sábado, octubre 31, 2009

Geoff Dyer, Amore a Venezia. Morte a Varanasi (tit. originale: “Jeff in Venice. Death in Varanasi”), Torino, Einaudi, 2009: una meditazione surreale e semi-seria sulla vita che scorre


Geoff Dyer è un autore anomalo e mi piace proprio perché è un’anomalia, è diverso dagli altri; scrive libri che è difficile, se non impossibile, riuscire ad etichettare, proprio perché concepiti al fine di varcare i confini, le etichette, i cosiddetti “generi letterari”. Spero di averne conferma leggendo il suo But Beautiful. A Book about jazz (tradotto in italiano con il titolo “Natura morta con custodia di jazz”); la prima volta, invece, l’ho capito leggendo quella personalissima e, per certi versi, geniale “storia della fotografia” che è The Ongoing Moment (“L’infinito istante. Saggio sulla fotografia”, Torino, Einaudi, 2007), in cui l’autore ripercorre buona parte della storia di quest’arte indagandone il fascino, il mistero e alcune delle prove migliori (alcune delle opere d’arte dell’arte fotografica) dal suo soggettivo e volutamente “non specialistico” punto di vista; lo dice lui stesso, a p. 8 del libro-saggio (o romanzo-saggio o “storia personale della fotografia”):

“[…] io non sono un fotografo. Non voglio semplicemente dire che non sono un fotografo professionista o serio; intendo proprio dire che nemmeno posseggo una macchina fotografica. Le sole volte che scatto delle foto è quando i turisti mi chiedono di fargliene una, con la loro fotocamera (queste rare opere sono adesso disperse in giro per il mondo in collezioni private, soprattutto in Giappone)”.

Soffermiamoci per un momento sulla frase contenuta all’interno della parentesi: questa frase incarna alla perfezione il sense of humor tipicamente inglese di questo scrittore (inglese fin nel midollo, a mio modo di vedere “italiano”). Dyer sa parlare di morte, di stragi, di paesaggi invernali e di solitudine, di panchine vuote e di spogliarelliste tristi, con un tono ironico che riesce a strapparti un sorriso anche quando – appunto – l’argomento è intriso di tristezza e angoscia e dolore…

E’ quanto si riscontra leggendo anche Amore a Venezia. Morte a Varanasi, due romanzi in uno, o un romanzo diviso in due parti, tra loro comunicanti, anche se non in modo così netto e diretto. La prima parte è scritta in terza persona; la seconda, invece, in una prima persona che sembra avere molti (molti?) punti di contatto con quella che sembra essere la “personalità” eccentrica e irrequieta dell’autore stesso.

Spazio e Tempo: la prima parte, come è facile intuire dal titolo, si svolge tutta in Italia, in una Venezia attanagliata dal caldo torrido dell’estate del 2003; la seconda, invece, in India, in quella città che prima si chiamava Benares e che oggi si chiama Varanasi. Qui il tempo sembra essersi fermato; o meglio, il protagonista riesce a staccarsi in modo così radicale dalla percezione “occidentale” del tempo da desiderare di restare a vivere a Varanasi e di abbandonare la natia Londra a tempo indeterminato. Non ci sono date che ci consentano di stabilire o ricostruire una “cronologia interna” alla seconda parte del romanzo.

In Amore a Venezia accompagniamo il protagonista, Jeff Atman, per le calli della città lagunare nel periodo in cui vi si organizza la famosa Biennale d’Arte Contemporanea. Il lettore si diverte a spiare i gesti, le parole, i tic nervosi di tutta una serie di personaggi dell’arte e dello spettacolo che sembrano non fare altro che partecipare a party in cui si beve a scrocco bellini, vini vari e superalcolici a fiumi. Se Dyer voleva ri-scrivere la quasi-omonima novella lunga (o romanzo breve) di Thomas Mann Morte a Venezia, beh, bisogna riconoscere che ci è riuscito appieno. Tanto Gustav von Aschenbach rifugge dalla passione omosessuale che sente per il fanciullo in fiore Tadzio, quanto Jeff Atman dà sfogo e persegue la passione etero che scoppia non appena il suo sguardo incrocia quello della bella gallerista americana Laura. I due “critici d’arte” non si danno appuntamento contando sul fattore “casualità”: a Venezia ci si rincontra tutti, e ci si perde in continuazione, tra canali, ponti e calli che sfociano chissà dove… E così è: Atman trascorre intere nottate di sesso (e droga) in compagnia di Laura, con la speranza che questo amore improvviso possa continuare a vivere in eterno (quando sia Laura sia noi lettori sappiamo bene che così non sarà).

