viernes, marzo 27, 2009

Le "virgolette" (un errore che ho commesso anch'io - a volte, inconsapevolmente) secondo il filosofo Giorgio Agamben:

"Che significa, infatti, mettere una parola fra virgolette? Con le virgolette, chi scrive prende le distanze dal linguaggio; esse indicano che un certo termine non è preso nell'accezione che gli competerebbe, che il suo uso è stato stornato (citato, chiamato fuori) da quello abituale, ma non completamente reciso dalla sua tradizione semantica. Non si vuole o non si può più usare semplicemente il vecchio termine, ma nemmeno si può o si vuole trovarne uno nuovo. Il termine virgolettato è tenuto in sospeso nella sua storia, è pesato - quindi, almeno embrionalmente, pensato.
Di recente è stata elaborata una teoria generale della citazione ad uso delle università. Alla consueta irresponsabilità accademica, che chiede di poter maneggiare, estrapolandola dall'opera di un filosofo, questa pratica vischiosa, occorre ricordare che la parola chiusa fra virgolette aspetta solo il momento di vendicarsi. E nessuna vendetta è più sottile e ironica della sua. Chi ha messo una parola fra virgolette non può più liberarsene: sospesa a mezz'aria nel suo slancio significante, essa gli diventa insostituibile - o, piuttosto, è ora, per lui, assolutamente incongedabile [...]. Nel cerchio che le virgolette stringono intorno al vocabolo è rimasto chiuso il parlante".

Giorgio Agamben, Un'idea della prosa, Macerata, Quodlibet, 2002, pp. 89-90.

sábado, marzo 14, 2009


Elogio dei libri: il Philobiblon di Riccardo da Bury

Libro strano e curioso quello che ho trovato quasi per caso l’altro giorno alla Feltrinelli di via de’ Cerretani… Mi ha attratto subito il risvolto di copertina, lì dove Petrarca afferma che “nessuno aveva più libri di lui”. E chi era mai questo Riccardo da Bury da indurre il “poeta laureato” ad un’affermazione del genere? Era niente meno che il vescovo di Durham, amico e fedele alleato del Re britannico Edoardo III e custode, oltre che promotore, della biblioteca della (già allora) famosa Università di Oxford (tra le prime Università fondate nel Medioevo, insieme a quelle di Parigi, Bologna e Salamanca). Il trattatello è una vera e propria lode scritta in onore dei libri e una sorta di giustificazione a posteriori da parte dell’autore per spiegare le ragioni profonde della sua mania per i libri e per la conservazione e collezionismo degli stessi. In pratica, Riccardo da Bury scrisse sia per spiegare l’altissimo valore morale e spirituale che tutti possiamo riconoscere nella pratica della lettura sia per difendersi dagli attacchi delle malelingue che, all’epoca, si erano propagate in relazione alla sua biblioteca immensa e alle sue spese per acquistare libri da ogni parte del mondo conosciuto. L’autore chiude l’opera confessandoci che terminò di scriverla il 24 Gennaio del 1344. Di lì a poco sarebbe morto, lasciando per sempre questa valle di lacrime e affidando ai posteri la sua collezione privata nata per il bene comune e l’edificazione spirituale dei suoi studenti e di tutti coloro che si fossero avvicinati ai libri con amore e rispetto.



Il cap. I riserva subito una grata sorpresa: l’idea che la letteratura sia un modo per continuare a far vivere il passato e, dunque, in certo qual modo, che essa permetta il dialogo coi morti (vedi W.G. Sebald et similia), è espressa nel modo più chiaro e limpido possibile (il lettore essendo spinto a riflettere anche sullo stretto legame che c’è tra “lettura” come “lotta contro l’oblio” e “scrittura” come “strumento atto sia a riflettere sul passato che a ipotizzare il futuro”):

Nei libri ritrovo vivi i morti, nei libri prevedo il futuro, nei libri trovo le geometrie dell’arte bellica e dai libri escono le leggi della pace. Nel tempo tutto si consuma e marcisce e Saturno non si stanca di divorare i suoi figli: l’oblio seppellirebbe ogni gloria terrena se Dio non vi avesse posto rimedio inventando i libri (p. 37, dell’ed. Rizzoli, Milano, 1998, a cura di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri).

