miércoles, julio 29, 2009


Fiorello: lo show più bello


Rosario Tindaro Fiorello è un bene nazionale, non è solo un comico, o un bravo imitatore-mattatore. Quando si assiste a uno dei suoi spettacoli si può essere certi del fatto che, prima o poi, si ride, e ci si diverte come matti, e il tempo scivola via sostituito dal ritmo dei suoi sketch e delle sue battute sempre divertenti e mai offensive (come per Roberto Benigni, così è per Fiorello: nessuno - nemmeno il più refrattario alla risata, nemmeno l'uomo più potente della terra o il più permaloso, o il più potente della terra e permaloso insieme - può davvero sentirsi offeso da una battuta inventata da uno come lui, che sa fino a dove è possibile spingersi e conosce il senso del buon gusto, sempre). Sì, questo devo essere uno dei segreti di Fiorello: avere il senso del ritmo, introiettato nel cervello e nell'anima come un secondo tempo, un tempo che lo aiuta a gestirsi e a gestire lo spazio che occupa con il suo corpo e il suo viso capace di mille metamorfosi (una più esilarante e buffa dell'altra - mi viene subito in mente il "suo" Ignazio La Russa e il "suo" Federico Moccia).

Fiorello è anche molto umano: è uno dei pochi show-men capace di un'empatia enorme (e, a quanto intuisco, sincera) verso lo spettatore che guarda e lo spettatore-ospite che coinvolge nelle sue battute e negli sketch improvvisati. Fiorello non annulla l'altro per imporre se stesso e la sua comicità; è egocentrico e narcisista come ogni grande artista, ma rispetta l'altro e ne riesce a tirare fuori la sua altrettanto evidente "umanità". Basti guardare una qualsiasi delle più di 30 puntate del suo Fiorello Show (andato in onda su SkyUno e, grazie alla magnanimità di "diavolorossonero24", ora disponibile per tutti - e sottolineo: per tutti e gratuitamente - su YouTube). Dal suo dermatologo al vicino di casa; da Valeria Marini a suo fratello; da Jury Chechi a Mogol, Fiorello riesce a stabilire con tutti un contatto empatico in cui entrambi - il comico che prende in giro e fa battute e l'ospite scelto a caso che viene preso di mira e "coinvolto" nella burla - giocano un gioco alla pari nel corso del quale entrambi gli attori in scena si divertono (oltre, ovviamente, al divertimento generale dello spettatore che assiste da casa o seduto tra il pubblico del tendone di Piazzale Clodio).

Ricordo questa puntata: http://www.youtube.com/watch?v=7rnZEECDD9s; Nicoletta Romanoff e Giorgio Pasotti si sono da poco rimessi insieme; Fiorello non può resistere alla tentazione e li coinvolge in una specie di elogio romantico dell'amore corrisposto. Canta una vecchia canzone (di Wess e Marina Barone) che si intitola Un corpo e un'anima e sul più bello, sul ritornello, invita i due "innamorati" a baciarsi con passione davanti a tutti (spettatori in sala e spettatori televisivi). Non contento, invita tutti i presenti ad alzare le mani e a intonare lo stesso ritornello... Ecco, è qui che si uniscono il senso del ritmo (musicale) di Fiorello e la sua "tendenza empatica" verso chi diventa oggetto della sua ironia e delle sue gags. Un momento indimenticabile (e improvvisato; ne sono testimonianza più che netta le guance rosse della Romanoff, che non se l'aspettava proprio).