Ecco, questa prima parte è davvero ricca dell’umorismo anglosassone di Dyer. Le pagine in cui descrive la gioia di Jeff davanti al corpo nudo di Laura ci ricordano per certi versi le pagine migliori del Philip Roth di Lamento di Portnoy (o de Il teatro di Sabbath, tanto per fare un altro esempio). In questa prima parte il lettore ride, sorride, si emoziona e prova una certa compassione per Jeff Atman perché sa che quanto Jeff Atman sta sperimentando è condannato a finire. Come la Biennale, con le sue infinite feste private in appartamenti extra-lusso. E come una storia d’amore nata all’improvviso in una città che del romanticismo ha fatto quasi un suo marchio di fabbrica (e si sa che tanto, ormai, Venezia non esiste; o meglio, ormai ci si è talmente assuefatti all’idea che di Venezia si sono fatti gli artisti, i poeti, gli scrittori e i pittori che ci hanno preceduto che quando ci vai ti rendi conto del fatto che quanto vedi lo avevi già visto prima e che, perciò, non ti appare più reale della stessa Venezia vista in foto, descritta in un romanzo, studiata in un saggio di storia dell’arte).

La seconda parte, invece, è più lenta, triste, meditata. Non sappiamo se a parlare sia ancora lo stesso giornalista e critico d’arte che abbiamo conosciuto sotto il nome di Jeff Atman. Sta di fatto che qui il narratore in prima persona assomiglia molto all’Atman già noto per certi suoi tic nervosi e per il fatto di essere anche lui una sorta di viaggiatore incallito, di flâneur di benjaminiana memoria, che lascia Londra e si reca in India non per ricevere l’illuminazione, non per praticare yoga e ritrovare se stesso o tastare la qualità del suo karma, ma per osservare con occhio attento, il più possibile razionale e analitico, quello che è diventata oggi una città turistica come Varanasi.

E’ in Morte a Varanasi che il protagonista smette di pensare all’amore (e al sesso) e si concentra sul tema della morte (fisica e spirituale) di chi lo circonda. Orde di turisti occidentali si avvicinano al Gange con atteggiamento di schifo o di rigetto quando scoprono che è un fiume pieno di rifiuti (carta straccia, ossa di animali e, a volte, di esseri umani, cenere e buste di plastica lo solcano nell’indifferenza generale della popolazione locale). I bambini e gli adulti del posto cercano di accaparrarsi qualche spicciolo anticipando nel pensiero i desideri dei turisti. Tutti si prostituiscono a Varanasi – chi noleggiando la barca, chi predicendo il futuro nel palmo della mano, chi vendendo roba vecchia – perché sono tutti indicibilmente poveri. Il protagonista, che alloggia in uno degli hotel di lusso della città, non può non constatare come Varanasi sia il centro ideale - quasi il fulcro - della povertà mondiale. C’è una scena particolarmente cruda in cui il narratore, su una riva del fiume, scorge un morto disteso con la faccia a terra e vede come un cane stia mangiandone le braccia nella più completa calma, assolutamente indisturbato. Nessuno si scandalizza; nessuno si preoccupa di recuperare il cadavere dalle zanne del cane. Anche le battute e gli slanci ironici del narratore diminuiscono per fare spazio a una visione critica o, per meglio dire, satirica della religione del luogo. Gli induisti sembrano essersi specializzati nell’inventare un Olimpo in cui gli dèi sono: a) troppi; b) dai nomi troppo complessi; c) troppo labili, nel senso che, come si evince dalla lettura delle Upanishad (l’insieme dei libri sacri dell’Induismo), cambiano spesso di ruolo, di sesso e di nome tra di loro, lasciando nello sconcerto il lettore troppo legato agli schemi razionalizzanti dell’Occidente e delle religioni monoteiste. Come vivere in un contesto del genere? Come occupare il tempo a disposizione?

