martes, junio 30, 2009

Fantasmi nella distanza

Il caso (o una serie di coincidenze o il destino o il fato o Dio o non so chi) ha voluto che, la settimana appena trascorsa, ricevessi notizie da alcuni dei miei migliori amici d’oltreoceano o che abitano in terra iberica. E così, senza volerlo, per telefono, sono venuto a sapere da Mauro (l’amico uruguaiano che attualmente vive a Madrid) che è diventato padre l’8 Maggio scorso… Mauro padre: che notizia! Mi aveva messo al corrente della sua vita sentimentale alquanto movimentata nel Novembre del 2008, quasi 8 mesi fa, l’ultima volta che ci siamo visti nella “Corte y Villa” e mi aveva raccontato di una storia d’amore travagliata con quella stessa fanciulla avvenente che poi sarebbe diventata (ma all’epoca non lo sapeva ancora) la madre di Bruno, suo figlio… E nel mezzo, un paio di altre storie poco chiare, intrallazzi vari con studentesse universitarie conosciute una sera in discoteca e poi riviste in locali notturni del centro, una barista argentina cui deve dei soldi (che chissà se avrà mai ricevuto), un’altra, una tipa di Mallorca, con cui ha avuto solo un rapporto di sesso veloce e via, niente di sentimentale, certo che è uno scoop e lascia esterrefatti sapere che Mauro, proprio lui, ha messo la testa a posto, e adesso si occupa (e si preoccupa) di Rosario, la sua attuale compagna, gelosa e alquanto isterica (ma chi non lo sarebbe affianco a un tipo come Mauro, attraente, sempre sorridente, sempre pronto a dare una mano, gran spendaccione e incallito dongiovanni?), ovvero la madre (attuale e per sempre, si suppone) di Bruno, il suo piccolo figlio di appena un mese di vita e pochi giorni, chissà com’è questo Bruno, mi domando e dico, ho anche chiesto a Mauro di spedirmi una foto via email, ma mi dice che ultimamente ha pochissimo tempo per vedere internet, è troppo incasinato tra lavoro, pannolini e Rosario che continua a essere gelosa, d’una gelosia che spaventa, chissà come sarà mai questo bambino appena nato e come crescerà con un padre così bravo e così simpatico come Mauro…

E poi, subito dopo la chiamata di Mauro, arriva l’email di Luciana, la mia antica coinquilina, la mia compagna di studi peruviana; io e Luciana abbiamo condiviso una casa in Calle Ortega y Gasset, una delle zone più ricche e snob di Madrid, ora io sono qui, in un paese in declino e in crisi aperta come l’Italia, e lei è tornata a Trujillo, a circa 550 chilometri dalla capitale; fa la maestra, insegna ai bambini dai 4 ai 9 anni a leggere e a scrivere correttamente, mi scrive che è stanca, che è difficile educare dei bambini così piccoli, si annoiano subito se a lezione non t’inventi qualcosa, una storia, un gioco, una rappresentazione scenica, è impossibile tenere desta la loro attenzione così labile per più di dieci minuti a lezione, e allora lei prova a farli sorridere con la sua verve, Luciana sa raccontare bene le storie, anche quando le chiedevo semplicemente: “Allora, com’è andata oggi?”, lei cominciava dall’inizio, ab ovo, come dice Lázaro de Tormes in quel romanzo della metà del ‘500, e allora diventava impossibile liberarsi di lei per i seguenti trenta minuti, era in grado di tenerti incollato al suo racconto orale della giornata appena trascorsa inframmezzando il tutto con aneddoti di ogni tipo, e mi manca Luciana e mi fa tenerezza quando mi dice che anche lì, da loro, si sente la crisi (dovrà chiedere dei soldi in prestito a sua madre per comprarsi un nuovo computer, il suo portatile è fuso, e non ha uno stipendio tanto alto da potersi permettere da sola un simile lusso, vedremo…).

E nemmeno a farlo apposta, due giorni dopo l’email di Luciana, mi arriva quella di Veronica, la mia amica argentina, che vive ancora a Madrid (anche lei, come Mauro, nella stessa capitale; una sera li ho fatti conoscere, si sono stretti la mano, si sono subito piaciuti, poi non so cosa è successo quando sono tornato in Italia, a Pisa, e sono rimasto l’unico ponte tra di loro, una specie di fantasma benigno che avrebbe potuto legarli anche a prescindere dalla mia presenza sul “campo”, chissà perché poi non si sono più incontrati, sembravano due tipi davvero molto compatibili…). Ricordo a memoria il suo indirizzo, vicino alla Ronda de Atocha, a due passi dalla stazione centrale. Mi racconta del suo attuale stato d’animo in rapporto al suo fidanzato; lei non si è sposata, e non ha alcuna intenzione di farlo. E’ piuttosto il suo compagno a voler fare il grande passo, sogna una casa tutta per loro e vorrebbe avere almeno 3 bambini, ma Vero non se la sente, è una tipa molto indipendente, lei, non sopporta che qualcuno possa dirle cosa deve e cosa non deve fare, lei è un tipo di donna come ce ne sono poche al mondo, attualmente, una che si è fatta le ossa e se le è rotte sempre da sola, facendo affidamento sempre e solo su se stessa, e quindi odia andare la domenica a pranzo dai genitori di lui, non sopporta dover fare da mangiare quando lui è a lavoro e lei magari ha il giorno libero, non sopporta la schiera dei parenti i cui compleanni vanno sempre festeggiati, e così nutre dei forti dubbi anche sulla sincerità dell’amore che prova per il suo ragazzo, e alla fine mi pone una domanda che mi ronza in testa dal giorno in cui anche Roberto (il mio migliore amico romano) me l’ha posta una sera, diversi anni fa, davanti alla tv, mentre sua moglie era in camera da letto che dormiva e io e lui finivamo di fumarci una canna guardando il Maurizio Costanzo Show: “Ma secondo te perché smettiamo di scopare quando ci accasiamo?”. E la domanda di Veronica è simile, anche se espressa in spagnolo: “Sono 4 giorni che non facciamo sesso, io non capisco perché, da quando siamo venuti in questo appartamento a convivere, non c’è più la stessa passione e la stessa carica sessuale d’una volta, perché?”. E certe volte me lo domando anch’io e non so proprio cosa rispondere a Vero, non lo so, sembra come se la passione (sessuale e d’altra forma) non vada affatto d’accordo con l’amore quotidiano, quello sancito da un matrimonio o da una convivenza di anni, come se fosse impossibile farlo allo stesso modo di quando ancora non ci si conosce abbastanza, quando il corpo dell’altro è tutto ancora da esplorare, quando anche baciare l’altro diventa un’impresa e ci batte forte il cuore perché sentiamo che potremmo sbagliare l’approccio e l’altro potrebbe risentirsene e allora diventa una sfida baciarlo proprio in quel modo e abbracciarlo e scoprire i suoi punti nevralgici, i punti deboli, le carezze proibite preferite, fino ad arrivare alla chimera (a volte, miracolosamente raggiunta) dell’orgasmo simultaneo (un piacere infinito, un miracolo, un evento – diciamocelo pure – più unico che raro…).