Fiorello è un bene nazionale e, in certi casi (come il mio, ad esempio), funziona benissimo anche come ottimo anti-depressivo. Non serve prendere pasticche e valium o quant'altro: basta guardarlo o risentirne la voce da una vecchia puntata di Viva Radio2 per ritornare a sorridere o a ridere a crepapelle. E a guardare la vita con occhi meno tristi e con spirito ritemprato e più ottimista. Fiorello è lui stesso uno show: quello più bello, perché sappiamo già (da sempre) che non ci deluderà mai e che ci farà morire dal ridere.

lunes, julio 20, 2009

Fedeltà e tradimento

Qualche giorno mi fa mi è successa una cosa strana, che non è il caso di riportare qui per esteso... Comunque, il punto è che questa cosa inaspetteta e davvero anomala mi ha spinto a pormi alcune domande cui non trovo risposta: è normale mantenersi fedeli a una persona che appartiene soltanto (ormai) alla nostra vita passata? E' tradimento anche il conservare intatto il ricordo di quella persona che abbiamo amato tanto tempo fa e che ora non c'è più perché conduce un'altra vita, ha un altro partner, è sposata e ha due figlie piccole (nessuna gelosia, al riguardo, ormai nemmeno noi l'amiamo più, eppure le siamo ancora fedeli)? E' normale o è un'anomalia mantenersi fedeli (costanti) nel tempo anche se si vive con un'altra persona, che magari ignora del tutto questo nostro passato e che magari - venisse a scoprire di questa nostra paradossale fedeltà che supera le distanze spazio-temporali - potrebbe prendersela a male, o peggio, potrebbe restarci di merda se capisse quanta importanza ha per noi (ancora oggi) quella persona "passata" (che appartiene, per così dire, al nostro "io" di un tempo)?

C'è chi sostiene che si tradisce anche solo col pensiero. Chi dice che è peggio scoprire il marito intento a dare un tenero bacio a un'altra piuttosto che beccarlo con le braghe calate a letto con l'amante... Chi sostiene che tradiamo ogni giorno, anche quando sognamo di rifarci una vita con quella sventola che ha appena attraversato l'incrocio sulle strisce pedonali... e chi, invece, crede che ci si possa mantenere fedeli anche per una vita intera, perché si può resistere alle tentazioni e poi, se c'è intesa sessuale, figuriamoci! Perché dovrei andare a trovarmene un'altra, se la donna con cui sto mi soddisfa appieno (o è "a-staccato-pieno")?

Tante domande. Con un'unica certezza: certi ricordi non solo non li puoi cancellare, ma, se ci torni con il pensiero e con la memoria, possono tornare a essere vivi e attuali, e possono perfino aiutarti a vivere meglio questa nostra vita del presente che, a volte, ahimé, non ci soddisfa tanto...

viernes, julio 17, 2009

Lo scrittore fantasma di Philip Roth (tit. originale: "The Ghost Writer"), 1979 (ora nella raccolta - in italiano - Zuckerman, Torino, Einaudi, 2009).




Come riuscire a narrare la vicenda di uno scrittore in erba in visita presso la casa del suo autore preferito, di colui che egli considera come suo maestro e modello letterario, concentrandola tutta all'interno di una notte e della seguente mattinata passata a fare colazione e a scoprire lati di un passato nascosto venuti a galla quando uno meno se l'aspetta? Risposta: nel modo più semplice e naturale e spontaneo possibile, se si è scrittori del taglio di Philip Roth (autore che io scoprii alla tenera età di 17 anni, quando lessi per la prima volta Il lamento di Portnoy e rimasi folgorato dalla carica eversiva dell'ironia di questo autore ebreo-americano che ha fatto delle relazioni interpersonali, del passato degli ebrei d'America e del sesso tre perni intorno a cui far ruotare tutto il suo universo romanzesco - Storia (con la maiuscola) + amore + morte come i paradigmi generali dell'essere umano che al romanziere non spetta altro che sviscerare nel modo più attento e sfaccetato possibile... Dopo Portnoy's Complaint ricordo che venne Il teatro di Sabbath, altro grande capolavoro, una specie di campus-novel che mi fece arrossire e mi ispirò una malinconia lancinante, ma torniamo a noi...).

Ne Lo scrittore fantasma facciamo la conoscenza di uno degli alter-ego che Roth si è andato costruendo nel corso della sua decennale carriera, Nathan Zuckerman, un ventitrenne che ha da poco pubblicato i primi racconti su una rivista a tiratura nazionale e che sembra però causare problemi ai genitori per il modo in cui sono trattati alcuni membri della famiglia ebrea da cui proviene.