Mentre i turisti vanno e vengono, lui resta da solo, incastrato in un tempo “altro”, all’interno di uno spazio “altro” in cui il tempo stesso sembra essersi fermato (altro riferimento intertestuale a un’altra opera fondamentale di Thomas Mann? Quella stessa Montagna incantata che permetterà ad Hans Castorp di raggiungere una migliore conoscenza di sé e degli altri?).

Il narratore è fermo e scava dentro di sé. Riporta i pensieri che gli ispirano gli altri turisti, gli indiani locali e il paesaggio. E sente di trasformarsi lui stesso in un nuovo “io”, in un “altro da sé” che ancora deve imparare a conoscere.

Quello che era cominciato come un romanzo divertente e divertito sul mondo dell’arte e sull’amore diventa una riflessione surreale, per metà seria e per metà tragicomica, su quello che siamo diventati oggi… Venezia e Varanasi come i due nuclei geografici dai quali è possibile partire per scindere l’atomo e vedere cosa contiene. Anche se, come recita l’epigrafe finale del libro, sappiamo bene che: “Ciò che è qui è anche lì, e ciò che è lì è anche qui”. Un libro inclassificabile, quindi, che mette in crisi le normali coordinate spazio-temporali per parlarci di noi, qui e oggi…(o lì e ieri, dipende).

jueves, octubre 29, 2009

Nabokov e l'uomo di Neardenthal

Le magie di internet permettono d'inviare un libro quando ancora è nella fase di bozza via email e nel giro di pochi secondi da un posto all'altro della Terra, come, per esempio, dalla Spagna all'Italia...Una specie di miracolo, che mi lascia ogni volta a bocca aperta... E il miracolo si ripete: stamane l'amico Enrique L.T. mi ha inviato in allegato una copia di un suo saggio sulla "favola" come genere letterario. Il saggio è coraggioso e, per scovare le origini del genere, risale talmente indietro nel tempo da arrivare all'uomo primitivo che dipinse le prime pitture parietali nelle famose "cuevas" di Altamira. Del saggio mi è rimasta impressa una citazione, in particolare, di quel geniaccio di Vladimir Nabokov (di cui è possibile ascoltare la voce in un video scovato in rete dalla sempre generosa Gabrilù nel suo interessantissimo blog Non solo Proust - vedi lista ad latere e post in data 17/10/2009); questa è la citazione (da me tradotta - malamente - dallo spagnolo all'italiano):

"La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzo arrivò correndo dalla valle di Nearderthal al grido di "al lupo! Al lupo!", con un enorme lupo grigio che lo inseguiva; la letteratura nacque il giorno in cui un ragazzo arrivò correndo al grido di "al lupo! Al lupo!", senza che ci fosse alcun lupo che lo inseguisse. Il fatto che il povero ragazzo finisse divorato da un animale vero per aver mentito troppe volte è solo un mero incidente. Tra il lupo della steppa e il lupo della storia incredibile c'è un luminosissimo termine intermedio. Questo termine intermedio, questo prisma, è l'arte della letteratura".

Da V. Nabokov, Curso de Literatura Europea, Barcelona, Ediciones B, 1987, pp. 28-29 (che, se non vado errato, coincide con la versione italiana di Lezioni di letteratura, Milano, Garzanti, 1991).

jueves, octubre 22, 2009

David Foster Wallace docet (su tempo, pensiero e linguaggio)