E così, nell’arco di una settimana, quelli che erano e sono stati i miei punti di riferimento in alcune fasi felici e delicate della mia vita sono tornati a farsi vivi e a farsi sentire, come fantasmi benigni la cui presenza continua a riempire di senso la mia vita quotidiana, e le cui voci ricordo ancora nitidamente, voci benevole di persone che ci hanno voluto bene in passato e cui noi vogliamo ancora tanto bene, nel presente, nonostante il passato e al di là della distanza spaziale che ci tiene separati…nolenti e dolenti…

viernes, junio 26, 2009


APPUNTI PER UN RACCONTO (DEL) FUTURO




Mettiamo che io sia uno degli uomini più potenti d’una intera nazione; che possieda un impero economico fatto di televisioni, giornali, case editrici, imprese di vario tipo, dalla telefonia mobile all’alta moda all’energia eolica; mettiamo che io sfrutti il potere che deriva dai miei miliardi per fare tutto quello che mi pare e piace e, tra questa sfilza di cose, mettiamo che io sfrutti i miei soldi in abbondanza per portarmi a letto le puttane che offre il mercato nostrano. Mettiamo anche che, oltre al potere economico, io detenga il potere politico, che sia un uomo importante, anzi, che sia il politico più importante della nazione, uno che, con soldi e favori, è riuscito a comprarsi i voti di una grande maggioranza del paese, uno che comanda una sfilza di ministri leccaculo pronti a fare ogni cosa mi venga in mente di ordinare loro. Mettiamo che io sai proprio a capo di un governo democraticamente eletto dal popolo sovrano. E mettiamo che io decida di portarmi proprio nelle sale del Parlamento le puttane di cui sopra. A cosa dovrei prestare maggiore attenzione? Ai controlli in ingresso, non ho dubbi al riguardo. Sì, dovrei addestrare la mia scorta per fare in modo che le puttane non portino addosso telecamere, fotocamere o cellulari con cui potermi ricattare… Dovrei installare il metal-detector all’ingresso della mia abitazione personale governativa. Dovrei istruirli e obbligarli a perlustrare ogni anfratto del corpo delle puttane (chi mi dice che non riescano a infilarsi qualche marchingegno anche dentro la pancia? Sono molto elastiche quelle là, non hanno tanti problemi a ficcarsi una microcamera lì dentro…). E infine, una volta permesso loro l’ingresso nella mia camera da letto, dovrei stare attento a togliere ogni traccia che possa poi essere usata contro di me in futuro… Quanti oggetti possono tradire la nostra persona? Quanti ce ne sono in una camera, in una stanza, in un appartamento, che possono tradire la presenza della nostra persona? Tanti, troppi. Un quadro, un’onorificenza famosa, una laurea honirs causa, lo stemma del governo che rappresento… e la foto di mia moglie e dei miei quattro figli, sì, accidenti, dovrei ribaltare le cornici, occultarle dietro un pezzo di giornale, evitare che uno sguardo indiscreto possa rubare una foto delle foto con i ritratti dei miei cari e ricattarmi con quelle… E mettiamo invece che, per una sfortunata serie di coincidenze e colpi bassi, una di queste puttane riesca a superare tutti i controlli (la scorta, i metal-detector, la mia perquisizione personale anche fra le gambe, nelle parti intime) e a scattare la foto; mettiamo che si fotografi mentre si lava la fica nel mio bagno e che poi la metta su internet con sotto il seguente messaggio: “io dentro il bagno elegante del nostro Primo Ministro”. E mettiamo che non riesca a convincere nessuno della bontà della mia smentita perché si dà il caso che la stronza di turno vuole sputtanarmi davanti all’intera nazione, che voglia denunciare il fatto alle autorità, ovvero, a quella solita combriccola di ministri che si oppongono ideologicamente al mio partito politico e vogliono la mia testa e non fanno altro che sognare di vedermi morto ammazzato… Ecco, mettiamo pure tutte queste cose, ipotizziamo una simile realtà dei fatti, come dovrei comportarmi? Cosa dovrei farle alla puttana perché torni sui suoi passi? Come potrei eliminarla dalla faccia della terra e azzittirla per sempre? Come evitare lo scandalo pubblico? Come fare a censurare tutti i giornali (anche quelli di cui sono il proprietario, quindi, anche quelli che, si spera, possano riflettere la mia visione del mondo e della vita)? Come fare a mettere tutti a tacere? Come porre fine a simili illazioni? E, soprattutto, come riuscire a distruggere quella foto? Quella foto che ormai circola e fa il giro del mondo e mi sputtana per sempre? La foto compromettente da cui tutto è partito e che tutto minaccia? Come posso fare? Come rintracciare e fare fuori quella maledetta puttana? Svolgimento…

miércoles, junio 24, 2009

In attesa dell'uscita del film a Ottobre...





...la locandina ufficiale per il mercato ispanico (certo che la traduzione "letterale" dall'inglese fa un po' ridere! Ja ja! Comunque, si dice il film duri 2h40 minuti e che sia molto "parlato" - speriamo all'altezza dei dialoghi geniali di Pulp Fiction o di Grindhouse)

domingo, junio 21, 2009


Antonio Moresco "increa" e scombussola i tempi e gli spazi: Canti del caos, Parte Terza ("Inizio")

Cosa succede se il tempo e lo spazio si fermano, si immobilizzano, si bloccano? Moresco prova a dare una risposta a queste domande (filosofiche) inventandosi la Parte Terza dei Canti del caos (libro che continuerà a far parlare di sè in futuro, ne sono certo; perché non ce ne sono poi molti di autori italiani contemporanei che si spingono a ideare un progetto di una simile portata; un progetto narrativo e creativo che scombussola i nostri "abituali" - a volte, anchilosati - orizzonti di lettura e parametri di verosimiglianza, obbligandoci a ri-guardare meglio, a ri-considerare di nuovo quanto abbiamo - da sempre - sotto gli occhi; questo dovrebbe essere anche il compito del bravo romanziere: farci guardare di nuovo le stesse cose che vediamo tutti i giorni da un nuovo punto di vista estraniante e originale; Victor Sklovskij e il suo concetto di "straniamento" in letteratura sarebbero andati a nozze con Moresco e questi "Canti"...).