Una seconda immagine icastica del potere dei libri segue poche righe dopo, quando Riccardo da Bury ci illustra in che modo i libri siano “liberali” e rendano “liberi”:

Riflettiamo […] su come nei libri il sapere sia a portata di mano, quanto sia semplice e misterioso insieme; con quanta tranquillità, senza falsi pudori ci spogliamo davanti a loro della nostra ignoranza. I libri sono maestri che ci educano senza bacchetta né verga, senza strepiti né rabbia e non voglion favori né soldi! Se ti avvicini loro, non dormono e non sfuggono se li interroghi per sapere! Non ti riprendono se sbagli e non ti ridono in faccia per la tua ignoranza! O libri! Soli liberali e liberi, voi che date a chiunque chiede e che rendete liberi tutti quelli che vi hanno serviti con serietà e onore (id., p. 41).

Non deve allora sorprendere se, a partire dal cap. IV, sono i libri stessi a prendere la parola, personificati, e a lamentarsi in prima persona (del plurale) contro i “chierici degeneri”, ossia, contro tutti quegli uomini di Chiesa che salgono in cattedra, ricoprendo le più alte cariche ecclesiastiche, senza aver prima “digerito” le varie letture e, soprattutto, dimenticandosi che se sono arrivati in alto lo devono solo ed esclusivamente ai libri. La polemica ritorna nel cap. IX (“Come non si devono condannare gli studi dei moderni (anche se si amano di più i libri degli antichi)”), lì dove depreca tutti quei chierici che sfruttano la conoscenza per sete di potere e ambizioni di stampo prettamente materialista (e dietro certe frasi, quanti professori universitari si possono scorgere oggigiorno, quanta attualità in simili esternazioni!):

Questi chierici ancora con il latte sulle labbra, senza alcuna decenza ottengono immeritata la docenza di più facoltà, e salgono in cattedra non con la dovuta cautela di un passo misurato, ma saltellando come le capre! [ricordate la Gelmini, natia di Brescia, che prese la residenza temporanea a Reggio Calabria, ben conscia del fatto che laggiù è molto più facile passare l’esame di stato da avvocato? E cosa fa ora la Gelmini? Non l’avvocato, no, né il giudice né il notaio… è la nostra brava Ministro dell’Istruzione!]. Non hanno ancora assaggiato il grande fiume [del sapere], intingendovi appena le labbra, che credono di averlo giù gustato in fondo; e poiché non hanno voluto sprecar tempo a imparare le cose elementari, costruiscono pericolanti edifici destinati a crollare quanto prima. Ormai cresciuti, è una vergogna che debbano mettersi da adulti a imparare quello che avrebbero dovuto conoscere prima, e così sono costretti a scontare per sempre la loro carriera precoce sì, ma immeritata (p. 131) [e quanti ne ho conosciuti di ricercatori – in ambito umanistico – che disconoscono l’uso del congiuntivo! O che fingono di aver letto Aristotele e Platone quando non sanno nemmeno cosa significhi “peripatetico” o “parmenideo”!].

Ciò che colpisce di questo stesso capitolo è il fatto che la famosa questione des anciennes et des modèrnes fosse già attuale (e dibattuta) nel 1344… Già allora, loro, giustamente, si consideravano “moderni” rispetto a Ovidio e Omero o a Virgilio e Tacito. E già allora si domandavano su chi fosse più bravo… Riccardo da Bury non ha dubbi: sarà che gli antichi “studiavano di più”, sarà che “fossero dotati di sensi più acuti” fatto che sta lui, pur non condannando i “moderni”, apprezza di più (e si schiera dalla parte) degli “antichi” [una studentessa mi chiese via email perché nei programmi universitari attuali non comparissero mai o solo raramente corsi dedicati ad autori contemporanei; le risposi citandole Italo Calvino: “si studiano i classici perché sono libri che non hanno smesso di dire quel che avevano da dirci” e “non si studiano i contemporanei” perché, ahinoi, molti docenti soffrono di codardia o sono fin troppo incerti e insicuri nel momento in cui si tratta di usare l’intuito e l’azzardo – gli unici mezzi per poter fiutare il “classico del futuro” e poterci costruire sopra un discorso critico che aspiri alla scientificità; poi è ovvio che si può sbagliare, ma il “sale” della ricerca dovrebbe essere anche questo; intuito e azzardo; un po’ di immaginazione, accompagnata sempre dalle regole della filologia e del rispetto per la “littera” del testo, antico o moderno che esso sia].