Come si permette di fare dell'ironia sugli ebrei se è lui stesso un figlio di ebrei? Come si può anche solo sfiorare l'idea di pubblicare un racconto in cui gli ebrei vengono dipinti in base ai vizi atavici che i "gentili" hanno da sempre loro attribuito? Come pensare di voler fare dell'ironia sugli ebrei se la fine della Seconda Guerra Mondiale e del regime nazista è un fatto che appartiene ancora alla Storia più recente?

Zuckerman va per la sua strada, discute con il padre, ci litiga, si riappacifica, ma segue l'istinto (e persegue l'arte, come un novello Stephen Dedalus). Cerca (e sembra aver trovato) conforto in E. I. Lonoff, lo scrittore solitario, l'autore maudit e da tutti ignorato che vive appartato insieme alla compagna di una vita in una piccola casa nei boschi del New Jersey. Unica particolarità è che, insieme ai Lonoff, vive (o sembra vivere in pianta stabile) una giovane e misteriosa ragazza, Amy Bellette, una fanciulla che potrebbe anche essere la figlia di Lonoff.

Di notte, l'immaginazione dello scrittore in erba si attiva mentre legge un racconto di Henry James che parla del mistero dell'arte e del compito dello scrittore (coltivare il dubbio, lavorare alla cieca, il resto, appunto, è solo la "follia" dell'arte) e, contemporaneamente, ascolta il dialogo bisbigliato tra Lonoff e Amy... I due sono amanti, e lo sono a dispetto dell'intenzione di Lonoff di non abbandonare la compagna che lo accudisce da ormai 30 anni di vita condivisa tra frustrazioni e slanci entusiastici, tra illusioni e disinganni. Certo, dice Lonoff, se si trasferissero a Firenze, lì sì, Amy potrebbe venire allo scoperto e prendere il posto di lei, della compagna "abituale", ed entrambi (Amy e lui) potrebbero vivere senza censure la loro storia passionale, ma...

... Siamo davvero sicuri che è questo quello che ha sentito Nathan Zuckerman riponendo il libro di James e tornando a letto senza fare rumore dopo che Amy abbandona Lonoff solo nella sua cameretta? E poi, perché, agli occhi di Zuckerman, Amy ricorda così da vicino quella stessa Anne Frank autrice del famoso Diario? Non potrebbe darsi che Amy sia davvero Anne Frank (sopravvisuta al nazismo e ai furori hiteleriani e sbarcata dall'Olanda occupata agli Stati Uniti liberi in una nave di lungo percorso)?

Con Lo scrittore fantasma Philip Roth realizza una sorta di parafrasi del "leit-motiv" contenuto all'interno del racconto citato di Henry James (il titolo del racconto: Mezza età): "Noi lavoriamo nelle tenebre... Facciamo quello che possiamo... Diamo quello che abbiamo. Il dubbio è la nostra passione e la passione è il nostro compito. Il resto è la follia dell'arte..." (p. 65 della raccolta Zuckerman)...

miércoles, julio 08, 2009

Il mio paese, di Daniele Vicari (Vivo Film, 2007)



Vincitore nel 2007 del Premio "David di Donatello" nella sezione "Documentari", Il mio paese, di Daniele Vicari, è andato in onda domenica scorsa, 5 Luglio, alle 23,30, su Rai3. Come di soppiatto e a bassa voce. Peccato davvero che non sia stato proposto in prima serata, perché ne valeva la pena. E' uno dei film-documentari migliori che abbia visto negli ultimi anni.