Innanzitutto, il narratore: qui sembra venirci incontro in modo diretto, forse anche più cordiale. Ma le parole che ci rivolge non sono certo rassicuranti:

"Catastrofe dell'inizio. Ma non eravamo alla fine? E non doveva esserci Dio, a questo punto? Perché, vi aspettavate di sentirgli dare l'annuncio come un qualsiasi speaker pubblicitario impettito di fronte a una telecamera, col gelato in mano? Vi aspettavate di leggere le sue parole direttamente su carta, qui, come se niente fosse, con i vostri occhi? Ma cosa credete? Che Dio adesso si metta a scrivere? La sua parola crea il vuoto. Noi siamo dentro quel vuoto. Riempiremo quel vuoto" (p. 837).

Non credo esista incipit più programmatico (e più diabolico) di questo: se Dio è vivo e vegeto, ciò non toglie che non sarà lui ad annunciare la fine di tutte le cose (a svendere il pianeta, come si prospetta nella Parte Seconda del romanzo). Dio non comunica con noi mortali attraverso la parola; figuriamoci se lo fa tramite la scrittura. "Noi siamo dentro il vuoto" che crea la parola divina. Siamo noi mortali, proprio in quanto tali, ad avere il potere (e la possibilità) di re-inventarci il mondo (di riempire il vuoto) ri-scrivendolo a nostro piacimento con la parola (dietro queste riflessioni vi scorgo un certo Borges, quello, per intenderci, che scrisse l'emblematico La biblioteca de Babel o che riflette su una scenetta del Vangelo, e ci ricorda che Gesù scrisse soltanto una volta nella sua vita: qualcosa che nessuna sa, con un ramo d'albero, sulla sabbia in riva al mare...).

Ecco un punto su cui Moresco torna più volte anche nelle interviste che sono riuscito a vedere su internet facendo la solita, piccola, veloce, indolore ricerca su Google: non è vero che Dio è morto, che tutto è relativo, che il mondo così come lo concepiva l'uomo del Novecento è finito, che tutto è solo e soltanto ri-scrittura del passato; non è vero che siamo al capolinea (come cantano tanti apocalittici e catastrofisti à la page); non è vero che non esiste più la letteratura di una volta, quella che aveva ancora qualcosa da dire al lettore; e neppure è vero che la letteratura è solo un gioco, una ripresa ironica delle trame e degli stili degli autori che ci hanno preceduto nel tempo... No, la letteratura è vita, è qualcosa di ancora molto vivo e mobile, che chiunque di noi può rendere vivo e vivificare con l'immaginazione, il sogno, la memoria, la fantasia (un luogo in cui ci piove dentro, a detta di Dante, se non ricordo male). La letteratura non è una cosa morta, se solo siamo in grado di capire che dal vuoto, dalla catastrofe, dalla fine di un'epoca, può nascere o scaturire qualcosa di nuovo e di originale, che smuova la coscienza del lettore e lo faccia (di nuovo) sentire vivo.

E allora acquista senso anche la scelta dell'autore di scompaginare l'uso grammaticale (e grammaticato) dei tempi verbali: se non c'è un prima e non c'è un dopo, se non si capisce il confine esatto tra qui e là, se il tempo e lo spazio perdono il loro significato di coordinate che ci indirizzano e ci guidano, allora ecco che chi narra non può evitare di farlo mescolando o alternando nella stessa frase il futuro e il passato, il condizionale presente e quello passato...(finendo a volte - lo devo confessare - anche nel manierismo puro, o nel barocchismo vacuo, come si può evincere da un dialogo come questo, scelto a caso - p. 928:

""Cosa ne sarà di noi?", ti dirò, mentre tu sarai ancora con la testa sopra il mio torace respirato, inventato, con le labbra gonfie, respirata, scopata.
"Sì, ma noi chi è?", mi dirai.
"Quello che sarà noi".
"Ma adesso allora chi dice noi?"
"Quello che sarà noi".
"Sì, ma da dove parla quello che dice noi?"
E allora le accarezzerò i capelli e poi il volto morbido e poi le labbra gonfie, baciate, increate" - dialogo tutto svolto al "futuro passato", come lo sono pure certe intere descrizioni di combattimenti tra ovociti e spermatozoi, personaggi di un'epopoea ancora in potentia, oltre che in progress, di cui il narratore ci rende partecipi, ma anche spettatori passivi - ripeto: risulta a volte snervante stare al passo con questo uso dei tempi verbali; e spesso e volentieri Moresco corre il rischio di annientarla, la pazienza del lettore, a forza di porgergli sullo stesso piano "qui" e "là", "prima" e "dopo", "è" e "sarà"...e via di seguito).

Certo a questo punto a nessuno sfugge l'audacia di un simile tipo di narrazione: come in una sorta di video-game "universale", qui assistiamo agli incroci e agli scontri tra personaggi che non sono ancora tali; rivediamo in carrellata veloce tutti quelli che hanno popolato la Prima e la Seconda Parte del romanzo quando ancora non sanno di chiamarsi "l'uomo che calpesta le merde" o "la Musa" o "il Gatto" o "la donna avvolta nella stagnola" o "la bambina col cane" o "l'investitore"... Loro ancora non lo sanno, a differenza del lettore che non solo sa, ma ora ha la possibilità di vedere come si creano (o "increano", per usare il neologismo di Moresco) quegli stessi personaggi (così lontani, all'apparenza da noi, eppure così vicini - Così lontano, così vicino era il titolo di un bellissimo film di Wim Wenders, se non erro, comunque...).