Nel cap. XV, invece, trovo l’ennesimo elogio iperbolico, e mi viene in mente la parte finale di 2001: Odissea nello spazio (la scena in cui David Bowman finisce dentro il vortice di colori, “verso l’infinito, e oltre”):

Libri! Compagni divertenti delle giornate limpide, conforti insostituibili nei fortunali della sorte avversa. […] Quanta la loro forza, […] se solo si pensa che grazie a loro si possono scorgere i confini dello spazio e del tempo e possiamo riflettere sulle cose inesistenti non meno che su quelle che esistono, come in uno specchio dell’eternità! Scaliamo le vette, esploriamo le profondità degli abissi e nei codici vediamo specie di pesci che la nostra atmosfera non potrebbe neppure contenere; nei libri raccogliamo con ordine le caratteristiche dei fiumi e delle fonti proprie di ogni terra [...]. Con i libri possiamo far visita agli abitanti dei cieli […] su, fino a perderci nello spazio fino al firmamento ornato di segni, di gradi e di ogni varietà immaginabile di figure; eccoci con gli occhi aperti sulla Galassia e lo zodiaco dipinto di animali celesti. Via, arriviamo ora, portati dai libri, ancora più su fino alle sostanze separate, così che l’intelletto possa salutare le intelligenze sue simili e scorgere con l’occhio dell’infinito potere della mente la causa prima e immobile, e grazie all’amore si unisca a Lui per sempre. E giunti fin là con l’aiuto dei libri, visto che siamo ancora viandanti in questo mondo, assaggiamo la ricompensa della nostra beatitudine (pp. 169-71, corsivi miei).

Insieme a questi “voli ulissiaci”, il libro è pieno di consigli pratici: su come comprare a miglior prezzo; su come farsi aiutare nel riunire libri che si trovano in monasteri o chiese lontane; su come leggere e trattare i libri e come riporli negli scaffali una volta letti. In tal senso, il cap. XVII è il più “comico” e divertente. Riccardo da Bury elenca i peggiori vizi di certi suoi alunni; li depreca quanto lasciano cadere pezzi di cibo o resti di frutta dentro le pagine dei codici; o quando si mettono a leggere, senza soffiarsi il naso sgocciolante; li sgrida quando si accingono ad aprire le candide pagine con mani sudice o unghia sporche. Ha proprio ragione il vescovo di Durham: se i libri sono i custodi della sapienza, dobbiamo sfogliarli con riverenza e come se la lettura fosse un atto d’amore. Quindi ragazzi attenti la prossima volta che trattate male un libro, perché (p. 185) “I libri non sono scarpe, bisogna averne più cura, molta di più”.

Insomma, una lettura amena e che consiglierei a tutti quei docenti che si occupano di letteratura o di materie umanistiche. Oggi non si legge quasi più in classe; o almeno, si legge poca letteratura. E questo è un male che sconteremo in futuro tutti, se non vogliamo che l’ignoranza e la dittatura prevalgano. Ipse dixit. Amen.

martes, marzo 10, 2009


Magic moments (o moments of being)

E' inutile, mi ricapita sempre, ogni volta che torno a Roma mi viene voglia di restarci per sempre, è una città che ormai mi ha conquistato "de por vida" (vita natural durante), non ci posso fare niente, è così, l'accetto, è un dato di fatto che (lo) si può (solo) accettare... (Roma non è una città, ma uno stato d'animo)...