Io ho avuto il piacere di conoscere Daniele Vicari grazie ai miei studi di liceale con la passione per il cinema. Fu lui a intervistarmi all'esame di maturità, prima della mia discussione su "Cinema e letteratura: analisi di due arti a confronto". E fu lui, insieme alla complicità di Mario e Antonio, a "mandarmi" sotto forma di "video-lettera aperta" alla Mostra del Cinema di Venezia del 1996 (all'epoca non ne sapevo niente; solo dopo Daniele e co. mi fecero recapitare una copia della video-lettera, indirizzata all'allora Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer; taccio dell'emozione - e della rabbia mista a vergogna - che mi provocò la visione di quello spezzone di vita vera...comunque...e tornando al film-documentario):

per Il mio paese Vicari prende spunto dal documentario di Joris Ivens L'Italia non è un paese povero (prodotto e finanziato dalla ENI di Mattei nel 1959 per illustrare le meraviglie dell'Italia del boom economico degli anni 60 - con il conseguente passaggio dall'economia rurale a quella industriale permessa anche dai giacimenti petroliferi del Nord) per ripercorrere all'indietro le tappe segnate dal film di Ivens e per cercare di capire com'è diventata l'Italia oggi, a distanza di quasi 50 anni.

Va detto che Ivens non si limitò a fare lo spot dei giacimenti e delle industrie petrolifere di Mattei e compagni, ma si impose di ritrarre anche le parti meno "brillanti" e più arretrate del paese. In particolare, alcune scene girate tra la Basilicata e la Sicilia ci mostrano un Sud ancora arretrato e povero. Ovvio che furono proprio quelle le scene che la Rai dell'epoca censurò perché contrarie allo spirito dell'epoca; il film, di fatto, venne rimaneggiato e mandato in onda col nuovo titolo: Frammenti di un film di Joris Ivens.

Ecco: uno dei punti più interessanti del documentario è proprio quello in cui, nel suo viaggio on the road all'inverso, Daniele Vicari mostra le scene della famiglia povera di Grottole (Basilicata), costretta a sopravvivere con pochi mezzi all'interno di un monastero abbandonato, alla stessa famiglia riunita davanti al televisore e commossa da quelle stesse immagini che li vedono poveri e con le mosche sugli occhi. Come sono diventati? Com'è stato possibile vivere in quelle condizioni? Com'è oggi Grottole? Cos'è diventata la Gela di oggi, dopo l'apparizione dei primi impianti con i pozzi per estrarre l'oro nero? Quanti danni ha fatto a Gela l'abusivismo edilizio prosperato grazie ai pozzi di petrolio?

Dalla Sicilia alla Basilicata, Vicari ci fa vedere gli interni del centro di ricerca ENEA, alle porte di Roma, per poi passare a Prato, dove la crisi ha messo in ginocchio il settore tessile (su cui poggiava l'intera economia della città), fino a Porto Marghera e a Venezia, con i suoi cantieri navali e le industrie del settore chimico in declino e in procinto di riammodernamento.

Quest'ultima parte è interessante per le parole che Vicari raccoglie dalla testimonianza di un ingegnere veneto che spiega come potrebbe salvarsi il Porto e Venezia e l'Italia tutta in un momento (e in mondo globalizzato) come questo. Quelle parole vengono fatte proprie dal regista, che le ripete "alla lettera", sovrapponendo la sua voce a quella dell'ingegnere... Ci salviamo se riusciamo a non avere paura del futuro, se guardiamo al futuro con la mente libera dai pregiudizi e dalle paure. Se scommettiamo sulle nostre capacità. E se ci accorgiamo che tra l'Italia di cui parlano i telegiornali (e la tv, in generale) e l'Italia dei cantieri, delle industrie chimiche, delle fabbriche, l'Italia che lavora (come dice qualcuno) esiste un divario abissale che non si può colmare. E che è solo dall'analisi di come si comporta questa "seconda" Italia (invisibile) che si può tentare di andare avanti (cito non verbatim, ma a memoria).

Tu spettatore che guardi e ascolti ti accorgi (e sai) che quelle parole hanno un senso che travalica gli intenti del documentario; sai che quella testimonianza tocca i nodi della questione e che se qualcuno le raccogliesse e ne tenesse conto forse qualcosa cambierebbe davvero, in questo paese...