Il lettore si imbarca in questo nuovo viaggio e solo verso la fine si accorge di quanti significati potenziali è possibile attribuire alla parola "increazione": Moresco, con questo nuovo "Inizio", scrive una sorta di Apocalisse all'incontrario, una specie di Odissea iperreale, in cui tutti hanno un ruolo da svolgere agli occhi di colui che in quanto Autore (e in quanto Matto) deve accollarsi tutto il peso che generalmente spetta a Dio...

E' questo che scombussola e sconvolge di un'opera-mondo come questa: che, nella sua Parte Terza, prentende di sospingerci verso il baratro da cui tutto può nascere e tutto può morire... un baratro ontologico in cui il mistero è l'esserci dell'essere:

"Sono nella zona smisurata e increata che c'è tra il concepito e l'inconcepito prima ancora che sia inconcepito. La sto allargando a dismisura col proiettile redentivo della mia testa che preme per irrompere nell'increato. Voi non avete idea di che cosa sta succedendo qui dentro, nel primadopo. Voi non sapete che enorme movimento resurrettivo di morti è in atto in questo istante un istante prima che ci sia questo istante" (p. 1062).

Il riferimento a Omero non è casuale: Omero è il primo degli autori che il Matto (a questo punto, l'Autore, ovvero Moresco) cita immaginando una sorta di processione o naufragio universale in cui rivedrà i suoi maestri spirituali, gli scrittori che considera come suoi modelli imprescindibili. E accanto a Omero, ecco spuntare Durante degli Alighieri, Murasaki Shikiba, Miguel de Cervantes Saavedra, Herman Melville, Emily Dickinson, Fedor Michajlovic Dostoevskij, mescolati insieme ai suoi personaggi, alle sue creature, ovvero: il donatore di sperma (che è anche il softwarista che crea il video-game violento con cui si chiuderà l'intero romanzo), la donna caudata, l'account, la Musa, Principessa e il traslocatore, il Gatto e la bambina col cane, le modelle scartavetrate e gli sbandieratori, il ginecologo spastico e la donna amputata, Dio e noi, che, grazie all'autore e in quanto lettori, abbiamo contribuito alla creazione di questo caos...

Finire di leggere Canti del caos è stato per me come smettere di vedere un film di David Lynch quando ancora non sospettavo di avere appena visto un film di David Lynch: un'esperienza visiva (qui anche uditiva e tattile) da cui si esce turbati, e grati...

P.S.: Moresco ha elaborato i Canti del caos nel corso di 15 anni. La Parte Prima è apparsa per Feltrinelli nel 2001; la Seconda presso Rizzoli nel 2003; la Terza l'ha iniziata a scrivere a 58 anni, ed appare solo oggi, 2009, insieme alle altre due, rivedute e corrette, per Mondadori. Oggi Moresco ha 62 anni e si sta convertendo in un mito per un folto gruppo di scrittori e lettori. Ci ha messo 15 anni prima di pubblicare qualcosa, dopo anni e anni di rifiuti da parte delle varie case editrici nostrane. Parte della fonte d'ispirazione per il suo libro più intimo e più bello (a mio parere e fino ad ora), Lettere a nessuno, apparso per la prima volta nel 1998 e rivisto e ripubblicato da Einaudi nel 2008, nasce proprio da quella sfilza di risposte negative. Leggere Lettere a nessuno a prescindere dai Canti del caos aiuta senza dubbio a capire meglio la poetica dell'autore. E a rendercelo ancora più simpatico e umano... Libri di Moresco da scovare e leggere nel futuro: La cipolla (Bollati Boringhieri), del 1995; Il vulcano: scritti critici e visionari (Bollati Boringhieri), del 1999 e, soprattutto, Gli esordi (Feltrinelli), del 1998 (è da qui che crea il Gatto e il Matto).

miércoles, junio 17, 2009


Sere d'estate (col cinema all'aperto)

Queste serate d'estate mi ricordano quelle altre, quelle passate a mettere film per il rispettabile pubblico radunato in piazza sotto il cielo stellato e pronto a farsi stregare dalle immagini in movimento sul grande schermo... Mario correva con la macchina fino a Roma per prendere la pizza con la pellicola che prevedeva il copione, ovvero il nostro programma cinefilo dell'estate, mentre Antonio si preoccupava della parte "colta", contattava via telefono i vari attori e registi eventualmente interessati a venire a farci visita, il Cinema Vittoria di Tagliacozzo, che ambiente, ragazzi, che posto fantastico, che bell'aria si respirava presso la mitica "Associazione Tempi Moderni" (dal titolo dell'omonimo capolavoro di Charlie Chaplin), mentre io mi occupavo più umilmente di diffondere nel modo più capillare possibile i volantini e i manifesti formato maxi con sopra stampigliato il titolo del film del momento, ogni mattina un giro diverso in bicicletta o in macchina, nei paesi della zona, per far sapere al maggior numero possibile di persone che quella sera, presso il Cinema Vittoria, noi proiettavamo quel film là (in genere, film d'autore o rari o introvabili, film di Mimmo Calopresti, o dell'allegra accoppiata Ciprì&Maresco, o di Luis Buñuel ed Eric Rohmer o del documentarista Joris Ivens, film di Pasolini come Cosa sono le nuvole e Teorema, film strani che ti lasciavano a volte interdetto, altre meravigliato, quanti film ho visto grazie a quel lavoretto part-time ed estivo, quanto sudore speso in compagnia della combriccola tagliacozzana...).