"Ecco un altro paradosso: nella vita di una persona la maggior parte dei pensieri e delle impressioni più importanti attraversano la mente così rapidi che rapidi non è nemmeno la parola giusta, sembrano totalmente diversi o estranei al cronometro che scandisce regolarmente la nostra vita, e hanno così pochi legami con quella lingua lineare, fatta di tante parole messe in fila, necessaria a comunicare fra di noi, che dire per esteso pensieri e collegamenti contenuti nel lampo di una frazione di secondo richiederebbe come minimo una vita intera ecc. - eppure sembra che andiamo tutti in giro cercando di usare la lingua (quale che sia, a seconda del paese d'origine) per cercare di comunicare agli altri quello che pensiamo e per scoprire quello che pensano loro, quando in fondo lo sanno tutti che in realtà si tratta di una messinscena e che si limitano a far finta. Quello che avviene dentro è troppo veloce, immenso e interconnesso e alle parole non rimane che limitarsi a tratteggiarne ogni istante a grandi linee al massimo una piccolissima parte. La velocità mentale interna o quello che è di queste idee o ricordi, percezioni o emozioni e via dicendo è perfino più veloce - esponenzialmente, inimmaginabilmente più veloce - in punto di morte, cioè durante quel nanosecondo così minuscolo e sul punto di sparire che separa il momento in cui si muore tecnicamente da ciò che avviene subito dopo, perciò il cliché sull'intera esistenza che scorre come un lampo davanti agli occhi di chi è in punto di morte non è poi così peregrina - anche se in questo caso intera esistenza non vuol dire una sequela ininterrotta dove prima nasci e poi sei nella culla e poi sei al piatto nella squadra dell'American Legion ecc., che in fondo è quello che pensano un po' tutti quando dicono "la mia intera esistenza", riferendosi a una serie cronologica, discontinua, di momenti che mettono in fila e chiamano vita. Non è affatto così. Non mi viene in mente un modo migliore per dirlo se non che succede tutt'a un tratto, ma questo a un tratto non significa certo un momento finito di tempo all'interno di una sequela ininterrotta nei termini in cui consideriamo il tempo quando siamo vivi, e poi quello che risulta essere il significato dell'espressione la mia vita non si avvicina neanche lontanamente a quello che crediamo di dire quando diciamo "la mia vita". Le parole e il tempo cronologico creano tutti questi equivoci assoluti su quello che succede per davvero a livello elementare. Eppure al tempo stesso la lingua è tutto ciò che abbiamo per cercare di capirlo e per cercare di instaurare qualcosa di più vasto o significativo e vero con gli altri, il che è un altro paradosso".

David Foster Wallace, "Caro vecchio neon", in Oblio, Torino, Einaudi, 2004, pp. 180-81.

[P.S.: Diciamo che neppure Roman Jakobson né Ludwig Wittgenstein - il tizio nella foto - sarebbero stati più chiari di lui qui; diciamo pure che sia Henry James che James Joyce sarebbero stati d'accordo - soprattutto l'ultimo, forse, che ha impiegato quasi mille pagine per descrivere i pensieri di un gruppo di persone così come si presentano, nascono e si intrecciano all'interno delle loro menti e nell'arco di sole 24 ore].

sábado, octubre 17, 2009

Una foto

Qui, in provincia de L'Aquila, fa più freddo che a Firenze (o che a Roma). Diciamo pure che fa un freddo becco (come direbbero in Toscana). Ma col camino acceso è tutta un'altra cosa, si sta bene, viene voglia di fumare e di stare fermi a guardare la legna ardere, tutto quel calore che ti avvolge e ti ispira e ti rilassa e ti fa venire voglia di abbracciare l'amata, il cane (Laika), la mamma... Una sensazione avvolgente totale; una bella sensazione (come di essere tornato in porto dopo una lunga traversata o una tempesta che ha messo a repentaglio la tua e la vita degli altri).

Poi, per una qualche strana distrazione, ti rechi in sala e ripeschi due vecchi album di fotografie. Le foto risalgono a dieci, undici, addirittura tredici anni fa... E fa effetto riguardarsi con un altro viso (che sembra lo stesso, ma non lo è, perché nel frattempo anche il tempo ha fatto la sua parte e ha distrutto o livellato quanto c'era da distruggere o livellare - quanti di quei sorrisi potrò ancora bissare? Quanti di quegli sguardi così spensierati e innocenti e ingenui? Perché il passato, visto dal presente, ci sembra sempre così innocente e ingenuo?).

Ad un tratto, senza saperlo e senza volerlo, senza quasi rendertene conto, t'imbatti in una foto che avevi completamente dimenticato di avere scattato... Risale (questo sì, lo ricordi) a circa 11 anni fa; la scattasti a una persona per te speciale in Spagna, dentro una Ford Fiesta rosso bordò, parcheggiata sulla spiaggia di un paesino vicino Valencia (o era Santander?) di cui ormai non ricordi più il nome (né le vie né le principali attrazioni).