Ascoltavo un brano di Bob Dylan l'altra sera, un pezzo che fa parte della colonna sonora di The Big Leboswki (dei fratelli Coen e con il bravissimo Jeff Bridges nel ruolo più "freak" che ad attore sia mai capitato), una canzone che parla di "take a woman like you", sdolcinata e melodica, anche un po' triste, per quanto riuscissi a capirne, "what a wonderful feeling, just to know that you are here", insomma, roba così, che poi a me Bob Dylan nemmeno mi fa impazzire più di tanto, comunque, ero lì, che camminavo dalla Stazione Termini, saranno state le 23,30 quando, alla fine di via Gioberti, mi ri-imbatto nella facciata maestuosa di Santa Maria Maggiore, una delle quattro basiliche di Roma (insieme a San Pietro, San Giovanni in Laterano e San Paolo Fuori le Mura) ed è sempre una sensazione di meraviglia quella che mi coglie, davanti a tante statue in marmo su in cima alla facciata, gli apostoli o i papi bloccati per l'eternità in atto di preghiera o con le mani stese a benedirti (anche se magari te non sei credente, perchè "Grazie a Dio sono ateo", come disse Luis Buñuel prima che la frase venisse sputtanata e stampata sulle magliette), con quelle teste piccole che sorreggono la mitra enorme, con quegli sguardi che, anche a distanza, non possono che apparire leggermente incazzati e fin troppo austeri... Ah, Santa Maria Maggiore...
...una volta, tanti anni fa, ci entrai per pregare, pregai un padre nostro o un'ave maria, ora non ricordo con esattezza, il punto è che ci entrai, mi feci il segno della croce per invocare l'aiuto divino, pregavo Dio affinché mi facesse passare il primo esame difficile, era il primo scritto d'inglese, sì, era lui, era difficilissimo superarlo, e me lo sentivo ed era per quello che, addirittura, arrivavo a scomodare gli Stati Maggiori, pur sapendo di essere un peccatore, volevo chiedere ipocritamente la grazia e, ovviamente, l'esame andò male, mi bocciarono e per lo sconforto volevo suicidarmi, sì, e Roma mi accompagnava, mi cullava con il suo traffico caotico e stressante, con le sue strade sporche, mentre io avevo già deciso tutto, scesi alla fermata del laghetto dell'EUR, cioè, mi volevo buttare nel lago e morire per affogamento, che pensieri romantici, che giovane di belle speranze che ero all'epoca (e ovviamente anche il tentativo di suicidio andò in vacca, mi fermai al McDondald che stava nei pressi del laghetto e mangiai un gelato da poche lire (all'epoca c'erano ancora, quanto costava? 500 o 1000 lire?)...


Attraverso Via Merulana, passando davanti alla lapide in cui è scritto che "qui Carlo Emilio Gadda ambientò il suo Quer pasticciaccio brutto dell'omonima e famosa), e decido di farmi a piedi tutta Via Cavour per andare a rivedere il Colosseo, ah, il Colosseo, la maestà der Colosseo, la santità der Cupolone, le pietre secolari che giacciono placide nei Fori Imperiali, le varie chiese e chiesette che spuntano in mezzo all'antichità e agli alberi e alle palme (non capisco ancora come, ma qui intorno è pieno di palme), e i gabbiani, ah, i gabbiani che volano sopra l'Altare della Patria (sarà pure un monumento mussoliniano, ma quanto mi piace la geometria dell'Altare della Patria, questa grossa macchina da scrivere "fascista" che ispirò quel film assurdo a quel matto di Peter Greenaway, oddio, come si chiamava quel film, ambientato proprio "dentro" o "sopra" l'Altare della Patria di Piazza Venezia?). E quanto coraggio ci vuole per attraversare Piazza Venezia? E' immensa, è sempre trafficata, come ogni strada de Roma, d'altronde...