E mi ricordo che Mario ci sapeva fare con i sindaci, riusciva a trovare fondi anche lì dove meno te lo aspettavi, riusciva con le arti della retorica a piegare la volontà degli assessori alla cultura più conservatori o meno propensi alle novità, e fu un mito quando evitò la rissa la sera che dovevamo proiettare La vita è bella, c'era tutto il paese e la giunta comunale riunita al completo, c'erano davvero tante persone (vecchi e bambini vocianti, mamme festose, padri rilassati) e il proiezionista chiede a Mario la pizza, lui gliela porge, il proiezionista la monta sul proiettore, ma poi ci accorgiamo con stupore che dentro quella pellicola c'è solo pubblicità, il film di Benigni non appare, oddio, opporca vacca, e ora come facciamo? E allora ricordo che Mario si catapultò dentro la sua Uno bianca e partì sgommando in direzione dell'autostrada, per cercare di arrivare il prima possibile a Carsoli, dove doveva riuscire a entrare in possesso della pizza che, nel frattempo, un nostro amico e collega del Centro Sperimentale di Roma doveva consegnarci al volo, come fosse il cambio della staffetta, fu una serata splendida, piena di gente che protestava e mugulii, il film era gratis e all'aperto, ma il sindaco e la giunta comunale ci tenevano a fare bella figura, e allora mentre noi non sapevano che pesci pigliare, Antonio si alzò in piedi e prese il microfono e non ricordo più quale discorso imbastì per cercare di trattenere tutte quelle persone sedute davanti allo schermo bianco, vuoto, enorme e privo di qualsivoglia immagine, c'era il rischio che scoppiasse la rivolta popolare, noi eravamo già pronti a reagire, o a scappare, comunque, fatto sta che Antonio riuscì a placare il pubblico e Mario a tornare dopo nemmeno mezz'ora (deve aver volato sull'autostrada), e finalmente il proiezionista riuscì a far partire il film, tutti zitti, si sentivano solo le urla di Benigni e le risate dei bambini... che serate quelle passate al cinema all'aperto orgnazzite dal Cinema Vittoria e l' Associazione, quante risate e quante lacrime quella sera...

...Poi arrivava il momento di rimettere tutto a posto: due per ogni lato dello schermo, tiravamo giù la struttura portante, la rinsaccavamo dentro un telone di plastica enorme, e lo caricavamo dentro il camion con il proiettore. Toglievamo di mezzo le sedie di plastica bianche, rimettevamo in ordine il tutto. Quelli del bar della piazza in cui era appena avvenuta la proiezione ci invitavano a bere un bicchiere di vino o di birra. Io tornavo a casa con un grado alcolemico che, avessi incontrato gli sbirri, non mi avrebbe permesso di continuare a guidare impunemente per i prossimi anni. Mario si accendeva la sigaretta, Antonio sparava qualche battuta delle sue, e polemizzava su quello che era andato storto, Mario ribatteva e smorzava i toni o aizzava la lite, noi partecipavamo da "coordinatori tecnici" alle loro litigate tra amici, erano litigate anche molto snervanti, ma poi facevano sempre pace, perché, appunto, erano legati da amicizia vera e decennale, e ai miei occhi sono sempre sembrati Don Chisciotte e Sancio Panza, Mario alto e secco alto quasi 2 metri e con quel pizzetto lungo chilometri che gli toccava quasi la pancia, e Antonio più basso e con quello sguardo miope un po' bonaccione e un po' briccone, che serate quelle serate, ragazzi...e quanti film visti sotto il cielo stellato, di sera, al fresco...

miércoles, junio 10, 2009


Antonio Moresco destruttura, rigenera e “invidea”: Canti del caos, Parte Seconda (“Invocazione alla Musa”)

Avevamo lasciato il Gatto esultare per aver sbaragliato il Matto, dopo essere riuscito a rubargli il ruolo di protagonista alla fine della Parte Prima di questo romanzo-fiume. E, invece, con la Parte Seconda, ci accorgiamo che la realtà non è come appare, che il Gatto non è quel demiurgo che crede di essere, che nessuno sposta i nessi di una trama senza innocenza, che il Matto, una volta liberata la donna avvolta nella stagnola, la sua amata Meringa, non è scomparso del tutto e definitivamente.

In questa seconda puntata, Moresco si diverte a smontare e a destrutturare quanto era andato costruendo nel corso della prima e ci presenta una situazione paradossale e umoristica nella sua stessa paradossalità: Dio in persona vuol vendere il pianeta; è troppo schifato da come l’abbiamo ridotto per volerlo mantenere ancora in piedi. E per questo si rivolge a quello stesso account pubblicitario che appariva all’inizio, al fine di stringere un accordo che possa rendere il massimo profitto (in termini economici e non solo…).

Tralascio (per forza di cose e per non rovinare il piacere della lettura al lettore potenziale e curioso dei Canti del caos) tutti i colpi di scena che ci condurranno fino a un finale inaspettato e ricco sia di pathos che di suspense. Provo a concentrarmi su alcune scene (sì, perché questo è un romanzo anche “visivo”, molto poco “cinematografico” e assai “teatrale”, a mio parere, ma anche godibilissimo dal punto di vista degli “effetti visivi” che i vari e altalenanti narratori vi evocano e immaginano – e a proposito di pathos e suspense, si ha a volte la sensazione di stare leggendo un poema eroicomico, o un libro di cavalleria; a tratti, vengono in mente certe scene alla Orlando furioso, certi incontri e scontri davvero rocamboleschi che fanno pensare all’Ariosto e a quel tipo di “letteratura popolare”, ma comunque, dicevamo, alcune scene, ecco quali):

a)      Le indossatrici: le pagine dedicate alla moda hanno la stessa carica eversiva, disturbante e corrosiva di quelle che nella Parte Prima alludono o sono ambientate nel mondo del porno estremo. Le indossatrici sono delle anoressiche drogate, vittime scarnificate di un sistema in cui la bellezza regna solo in quanto immagine effimera, da vendere a un pubblico dal palato poco fine e dal conformismo allarmante. Che pena vedere queste ragazze con il naso ancora sporco di cocaina camminare su trampoli altissimi, come equilibriste che rischiano la vita sulla passerella… che orrore, tutte quelle giovani vite date in pasto al Lupus, sorta di profeta della “moda del futuro”, una moda dove la bellezza verrà conseguita a partire dall’esibizione della nudità del corpo intero e interno, dall’eliminazione dell’involucro della pelle, che ci protegge e ci separa dallo spazio circostante, che tiene nascosti sangue, vene, follicoli e mucose… (le pagine in cui assistiamo al progressivo “denudamento” dei corpi delle modelle sono memorabili e fanno venire la pelle – appunto – d’oca).

b)      Il traslocatore e Principessa: ovvero, dell’amore e di altri demoni. Due figure positive, in mezzo a questa bolgia di personaggi infernali, due innamorati che fanno l’amore a ogni trasloco, due viaggiatori incalliti che, ogni volta che decidono di fermarsi, si portano dietro termosifoni, tubature, cyclette, pentole e oggetti vari per rendere ogni nuova casa come la loro casa… Sono pagine che fanno respirare, che fanno sorridere e ridere di gusto, con dialoghi scoppiettanti (diremmo come per una commedia hollywoodiana), che illuminano i caratteri di questa coppia felice e immemore del dolore che li circonda (una coppia che sembra vivere un perenne viaggio di nozze).