Un tempo lontano, uno spazio lontano, un "c'era una volta" che adesso, ahimè, non c'è più...

Ricordi che la spiaggia era deserta; che era notte fonda; che forse tu e la ragazza della foto eravate andati a ballare in discoteca. La ragazza appare in primo piano e ha la testa distesa su un giaccone imbottito di colore grigio che fa venire caldo solo a guardarlo. I capelli, lunghi e neri, sono sciolti sopra il sedile, il viso è pallido, ma sorridente, o meglio, la ragazza sembra accennare un sorriso, anche se è strano, perché in realtà l'intera posizione che occupa sul sedile fa pensare al sonno, sembra stia dormendo o che si stia per svegliare (ha dormito o è in procinto di alzarsi da quel sedile ribaltato?). Un braccio (quello destro) poggia in parallelo lungo il giaccone fino ad arrivare alla nuca, la mano (sempre quella destra) sembra sfiorare la fronte, mentre braccia e mano sinistre si indovinano in stato di riposo assoluto, magari sul grembo, o sopra le ginocchia distese anch'esse, anche se nell'inquadratura della foto non appaiono...

Una ragazza che sembra stia per addormentarsi (o che sembra stia per ridestarsi da un piacevole sonnellino estemporaneo) sorride e tu scatti la foto, convinto di poter congelare per sempre quell'istante, curioso di vedere come uscirà questo primo piano del viso, già predisposto a pregustarti lo spettacolo e a pensare a come sarà questa foto fra dieci, venti o trent'anni...

E poi ti viene da piangere. I dieci anni sono effettivamente passati, quella ragazza non è più dentro quella macchina, né tu sei più tornato in quel paesino in riva al mare, e non sai nemmeno che fine farai, senza di lei, nel futuro... senza quel sorriso misterioso, di persona che comunque sembra godersi la vita, e gioire di quanto la circonda, ti senti più vulnerabile e triste. E riscoprire che quella foto con quel sorriso esiste, non può che farti male, e farti venire una nostalgia enorme di un passato che (lo sai bene) non ritorna...

E allora ti viene da piangere di nuovo, ti viene un magone e una tristezza ancora più lacerante. Ma smetti subito, è da sciocchi piangere davanti a una foto, tanto quella ragazza non ti può sentire, né ti guarda, né sa che tu, in questo momento, la stai guardando di nuovo, dopo tanto tempo passato (non) invano...

Ed è doloroso, fa male, pensare a quello che starà facendo oggi quella stessa ragazza dal sorriso enigmatico e vorresti (ma non puoi) chiederle il perché di quel sorriso, se avevate appena fatto l'amore o se eravate in procinto di farlo, se stava riposando davvero o se faceva solo finta di dormire, tanto per mettersi in posa e permetterti di scattare la foto; se vi eravate davvero amati o era solo una finzione. Se ci tornerebbe, dentro quella macchina, per rifare tutto daccapo...foto inclusa... con sorriso misterioso incorporato... o lasciare tutto com'è, lasciare che il tempo sia trascorso e che lo spazio continui a tenervi lontani l'uno dall'altra, che la vita si sia indirizzata verso altri lidi e altri porti...

martes, octubre 13, 2009

Inglorious Basterds di Quentin Tarantino (USA, 2009): il cinema come sogno a occhi aperti (e come arma di distruzione di “massa nazista”)