...E mentre Bob Dylan mi culla (ormai ascolto la canzone a ripetizione), faccio un salto a Largo Argentina, già che ci siamo, e poi cammino per Corso Vittorio Emanuele II, fino all'incrocio con Via del Paradiso, ah, Via del Paradiso (solo Roma poteva contenere dentro le sue viscere, dentro di sè, nel suo reticolato di strade, una via che si chiama Via del Paradiso), un po' stretta, piena di baretti, puzza anche un po' di urina e spazzatura, ma mi ci infilo dentro, e la percorro col sorriso sulle labbra, mentre quello canta "take a woman like you", perché so dove finisce, so che sbocca su Campo de' Fiori, ah Campo de' Fiori, quante birre ci ho bevuto da giovane, di sera, da giovane studente universitario fuori sede e fuori orario, e quanti gelati ci ho mangiato, quante gelaterie artigianali e quanti pub e pizzerie e gente che passeggia beata e tranquilla, a ogni punta estrema della piazza del Campo ci sono due fontanelle dalle quali è possibile bere, ah, le fontanelle pubbliche di Roma, ah, l'acqua di Roma, che è l'acqua più bona che c'è!

Sono qua, e che nun gliela faccio un salto a Trastevere? Non ci vado a guardare l'isola Tiberina? (Quell'isola mi fa venire in mente una delle scene più toccanti girate da Nanni Moretti, quando, in Aprile, passeggia da solo in su e in giù, sulle grosse piattaforme di marmo, davanti al Bambin Gesù, in attesa che la moglie metta al mondo il loro bambino, il primo figlio, e lui cammina in su e in giù, con tutta l'ansia del momento e poi, quando nasce, prende la solita vespa e mentre l'Italia festeggia la vittoria di Romano Prodi alle elezioni, lui urla, tra le bandiere rosse: "Quattro kili e duecento grammiiiiii!!!!")...


...e poi ci sarebbe Via della Conciliazione e le mura circolari di Castel Sant'Angelo, oddio, ma come si fa a riguardarla tutta, una città immensa come Roma? E piazzale Clodio (dove andavo a prendere i cornetti caldi per una matta con la fissa per i cornetti al cioccolato - ma caldi) e viale Mazzini, col cavallo della Rai, e dall'altra parte lo stadio Olimpico, e la salita della Via Gianicolense, ah, il Gianicolo, che vista che si gode da lassù, che aria, che cielo, che sole, che passeggiate nel verde dalla terrazza de Roma capoccia! E quanta, quanta nostalgia di questo locus...

martes, marzo 03, 2009


Ai confini della realtà

Tre anni or sono, un mio vecchio amico (ed ex-collega) mi regalò i primi 50 episodi in dvx di The Twilight Zone, serie di culto nell’America degli anni 50 e 60. La serie è apparsa anche sui teleschermi italiani, col titolo “Ai confini della realtà” (quando la traduzione letterale sarebbe stata meglio, essendo “La zona del crepuscolo” titolo ben più efficace e attinente all’originale – tra parentesi, “La zona del crepuscolo” è anche il titolo di uno degli albi “storici” di Dylan Dog, il n. 7). Il successo della serie continuò anche nel corso degli anni 70, fino ai primi anni 80, quando registi del calibro di Steven Spielberg e John Landis (insieme a Joe Dante e George Miller) le resero omaggio con l’omonimo film a episodi (uscito nel 1983). Sono molti gli episodi che mi colpiscono o che mi turbano, lasciandomi una sottile sensazione di angoscia esistenziale; uno dei miei preferiti resta quello che s’intitola “Tempo di leggere”. Vi si narra la storia di un impiegato di mezza età, infelicemente sposato, e con una smodata passione per la lettura. Legge tanto e di tutto, anche in banca, dove lavora e subisce le minacce quotidiane di licenziamento da parte del capo (il nostro eroe è troppo distratto con i clienti, troppo “sperduto” tra le sue letture, per prestare la dovuta attenzione al denaro e ai conti – che non tornano mai).