c)      Papa Elvis II: ovvero, della Chiesa e della sua crisi secolare. Moresco ha scritto una lettera a Papa Ratzinger, qualche tempo fa; non so se la lettera venne scritta prima della stesura della Parte Seconda dei Canti, o dopo. Sta di fatto che: 1) quella lettera si può leggere sul sito con cui Moresco collabora seguendo il link: http://www.ilprimoamore.com/testo_428.html; 2) tra quella e questi vi è un’interrelazione evidente. Come in quella (lettera) così in questi (brani del romanzo) Moresco ipotizza una rivoluzione epocale: un papa che decide di “sciogliere la Chiesa” in quanto istituzione ormai decrepita, moralmente inaccettabile perché popolata da morti viventi che hanno dimenticato il significato del messaggio di Cristo. Papa Elvis II l’ha fatto. Ora è inseguito dall’orda dei cardinali e dei vescovi che vorrebbero riportare la situazione alla normalità. Ma chissà se lo acciufferanno mai, questo papa ribelle, chissà se dopo averlo catturato e costretto alla resa, chissà se dopo averlo pestato di botte, il neo-papa che dovrebbe sostituire Elvis II farà lo stesso, pronuncerà anche lui, come il suo predecessore, lo scioglimento della Chiesa…

d)      La Tecnica: ovvero, come internet, la neo-genetica, la neuro-scienza, gli esperimenti della tecnologia più avanzata hanno (già) cambiato e stanno continuando a cambiare (irreversibilmente?) il nostro modo di stare nel mondo. L’intero romanzo ruota attorno alle modificazioni che subiscono i corpi in un mondo in cui tutto è suscettibile di venire manipolato dalla tecnica. Ricordo delle pagine in cui si narra di rette, spirali, frattali, insomma, di argomenti matematico-geometrici applicati alla rappresentazione del corpo umano (che va in frantumi, o si allunga, e si adatta, diventando elastico). Esiste un’intera branca della filosofia italiana contemporanea ossessionata a tal punto da questo argomento da arrivare a scrivere la parola Tecnica con la maiuscola. Moresco - che non credo segua quella branca - con i suoi personaggi, non si mette mai a filosofeggiare, ma ci lascia immaginare quello che potrà diventare la realtà quando le macchine avranno preso il sopravvento sull’umano. Quello che potremmo diventare tutti una volta che il virtuale si è conficcato dentro il reale al punto da farci dimenticare le differenze che passano tra quello e questo.

e)      L’uomo che pesta le merde: è un personaggio curioso, che si fa strada in mezzo al “plot” (come direbbe lo storyboard – o era il softwarista?) in modo graduale, quasi di soppiatto. A metà tra Sancio Panza e Don Chisciotte, è il paladino della giustizia, colui che deve difendere l’Interfaccia (la donna che sta per partorire una sorta di “Cristo” redento, oltre che redentore, anche se di sesso femminile) dalle grinfie dell’uomo che violenta le donne incinte. A me fa venire in mente Moresco stesso, l’autore in carne ed ossa, un sessantenne che ha creduto nel sogno della letteratura e che per pubblicare si è battuto contro il mondo editoriale con onestà, serietà, umiltà e quel pizzico di follia che lo fa rassomigliare al personaggio di Cervantes (onestamente, anche solo guardando una sua foto su internet, a chiunque può venire in mente Don Quijote, “lanza en ristre”, per quelle orecchie, quella barba, quel viso secco, quegli occhi piccoli che guardano da dietro le lenti spesse degli occhiali da miope). Una frase dell’uomo che pesta le merde: “Io sono il più tranquillo e il più solo, qui dentro. Il mio compito è senza speranza, io devo lasciare aperta una porta alla speranza anche se non ho speranza” (p. 466). Cosa chiedere di più a un personaggio che si chiama “l’uomo che pesta le merde”?

E ora mi aspetta la Parte Terza, che s’intitola “Inizio”… ma non era la fine? Non eravamo arrivati alla fine? Evidentemente no. “Lanza en ristre”, si riparte...

martes, junio 09, 2009

Appendic(it)e

Umorale (teoria)
: in medicina, teoria risalente ai medici greci Empedocle e Ippocrate (V-IV sec. a.C.), secondo la quale si credeva che esistessero nell'organismo umano quattro elementi liquidi o umori (sangue, pituita, bile gialla, bile nera o atrabile) e che sulla loro relazione armonica di quantità e di qualità si basasse lo stato di salute e dalla condizione opposta (discrasia) derivassero malattie, nel qual caso la "vis medicatrix" della natura tendeva a ristabilire l'equilibrio espellendo dall'organismo con le escrezioni (urina, feci, sudore, espettorazione, pus, prodotti seriosi) l'umore esorbitante o corrotto ("humor peccans"). Secondo la teoria umorale, dalla predominanza individuale dei singoli umori dipendono anche i vari temperamenti dell'uomo (pitutoso, sanguigno, biliare, atrabiliare).

Umorismo: termine arduo a definirsi, per le molte sfumature che comprende; si può descriverlo come una forma superiore di comicità, che scaturisce da un modo scherzoso ma simpatizzante di considerare le cose, o dal compiacersi di accostamenti assurdi e incongrui, o dal trattare con gravità argomenti futili, o dal nascondere sotto il sorriso una profonda tristezza. L'umorista sembra occupare un posto intermedio tra lo scrittore comico e il satirico; non si accontenta di ridere, e non si adira: penetra al fondo, e compatisce.

(sub voce, dall'encicpledia Hoepli, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1968).

Umore: "lo stile è propriamente un fenomeno di ordine germinativo, è la trasmutazione di un Umore" (e notare bene l'uso della maiuscola!)