Non capisco chi, come Antonio Muñoz Molina, critica l’ultimo capolavoro di Quentin Tarantino usando un giudizio di tipo esclusivamente etico, quando un film (come un quadro, o un romanzo, o un’opera lirica) è soprattutto un “prodotto” di tipo estetico e che andrebbe giudicato, gustato o criticato sul piano dell’estetica (su che cosa si debba poi intendere con la parola “estetica”, beh, questa è una questione talmente ampia e sfaccettata e complessa che per ora la lascio cadere qui, non vorrei appesantire troppo un post che vuole essere solo il semplice resoconto di uno spettatore medio che ha appena visto l’ultimo capolavoro di Tarantino). Non possiamo (come fa appunto Muñoz Molina, con tono scorato, nell’articolo “Pasados interactivos”, apparso per il supplemento “Babelia” ne El País del 10/10/09) condannare un film come questo perché non rispetta il passato storico e sembra sbeffeggiare la memoria di quanti quel passato lo vissero, subendolo fino alla perdita della loro stessa vita. E’ come condannare un film di fantascienza perché è ambientato su Marte e ci fa credere che su Marte non solo possa esserci vita, ma sia facile costruirci delle case per gli umani. Tarantino non ha avuto intenzione di fare un film sulla Seconda Guerra Mondiale; ha usato la Seconda Guerra Mondiale come sfondo per un film dei suoi, e si sa, quando vai a vedere un film “tarantiniano” è altamente improbabile che non si assista a scene di violenza cruda e crudele o a dialoghi brillanti intervallati da un sacco di parolacce o a storie i cui protagonisti sono quasi sempre dei criminali o dei comuni mortali che, messi davanti a un qualche ostacolo o offesa grave, si trasformano improvvisamente in assassini assetati di sangue… (come è altamente improbabile che chi va a vedere un film di Woody Allen non scoppi a ridere nel corso della proiezione del film stesso; e chi uno di Nanni Moretti non cominci a riflettere su cosa è diventata l’Italia oggi e chi la governa; e via di seguito).

Un indizio che ci consiglia di non interpretare il film come un “film di guerra”: l’incipit. Il prologo del film è introdotto da questa didascalia: “C’era una volta…” con i puntini di sospensione. Solo in seconda battuta la scritta continua: “…nella Francia occupata dai nazisti nel 1944”. Cos’è che di solito comincia con la frasetta tipica: “C’era una volta”? Le favole, le quali, lo sanno anche i bambini, parlano di cappuccetti rossi, di cenerentole, di gatti con gli stivali e di piccole fiammiferaie, con raro (o scarso) rispetto per il cosiddetto “principio di verosimiglianza”. Che poi una favola contenga anche una sua “morale” (o, a volte, una sua “lezione moraleggiante”), questo è un altro dato di fatto di cui tener conto. Forse anche Inglorious basterds vuole inviare un messaggio morale (o “moraleggiante”) allo spettatore; forse anche Tarantino vuol darci una lezione su cosa sia bene e cosa male; sta di fatto che il tutto (l’intera trama, con i suoi personaggi e comprimari) è inserito all’interno di una narrazione “inverosimile” o semi-fiabesca.

Lo spettatore medio sa che la Seconda Guerra Mondiale è scoppiata per quei dati motivi e in quei giorni precisi di quel determinato anno del secolo scorso. Sa anche che i nazisti guidati da Hitler hanno tentato di sterminare l’intera razza ebraica. Magari, se è uno spettatore colto, avrà letto anche un sacco di libri che gli parlano di quei fatti (di quella parte della nostra Storia passata); ma se lo spettatore (medio o colto che esso sia) sta guardando (o si appresta a farlo) un film di Tarantino, sa anche che tutti quei dati non gli serviranno granché ai fini della comprensione e/o apprezzamento del film; sa che Tarantino gli sta organizzando un altro tipo di gioco, sta mettendo su una partita le cui carte mantengono scarsa attinenza con “quello che accadde veramente”.

Un esempio banale: per l’intera durata del film non si vedono bombardamenti aerei (cosa che ha contraddistinto proprio la Seconda Guerra Mondiale rispetto, poniamo, alla Prima). Ma non finisce qui: se la memoria non mi tradisce, per l’intero film non si vede mai nemmeno un carro armato (nemmeno uno!) di quelli usati dagli americani o dai tedeschi.