Dalla Sicilia al Veneto, Vicari ci mostra i volti, gli angoli nascosti e più brutti, le facciate delle case di un'Italia diversa. E con la sua telecamera attenta e partecipe, prova a farci prendere coscienza di quello che siamo diventati...

Il film è accompagnato dalla musica di Michele Zamboni (ex-CCCP e CSI) e ha una fotografia splendida (a cura di Gherardo Gossi) che rende poetiche perfino certe periferie e alcuni angoli che di poetico, ahimè, hanno ben poco.

L'hanno scritto insieme Daniele Vicari e Antonio Medici. E mi fa rabbia vedere come certi prodotti vengano relegati in seconda serata, come se la Rai di oggi avesse paura a mostrare quelle stesse scene che censurò dal documentario di Joris Ivens nel lontano 1959...


lunes, julio 06, 2009

RI-LETTURE

Le letture che facciamo ogni giorno si accavallano e si accumulano (a volte confusamente) all’interno della nostra memoria per poi sedimentarsi nel corso del tempo. E’ allora che torniamo con la mente a quella particolare scena del libro che ci ha colpito e che ha stuzzicato la nostra immaginazione (distinguiamo subito il nome dell’autore e il titolo di quel particolare libro, separandoli da quelli degli altri che continuano ad accavallarsi e accumularsi).

Se la scena si è impressa nella memoria possiamo rievocarla anche senza tornare (fisicamente) sul testo; più spesso, ci prende l’irresistibile voglia di tornare a sfogliare il libro alla ricerca delle pagine esatte in cui la scena “memorabile” ha luogo. Altre volte ancora, crediamo di ricordare la scena in ogni minimo dettaglio, quando invece è la nostra “memoria creativa” di lettori onnivori e inquieti a re-inventarla di sana pianta o a farcela ricordare in modo del tutto nuovo e soggettivo. E’ un’esperienza che mi è capitata spesso con i romanzi di Javier Marías. A volte anche con quelli di Sandro Veronesi (o di Tiziano Sclavi o di David Foster Wallace o di W.G. Sebald o di Thomas Bernhard). Ultimamente mi capita con i Canti del caos di Antonio Moresco (di cui ho tentato di parlare qui sotto).

C’è una scena, in questo romanzo, in cui una donna e un uomo (di cui non ricordo i nomi né il ruolo all’interno della trama principale) si trovano all’interno di un residence completamente vuoto. Attendono entrambi (per non si sa quale motivo – o si sa, ma sono io che non lo ricordo più) l’arrivo degli ospiti. L’atmosfera è di attesa, ma anche di paura. Sul residence aleggia un’aria spettrale, la donna avverte degli strani rumori, l’uomo afferma di sentire delle voci (o degli squilli di telefono), eppure il residence è deserto. A un certo punto pensano che si tratti di fantasmi. E così decidono di separarsi per andare a perlustrare i corridoi dei vari piani del residence. I rumori di porte appena socchiuse e di passi sul pavimento non cessano. Dalle finestre sembra penetrare un vento soprannaturale. I due, impauriti e indecisi sul da farsi, si chiamano a gran voce da un piano all’altro per darsi conforto e notizie, ma niente, nessuno dei due trova traccia di ospiti o di presenze estranee… La porta girevole della hall sembra spostarsi da sola, smossa da un vento che non esiste.

La scena dura una ventina di pagine e anche solo ricordarla in modo così sghembo e impreciso mi fa venire i brividi e m’invoglia a rileggermi tutti i Canti del caos per poter tornare a sperimentare la stessa attesa, la medesima ansia angosciosa sperimentata quando lessi la scena la prima volta, nel corso della mia prima lettura del romanzo.