Il tono dell’intero episodio è cinico. Una riprova: la scena in cui il nostro povero impiegatuccio torna a casa e scopre che la moglie gli ha rovinato una copia di un libro (un saggio o un’antologia di poesie, ora non ricordo bene) scarabocchiandone tutte le pagine a penna. L’uomo si dispera e piange. E le domanda perché; perché tanto odio e tanta cattiveria? (e allo spettatore, anche a quello meno affezionato alla lettura, verrebbe davvero voglia di strangolarla, la faccia da schiaffi della moglie arpia).

Fin quando non succede l’impensabile: un’esplosione atomica distrugge e rade al suolo ogni cosa. Il nostro impiegatuccio diventa l’unico sopravvissuto, l’ultimo uomo sulla Terra (è anche il titolo del n. 77 di Dylan Dog). Che fare al posto suo? Come occupare il tempo, in mezzo a una desolazione universale? Oltre a nutrirsi e a dormire (e a passeggiare tra le macerie), il protagonista non sa con chi parlare, se non con se stesso (con il conseguente rischio di impazzire). Fino a quando non si trova a passare davanti alla Biblioteca Nazionale e lì, sulle scalinate, s’imbatte nella sua possibile salvezza: mucchi di libri e di scaffali ricolmi di carta stampata. L’omino urla di gioia, c’è di tutto, e ha tutto il tempo per leggere: l’opera omnia di Shakespeare, tutti i romanzi di Dickens, di Swift, di P.D. Woodhouse gli appaiono come l’ultima speranza, un modo per attendere la morte col sorriso sulle labbra (un modo per comunicare con i morti, con quelli che ci hanno preceduto ma che ancora continuano a parlarci, a distanza, attraverso la scrittura).

Ma il tono dell’episodio è cinico (l’ho già detto). E cosa accade a questo punto? Che mentre sta per aprire il primo tomo e sfogliare la prima pagina, l’omino fa cadere gli indispensabili occhiali da miope, vanificando ogni possibile tentativo di salvarsi attraverso la lettura. Il nostro omino non può che constatare la catastrofe. Scoppia a piangere e si chiede perché… perché tanta sfortuna… perché tanta disgrazia.

Accanto ai libri trovati per terra, l’omino trova un orologio che, ovviamente, non segna più le ore. Il tempo si è fermato. Forse per sempre. D’altronde, anche se quell’orologio continuasse a funzionare (e le sue lancette a girare), non servirebbe a nulla. Che senso ha lo scorrere del tempo quando il solo destinatario dello stesso scorrere è soltanto un singolo, povero omino? Che senso avrebbero gli orologi dell’intero pianeta, se sulla Terra fosse rimasto solo un uomo?

Ecco che i libri (ovvero la lettura: ovvero la letteratura) si presentano come un “tempo altro”, strumenti che misurano un altro tipo di tempo e che, soprattutto, ci permettono di evadere dal nostro (da quello segnato e indicato dagli orologi). Togli i libri, distruggi le biblioteche, elimina la carta stampata, e non ci resta altro che la nuda terra e il nudo scorrere di un tempo “senza direzione” e, quindi, “senza senso”. Non solo i libri “riempiono” di senso il nostro “esserci” (nel tempo), ma danno anche una direzione “nuova”, per così dire “aperta” (e imprevedibile; ancora meglio: “imprevedibile perché aperta”) al tempo che (ci) li contiene. Togli i libri, insieme al tempo, e all’ultimo uomo sulla Terra non resta che darsi la morte per evitare di impazzire nell’attesa che l’Oscura Signora se lo venga a prendere da sola. L’attesa è troppo lunga; e troppo snervante per poter trovare una soluzione “pacifica” al problema… o no? Come potrà vivere ancora il nostro amico lettore? Come passare tutto quel tempo? Non lo sapremo mai; o forse, lo sapremo solo quando anche noi finiremo “in una dimensione senza limiti, come lo spazio, e senza tempo, come l’infinito, la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere, una regione che potrebbe trovarsi… ai confini della realtà”. 

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...