(da Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 1961).

viernes, junio 05, 2009


Antonio Moresco canta, spaventa e trascina: Canti del caos (Parte Prima: “Prefazione”), ovvero come imparai a salvare la donna avvolta dentro la stagnola


Ci sono scrittori che, attraverso il loro peculiare uso del linguaggio, riescono ad ampliare la nostra (per forza di cose) limitata visione del mondo. E ci sono scrittori che, oltre che a permetterci di guardare il mondo da un nuovo, o insolito, o inusuale punto di vista, riescono anche a prospettarci un futuro apocalittico di cui cogliamo i segnali, ogni giorno, da tv e giornali, ma di cui continuiamo a ignorare cocciutamente la natura (la causa prima che lo sta generando, via via che passano gli anni, man mano che le ipotesi teoriche degli scienziati da ipotesi diventano certezze matematiche, verità difficili da sottacere). Si tratta di scrittori che con le parole, con il loro tono satirico e apocalittico, con il loro atteggiamento “catastrofista” e umoristico, non solo ri-creano il mondo, ma ne colgono anche le crisi profonde, sanno metterne in evidenza i punti più deboli, le parti più scricchiolanti, le zone a rischio dove tutto sembra (o potrebbe a breve) franare…


Penso ai brani più satirici dei Gulliver’s Travels di Jonathan Swift; ai brani più cruenti e (appunto) apocalittici dell’Inferno dantesco. Penso ai romanzi distopici più cupi di un Philip Dick o al classico 1984 di George Orwell… Ebbene, Antonio Moresco con Canti del caos (Milano, Mondadori, 2009) potrebbe essere ascritto a questa ipotetica tipologia di scrittori “apocalittici” e “satirici” appena abbozzata. Ma è poi possibile ascrivere a un qualche genere un autore come Moresco? E’ etichettabile un libro come Canti del caos?


Sono venuto a conoscenza dell’opera di Antonio Moresco grazie ad un amico dell’Università “La Sapienza” di Roma. Quell’amico mi aveva consigliato Gli esordi. Non ho mai raccolto quel consiglio. Sono sempre un po’ titubante quando si tratta di leggere autori italiani contemporanei. Poi leggo alcune pagine di Carla Benedetti, professoressa dell’Università di Pisa, autrice di due bellissimi saggi: Pasolini contro Calvino (Torino, Bollati Boringhieri, 1998) e L’ombra lunga dell’autore (Milano, Feltrinelli, 1999). Lì si cita più volte il nome di Moresco. Mi convinco che ne valga la pena. E così leggo la prima frase di questo romanzo-fiume, di questo tomo gigantesco di 1000 pagine e passa, che così comincia:


“Lettore irredento, se tu sei uno di quelli che aspettano ancora il capolavoro, ho qui per te uno scrittore altrettanto idiota che si è messo in testa di scrivere un capolavoro”.


Non so se sono un’idiota né se posso considerarmi un lettore irredento. Ma il libro mi ha già conquistato. Mi stuzzica. M’incuriosisce. Continuo a leggere e con gran lena mi accorgo di quale potrebbe (parrebbe) essere la trama di un romanzo come questo, un’opera-mondo (per dirla con Franco Moretti) che aspira alla “totalità” senza (mai) essere “totalitaria” (come Don Quijote, o come Cent’anni di solitudine, o come l’Ulisse, o come la Recherche… e alle mie orecchie quell’incipit non può non evocare la frase iniziale del capolavoro di Cervantes: “Desocupado lector” – che potremmo tradurre (anche) come “ozioso”, “sfaccendato”, “lettore che non ha nulla di meglio da fare” – c’entra l’ “irredento” di cui sopra? Chissà, forse sì, forse c’entra eccome…): ed eccola, questa presunta trama principale:


il Matto (ossia l’autore, lo scrittore in carne ed ossa), parla del suo progetto al Gatto (ossia al proprio editore). Il Matto mette in scena l’atto stesso della lettura narrandoci quello che ha scritto. Solo che il Gatto interviene - a volte maldestramente, altre sarcasticamente, come a voler smorzare la gravità di quanto si narra- a dare suggerimenti, cambiamenti di prospettiva che permettano di mantenere sempre alta l’attenzione del lettore potenziale del romanzo, e, quindi, per fare del libro che sta nascendo sotto i nostri occhi quel “capolavoro” che venderà milioni di copie e farà fruttare milioni di euro alla casa editrice…


Basta: mi fermo qui. E’ davvero difficile tentare anche solo di riassumere le altre mille trame secondarie che il Matto e il Gatto creeranno rimpallandosi la voce tra di loro, alternando i vari personaggi protagonisti, le molteplici voci che, questo sì, anche il lettore meno attento se ne accorge, prendono la parola per “cantare” la propria esistenza, o la propria avventura personale, in un vortice, o amalgama, che dà le vertigini. E, a tratti, provoca nausea.

Sì, perché Canti del caos è un romanzo che fa male; che colpisce perché ci mette sotto gli occhi realtà, fatti, personaggi davanti ai quali il nostro sguardo tenderebbe ad abbassarsi o a deviare rapidamente verso altre direzioni.


Uno su tutti: il mondo del porno estremo. Nessuno dei personaggi “cantanti” usa mai il neologismo inglese snuff movie: ma è a quello che ci si riferisce costantemente nel corso della narrazione. Set improvvisati e camuffati per girare scene di film hard nei quali le protagoniste femminili, alla fine, vengono uccise in diretta, davanti all’occhio neutro e freddo della cinepresa.

Accanto a questo, gli altri mondi “estremi” che sembrano avere manipolato le menti dei più: l’editoria che sforna solo best-sellers; le agenzie pubblicitarie che inventano mille trucchi per vendere anche il nulla; l’informatica che sta al servizio dell’intrattenimento, quella che sfrutta l’estro e la creatività degli ingegneri che s’inventano i videogiochi che i più piccoli useranno come fossero droghe leggere.


E poi il corpo: sviscerato, scandagliato, descritto fin nei suoi più minimi dettagli, visto in tutta la sua drammatica fragilità. Canti del caos è pieno di sangue, di feci, di sperma, di tutto quello che ci caratterizza in quanto “animali”. E già solo questo mettere in mostra quanto conteniamo, quanto ci portiamo dentro pur non essendone (sempre) coscienti (il cuore, il cervello, i muscoli, le ossa, le mucose, i genitali…) destabilizza, mette in crisi, ci porta verso quelle zone d’ombra che terremmo (sempre e volentieri) fuori dalla portata delle nostre riflessioni e della nostra ragione.


La prima domanda che potremmo porci allora è la seguente: perché Moresco struttura un romanzo di più di mille pagine intorno al corpo e ai suoi anfratti? La seconda, invece, potrebbe essere la seguente: come fa a rendere credibili (e perfino simpatici) personaggi come: il donatore di seme, il ginecologo spastico, la donna caudata, la Musa, la Principessa, la bambina col cane, la ragazza con l’assorbente, la donna amputata, l’art-director? Come ci riesce?