Credo che la ri-lettura scaturisca proprio da questa strana e quasi infantile voglia di voler tornare a sorprendersi nel punto esatto in cui sappiamo che lì ci aspetta una sorpresa (un punto interrogativo della trama, un personaggio particolarmente riuscito, un dialogo particolarmente efficace, un colpo di scena che lascia particolarmente scossi, un buco nero, un vuoto da riempire, un salto improvviso nel vuoto…).

viernes, julio 03, 2009

After

Before

My mountain-bike

Questa è la mia mountain-bike Bianchi, compagna fedele di tante scorribande su sterrato e asfalto, secco o bagnato che fosse...

Acquistata con i soldi di una insperata borsa di studio il 31 Dicembre del 2000, ha percorso fino alla rottura del contachilometri ben 882 km. Facendo un po' di calcoli e considerando che ne percorro circa 12 al giorno, posso dire con certezza che al momento ne ha accumulati circa 1100-1150. Usata soprattutto d'estate, le ho cambiato fino a oggi:

1 catena;
1 asse della ruota posteriore;
4 copertoni (di cui 3 posteriori e 1 anteriore);
1 paio di freni (sia anteriori che posteriori);
1 filo del cambio.

Fino a oggi sono cascato soltanto 2 volte: la prima, su sterrato, in una discesa scoscesa di montagna a circa 30 km/h (ho rischiato di brutto, me la sono cavata con una lussazione al ginocchio e un polso ingessato per un mesetto); la seconda, scioccamente, scivolando su asfalto impregnato di olio, nei pressi dell'ultima curva prima della stazione centrale del mio paesino tra i monti abruzzesi...

La prima foto (quella che dice: "after") mostra la condizione attuale della bici; la seconda, invece (quella che recita: "before"), mostra com'era nel Marzo del 2008, prima che la utilizzassi qui a Firenze per andarci a lavorare, oltre che per correrci per puro piacere personale e agonistico-dilettantesco...

Le differenze sono lampanti: al di là delle condizioni luminose delle due foto (scura e lugubre la prima, luminosa e brillante la seconda) e del luogo in cui sta (un garage maleodorante la prima, un prato all'inglese la seconda), è evidente che la bici ha subito un progressivo processo di invecchiamento: due catene con apposito lucchetto (quella rossa attorcigliata sul manubrio e quella nera a serpentina sotto la sella) appesantiscono il telaio; nella foto di sopra le gomme sono molto più sporche (e consumate) di come appaiono nella foto di sotto (dove scompare il "pendant" dei copertoni cerchiati di giallo); e inoltre, nella foto di sotto ancora compare la borraccia (originale, Bianchi anch'essa) e, se ci si fa attenzione, il contachilometri, mentre in quella di sopra sono scomparsi entrambi (i furti in città essendo molto più frequenti che in un paesino in montagna).

In sintesi, se nella foto di sotto la mia mountain-bike appare in tutto il suo splendore e il suo sprint sportivo, in quella di sopra sembra ormai sulla via del declino, affaticata, stanca, usurata dal troppo uso (quotidiano). E in effetti, la spiegazione a un simile cambiamento c'è: se fino al Marzo del 2008 la usavo solo per andarci a "correre" (soprattutto d'estate, più raramente d'inverno), da quella data in poi ho cominciato a usarla come mezzo di trasporto giornaliero e con una frequenza assurda... sia quando fuori fa bel tempo e c'è un sole che spacca le pietre che quando fa brutto e piove e fa freddo e tuona...

Comprensibile dunque il duro passaggio da "before" a "after". Spero solo che non mi abbandoni proprio ora che ci pedalo tutti i giorni e che possa durare ancora a lungo. E se poi cederà (si arrugginiranno i meccanismi, il telaio si sformerà, le ruote si ovalizzeranno, la sella si allenterà e si abbasserà da sola senza il mio consenso, i freni si romepranno, ecc.), se poi accadrà una simile disgrazia, allora smetterò di usarla e l'appenderò al muro della sala, come fosse un cimelio, o l'arma del delitto (una spada da esporre, un pezzo della mia vita che se n'è andato per sempre e che comunque resta... nel tempo).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...