troppo romantico e l’immagine che offre di Barcellona è troppo oleografica. Mi sono piaciuti molto gli sketch tra Javier Bardem e Penélope Cruz; loro due sì, sono bravi, fanno ridere quando litigano; sono due comici nati.

 

La ragazza si chiama Laura Rodríguez Pastorino. Ho incrociato i dati; ho scoperto la scala dall’ascensore (sì, l’ho seguita fino all’ascensore, facendo finta di essere il postino e infilando una copia sdrucita dell’elenco telefonico dell’anno scorso nella casella di un inquilino del primo piano). Calle Muntaner, 29, scala C, interno 12. Non è stato poi così difficile. E inoltre, se un uomo è dotato di buona volontà e sa portare pazienza, allora potrà realizzare ogni suo sogno, raggiungere ogni meta, non esisterà ostacolo che possa frenarlo. Ho il suo numero telefonico, lo so già a memoria: 914483196. Lo so a memoria e me lo ripeto mentalmente e, a volte, lo pronuncio a bassa voce, come in una litania. Ma non ho ancora avuto il coraggio di usarlo, ancora non l’ho chiamata. Laura. Ho il tuo numero. So chi sei. Sai chi sono? Pronto? Pronto? C’è nessuno?

 

Laura chiacchiera al telefono; potrebbe essere il fidanzato, l’amante, il marito, il collega dell’ospedale, il compagno di facoltà… Sorseggio il mio caffè di metà mattinata e mi diverto a spiarle le fossette che le spuntano quando ride di gusto alle battute di chissà chi. Poi squilla il telefono. E’ mio fratello, Mauro. Un tipo simpatico e schietto, ma ultimamente è troppo apprensivo nei miei confronti. Crede che da quando sono andato a vivere da solo in questo appartamento, subito dopo il divorzio, sia diventato troppo taciturno.

“Allora, come va il caso clinico? Da quanti giorni sei rinchiuso nella tua tana?”.

“Non dire cazzate, Mauro. Sono uscito ieri”.

“Sì, certo, per andare a comprare le sigarette o il giornale, o sbaglio?”.

“No, stupido. Sono andato al cinema a vedere l’ultimo di Woody Allen”.

“Hai visto la scena del bacio lesbico tra la Penélope Cruz e la Johansson?”.

“Era un trio, c’era anche Bardem in quella scena”.

“Sì, sono d’accordo, ma tutto ha inizio grazie al bacio lesbico, non ti pare?”.

Laura ha riattaccato. Mauro continua a fare lo scemo e a scherzare. Crede stia diventando un maniaco depressivo, un misantropo.

“Quando passi da queste parti?”.

“Non lo so. Ho molto da fare, ultimamente”.

Laura si alza e chiude le persiane. Spettacolo finito. Game over. Les jeux sont faites. Almeno per oggi.

“Scusa,  ma cos’hai da fare ? Non sei tu quello che è andato in pensione per godersi gli ultimi giorni che gli restano ancora da vivere prima di tirare le cuoia?”.

“Sì, ed è per questo che vado al cinema e che… ho molto da fare”.

“Non è che invece stai ancora pensando a lei?”.

“Tu Carmen la devi lasciare da parte, non la devi nemmeno nominare in mia presenza, capito?”.

 

Se Carmen sapesse cosa faccio, da questa finestra, col binocolo, mi sputerebbe in faccia e, molto probabilmente, avviserebbe sia Laura che la polizia.

Ma Carmen non mi conosce, non capisce, non mi ha mai sopportato.

Ed è per questo che ci siamo lasciati.

 

“In realtà è stata lei a mollarti. Non ce la faceva più e aveva le sue buone ragioni. Stavi diventando un maniaco ossessivo. Eri più geloso di Otello e Carmen ha fatto proprio bene a chiedere il divorzio”.

“Sei uno stronzo, Mauro, sappilo”.

Gli riattacco in faccia. Lo odio quando comincia a sproloquiare di cose che non conosce. Forse nemmeno mio fratello mi ha mai conosciuto veramente.

 

Estraggo dal lettore il dvd della sesta stagione dei Soprano. Ho letto su El País che James Gandolfini ha da poco divorziato dalla giovane e bella moglie tailandese. Si dice che fosse una tipa alquanto gelosa e che lo abbia tenuto a stecchetto. Prima delle nozze lo ha obbligato a seguire una dieta ferrea. E Gandolfini lo ha fatto: è dimagrito per lei di sedici chili.

Quanta fatica sprecata.

 

Sono le 2,36 del mattino e Laura è da poco rincasata. Indossa un vestito nero molto elegante e pieno di trasparenze. Deve aver fatto bisboccia. Si slaccia il reggiseno. La chiamo:

“Pronto?”.