Sono arrivato alla fine della Prima Parte; mi restano ancora le altre due. La mia retina è ancora impressionata dalle imprese epiche che permettono al Matto di liberare la donna avvolta nella stagnola… Non so come finirà questa storia. Ma resto di sasso se torno su certe frasi che ho sottolineato a matita (per ricordarmele in futuro, quando rivedrò quell’amico che mi aveva consigliato Gli esordi):


“Mi sto pettinando il sangue” (p. 89).


“E come si fa a sbagliare una cosa nell’unico modo che ci permetterebbe di non sbagliare?” (p. 108).

miércoles, junio 03, 2009

Il romanzo ritrovato

Durante il trasloco ho avuto perfino il tempo di prendere il treno e tornare dai miei, nel paese abruzzese di cui si dice nel profilo ad latere; e mentre rivedevo vecchi album di fotografie e di ritagli di giornale che staccavo da adolescente da La Repubblica e il Corriere della sera, ho ritrovato lui, il famoso quadernetto con il mio primo e unico romanzo, il romanzo ritrovato, l'inedito, l'impareggiabile, l'illegibile...

Il quadernetto contiene al suo interno un block-notes picchiettato di macchie di caffè e liquidi organici di natura varia. Sommando le pagine numerate del quadernetto alle pagine del block-notes si totalizzano 185 pagine scritte fitte fitte e con calligrafia minuscola. Ho fatto fatica a ri-leggermi dopo tanti anni e con una scrittura così ingarbugliata, frettolosa, a volte (appunto) indecifrabile... Eppure, ero troppo curioso di vedere com'ero a vent'anni (il romanzo risale al 1998 - è stato scritto per l'esattezza tra Gennaio e Marzo del '98, tra Roma e il paesino abruzzese in cui sono nato). All'epoca avevo 21 anni. Ero giovane. E pieno di belle speranze. E, a giudicare dal romanzo e da quello che vi ci ho buttato dentro, parecchio incazzato col mondo...

Il romanzo (se così possiamo definirlo) s'intitola Toni umorali ed è diviso in 7 capitoli. Ogni capitolo vede come protagonista un personaggio diverso che sembra rispondere comunque sempre e costantemente a uno stesso modello primigenio: Tony Umorali, personaggio che appare nel cap. 1, e base da cui si diramano gli altri nomi degli altri 6 rispettivi protagonisti, con declinazioni divertite e divertenti della radice primigenia (al cap. 2, ad es., appare un certo Ntoni Umore; al cap. 3 un tale Antonio Umory; al cap. 4 Anthony Humor; e così via...).

Non solo: l'intera struttura del testo è divisa in modo tale che ad ogni capitolo coincida un giorno della settimana (il cap. 1 inizia di lunedì; il 7 finisce di domenica), un peccato capitale (il cap. 1 ruota attorno all'avarizia; il cap. 2 alla lussuria; il 3 all'accidia, e così via...), un colore (il cap. 1 è scritto sotto il segno del blu; il 2 sotto quello del rosso; e così via...), un mestiere (nel cap. 1 Tony Umorali fa lo "scienziato pazzo"; nel 2 diventa un musicista; nel 3 un investigatore privato; etc. etc.), uno stile (nel cap. 1 adotto il monologo interiore; nel 2 il dialogo puro e di tipo teatrale - c'è anche qualche didascalia; nel 3 lo stile "neutro" di una macchina da presa; nel 4 lo stile "lirico" di un innamorato cronico; e così via...) e non ricordo più ora quale altra corrispondenza interna e "logicamente" rispettata in base alla griglia che ho steso e che "faccio apparire" nella parte finale, intitolata (anche questa "umoristicamente") "Appendic(it)e".

E' evidente che scrissi Toni umorali sotto forma di una sorta di omaggio a James Joyce e al suo Ulysses (libro che compare ancora nelle vette della mia classifica personale). Ed è altrettanto evidente che l'intero testo (mi vergogno a chiamarlo libro) è stato scritto sotto l'evidente influsso (influenza, incubo, allucinazione) dell'ultima parte dell'Ulisse, quella che contiene (o prova a contenere) l'eterogeno ed anarchico monologo interiore di Molly Bloom, la moglie del protagonista... Come in quel famosissimo monologo, così in Toni umorali ho provato a far parlare tra di loro (anche se a distanza) le voci dei vari personaggi che occupano la scena dei 7 capitoli. Mi sono inventato delle voci e col senno del poi mi rendo conto che si è trattato di un'impresa davvero titanica, perché ancora oggi mi sembra un miracolo che uno scrittore riesca a smettere di essere "sè" per tentare di essere e parlare come "un altro" (come l'Altro?). 

 Ciò implica due cose: a) che ho perso il coraggio e l'intraprendenza di quando si è giovani; b) che ancora devo migliorare su tanti fronti se voglio davvero riuscire a fare parlare qualcun'altro con una voce propria che non sia (sempre e solo) la mia...

Rileggo il primo capitolo: quello che ci presenta per la prima volta Tony Umorali... e scoppio a ridere. Il primo cap. si intitola "Mad doctor" e parla, appunto, di uno "scienziato pazzo". Ed è incredibilmente comica la rappresentazione dei tic nervosi che faccio di un tizio come questo qui, matto da legare e fondatore di una specie di "comitato scientifico" che si occupa di scandagliare i misteri del cervello umano... Piccolo dettaglio: Tony Umorali li scandaglia troncando dal collo le teste dei suoi poveri pazienti ignari.

E allora mi faccio coraggio e leggo "Sentimiento nuevo" (titolo della famosa canzone di Franco Battiato): e qui si parla molto (e in modo alquanto sboccato) di amore e sesso, di innamorati e pervertiti... Nuove risate e nuovo senso di straniamento: ma sono davvero io quello che ha scritto 11 anni fa quelle cose? Ero davvero così "sboccato" e diretto? Ho mai fatto leggere queste cose così spinte a qualcuno?

Poi entra in camera mia sorella. E mi chiede cos'è quella roba, quel quadernetto con le paginette piene di una scrittura fitta fitta... Le dico che non è niente di che. Roba vecchia. Se ne va. E io riapro quelle pagine... Chissà che un giorno non mi decida a farle leggere a qualcuno... le pagine del mio romanzo ritrovato.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...