Ma torniamo a Tarantino: cosa fa il regista con i dati che gli offre la Storia? Li ri-scrive e rimodella ai suoi fini (estetici). Fini che forse sfiorano la questione morale nel momento stesso in cui contraddicono quello che tutti noi (spettatori medi o colti) sapevamo sui termini contrapposti di “nazista” ed “ebreo”, essendo il primo un termine che identifica il Nemico o l’Assassino e il secondo un termine che identifica la Vittima. Ebbene, Tarantino s’inventa per il suo film “a-storico” o “fintamente storico” un gruppo di soldati americani di origini ebraiche che sbarcano sul territorio francese per fare il maggior numero di vittime tra le fila dei nazisti tedeschi. Il comandante della missione è Aldo Raine (interpretato dal bravissimo Brad Pitt), uno che non guarda in faccia nessuno e che pretende che i suoi uomini non si limitino solo ad ammazzare nazisti, ma si impegnino anche a tagliare loro lo scalpo (come facevano gli indiani con i cow-boys).

Ora, è ovvio, è chiaro a tutti coloro che se la sentono di andare avanti con la visione del film: qui il regista non va per il sottile; tu spettatore (medio o colto) sai già prevedere quello che ti aspetta, quello cui andrai incontro se continuerai a guardare le immagini del film. E quindi, se accetti la sfida e non ti alzi dalla tua bella poltroncina, stai già accantonando ogni remora morale (o moralistica) intorno alla succitata suddivisione assiomatica tra “nazisti” ed “ebrei”, hai già dimenticato (anche se lo dimentichi solo per l’arco temporale in cui si sviluppa il film) che i primi sono i Nemici/Assassini e i secondi le Vittime. Hai già messo da parte ogni “credenza” pre-costituita e, semmai, ti domandi solo se a quei tempi fossero esistiti davvero “ebrei” tanto cattivi da arrivare a incarnare la stessa cattiveria nazista contro cui si battevano (e, ripeto, è qui, in parte, la “morale della favola” che Tarantino potrebbe inviarci attraverso la trama del suo ultimo film; una “morale” politicamente scorretta che potrebbe far incazzare sia qualche nazista nostalgico dei tempi di Hitler sia qualche ebreo che potrebbe sentirsi offeso nel vedersi descritto come un criminale assetato di sangue d’origine germanica).

Ecco, i metri di giudizio di tipo etico sono stati messi da parte. Possiamo cominciare a guardare il film per quello che è: un “film tarantiniano”. E’ geniale Brad Pitt nell’impersonare questo comandante cazzutissimo. Come sono geniali i suoi soldati (spicca su tutti Eli Roth, che interpreta la parte del sergente Donnie Donowitz, alias l’Orso Ebreo, specialista nello spaccare letteralmente la testa del nemico con una mazza da baseball). Così come mi è sembrata molto convincente l’interpretazione di Mélanie Laurent nel ruolo dell’ebrea scampata alla furia del “cacciatore di ebrei”, il colonnello sadico Hans Landa (anche questo, ottimamente interpretato da Christoph Waltz).

La trama: mentre il gruppo dei cosiddetti “bastardi senza gloria” sta per entrare in contatto con una famosa attrice tedesca diventata spia al soldo degli alleati, Shosanna, l’ebrea scampata al massacro del colonnello Landa e divenuta gestrice di un piccolo cinema nel centro di Parigi, viene corteggiata da un famoso e giovane soldato tedesco che se ne innamora. In seguito a questo incontro, la ragazza finirà con il sedere a tavola dinanzi al gerarca Joseph Goebbels, il Ministro per la Propaganda del regime nazista, il quale sceglie di accondiscendere alle richieste del soldato innamorato di Shosanna e decide di spostare nel cinema della ragazza la prima di uno dei suoi ultimi film di propaganda. Questo cambiamento di programma si rivelerà come l’imprevisto perfetto per permettere a Shosanna di vendicare la sua famiglia e, soprattutto, di far fuori tutti i più alti rappresentanti politici del Terzo Reich, incluso il famigerato e stressatissimo Adolf Hitler…

Mi fermo qui: non posso rovinare il finale a chi non ha ancora visto il film. Ma già da qui si capisce come per Tarantino il cinema diventa non solo un mezzo per raccontare una storia; non solo il sotterfugio che potrebbe permettere a Shosanna di vendicare i suoi cari trucidati brutalmente dai nazisti; ma, addirittura, di ri-scrivere o re-inventare la Storia per lasciarci ipotizzare come sarebbe stato il nostro presente se qualcuno avesse eliminato Hitler prima che questi facesse ciò che sappiamo che ha fatto…

Il cinema fa sognare anche quando permette di volare con la fantasia e permette d’immaginare un finale che non c’è mai stato (ahinoi). Il cinema fa sognare a occhi aperti perché ci mostra quello che avremmo potuto essere e non siamo stati in grado di essere.