Cosa posso dirle? Mi sono innamorato di te, Laura; tu non sai chi sono io, non mi conosci, ma io ti ho vista milioni di volte e mi piaci tanto. Cosa dire per non suonare falso e retorico? Vuoi sposarmi, sono un tuo fan da molti mesi, ormai, cosa ne pensi?

Cosa dire?

 

Ho riattaccato. Laura chiude le persiane. Calle Muntaner è bagnata. Ha piovuto e io non me ne sono accorto, concentrato com’ero a non dire nulla a Laura. Non mi sono reso conto delle condizioni climatiche esterne. Ero troppo concentrato.

 

“Ma come, non mi dica che nemmeno ieri notte non si è accorto di nulla! Sono arrivati anche quelli delle Forze Speciali, non ha sentito niente?”.

Di nuovo lei, la pettegola, la vicina di casa, la signora Trejo. Questa volta siamo dal tabaccaio. Ora le do fuoco. Anzi, meglio: prima la strozzo, poi la cospargo di benzina e infine la illumino a giorno come fosse un albero di Natale…

“No, dormivo, non mi sono accorto di niente, signora Trejo, chi è che è venuto sotto casa?”.

“Le Forze Speciali, non le ha viste?”.

Ignoro cosa siano queste Forze Speciali. Saluto con sguardo cattivo la mia cara vicina di casa e torno su. Afferro il binocolo. Laura è distesa sul divano, sembra che stia dormendo. Squilla il cellulare. E’ ancora lui, Mauro. Non ho voglia di starlo a sentire. Non ho voglia di riparlare del mio divorzio e di Carmen. Non è tutta colpa di Carmen, accidenti. Ora è colpa di Laura. Non riesco più a toccarmi. Il fazzoletto sporco giace accanto al posacenere. Sperma ingiallito e mozziconi di sigaretta. Polvere siamo. La chiamo di nuovo. Laura si sveglia di soprassalto e solleva la cornetta con lentezza, è tutta spettinata (Laura, non la cornetta), ha ancora il segno del cuscino sulla guancia:

“Pronto?”.

“Laura?”.

“Sì, chi è?”.

Non ce la faccio. E’ più forte di me. Riaggancio. Laura urla o dice qualche parolaccia contro la cornetta. Forse sto esagerando. Potrebbe farsi mettere il telefono sotto controllo. Potrei essere scoperto dalle microspie delle Forze Speciali. Eppure ieri notte ero sveglio, non ho preso le solite pasticche, perché non ho visto né sentito niente?

 

Faccio colazione davanti al tg. Apro la pagina di cronaca nera del giornale e leggo della morte della mia vicina di casa, la signora Trejo. Si è suicidata gettandosi dal quarto piano del mio palazzo, due piani sotto di me. Ma come mai non ho visto né sentito niente? Dov’ero, quando la poveretta si è gettata nel vuoto sfracellandosi contro l’asfalto?

 

E’ ancora Mauro:

“Carmen ti amava, Luis, e tu l’hai fatta impazzire per colpa della tua gelosia ossessiva. Devi farti curare, non puoi continuare così, potresti farti del male”.

“Tu sei pazzo, Mauro”.

 

Alzo la cornetta. La chiamo. Laura non si vede in giro e non risponde. Scendo di corsa le scale. Ho la strana sensazione che le sia successo qualcosa (non vorrei che facesse la fine della signora Trejo; dalla finestra si vede la tv accesa, ma la poltrona è vuota e ci sono dei vestiti eleganti sparpagliati per terra, nessuna traccia della fanciulla).

Il portiere del palazzo mi intercetta all’ingresso e mi ferma:

“Dove sta andando?”.

“Mi scusi, abito qui di fronte, al sesto, quello lassù è il mio appartamento. Vorrei salire dalla signorina Rodríguez Pastorino, la studentessa di Medicina, per favore. Sono un suo vecchio amico. L’ho chiamata prima e non mi risponde. Non vorrei le fosse successo qualcosa di grave”.

Il portiere mi fissa con freddezza e si gratta la testa.

Mi chiede se sono sicuro che in quel palazzo abiti la signorina Rodríguez Pastorino.

“Certo che sono sicuro”.

“A che piano?”.

“Al sesto, scala C, interno 12”.

Il portiere smette di grattarsi la testa:

“Ci deve essere un errore, signore. In questo palazzo non esiste nessuna scala C e non c’è nessun inquilino che risponda al nome della persona che va cercando”.

Non lo degno di un cenno di saluto. Gli volto le spalle e risalgo su al sesto. Afferro il binocolo, ma di Laura nemmeno l’ombra. Calle Muntaner si riempie di gente allegra e festosa. Non mi ero accorto degli addobbi natalizi e delle illuminazioni nei negozi. Tra poco è Natale e saremo tutti più buoni. Forse chiamo Carmen e le chiedo scusa per tutto. Forse richiamerò anche Mauro. Dopotutto, è mio fratello e non merita un trattamento del genere.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...