Se poi, nel corso del film, ci scappa qualche risata e uno spavento qua e là; se poi, durante le scorribande dei “bastardi” capeggiati da Aldo Raine, ti scappa da riflettere anche sulla Storia con la S maiuscola; se un film, in sintesi, riesce a farti ridere, spaventare, e riflettere, beh, allora vuol dire che è davvero un buon film e che ne è valsa la pena.

P.S.: unica nota di demerito che mi sento di fare riguarda la colonna sonora del film. Tarantino è un “mostro” nello scegliere i brani musicali che fungono da accompagnamento alle immagini. Lo è da sempre, sin dai tempi di Reservoir Dogs; lo è stato con Pulp Fiction e lo è anche con Kill Bill e Grindhouse; qui, invece, la colonna sonora sembra meno incisiva. Ed è un vero peccato. Anche se questo nulla toglie a quanto detto sopra…

lunes, octubre 12, 2009

sábado, octubre 10, 2009

Le théoème d’Almodóvar di Antoni Casas Ros: la letteratura come redenzione


Non è affatto facile per me parlare di questo romanzo; non lo è per diversi motivi. L’ho scoperto su consiglio del solito Enrique Vila-Matas (una vera e propria guida, una specie di Virgilio benevolo, nel meraviglioso e intricato mondo della letteratura “altra”, dei libri “rari” e “strani” che si continuano a pubblicare ancora oggi, nonostante l’industria dei cosiddetti best-sellers e nonostante lo strapotere della cosiddetta “industria culturale” – un vero e proprio ossimoro, altro che). Ma non solo; è strano anche il modo in cui ne sono venuto in possesso: l’ho comprato in Spagna in francese per un mero calcolo economico: l’edizione tascabile di Gallimard costava solo 6 euro, mentre quella in spagnolo (apparsa presso Seix Barral) veniva sui 17. E così, mi sono ritrovato a leggere un romanzo in francese scritto da un autore esordiente per metà italiano e per metà spagnolo (madre piemontese e padre catalano – di qui il doppio cognome e la scomparsa della “o” dal nome Antonio), romanzo acquistato a Barcelona (città in cui lo stesso Casas Ros ha vissuto per svariati anni) e letto a Firenze, ma, scopro, ambientato a Genova (dove sembra che Casas Ros viva tuttora, dopo vari traslochi tra Parigi e Roma)…

La prima impressione è quella della vertigine spaziale. Leggo la storia di un individuo-nomade che sembra non avere pace e non trovare ancora una città in cui fissare la propria dimora. Ma basta andare avanti, leggere le prime pagine del romanzo, per rendersi conto che chi narra non solo ci parla di sé senza infingimenti apparenti, ma ci parla anche attraverso una prima persona che convince e attanaglia e cattura in modo quasi innaturale. Come si reagisce davanti a una voce simile? Con lo stupore, ovvio. Uno stupore destinato ad aumentare nel momento in cui ci rendiamo conto che chi parla ha perso letteralmente la faccia a causa di un incidente automobilistico. Al fine di evitare un cervo improvvisamente spuntato da un bosco, l’autore ha sbandato e l’auto è andata a finire contro un albero, causando la morte immediata della ragazza che gli sedeva accanto, Sandra, la sua fidanzata ventenne.

E’ un trauma e la scrittura sembra assolvere il ruolo terapeutico che alcuni gli attribuiscono: il dolore diminuisce, o si attutisce, se ne parli (o ne scrivi), se lo descrivi a parole e, così facendo, riesci a prenderne le distanze. E così il lettore si accorge subito di come tutto questo dolore, e il lutto per la morte della fidanzata, possa avere un ruolo positivo, nell’ambito della progressiva “ri-nascita” che l’autore tenta di portare a compimento attraverso la scrittura. Ci accorgiamo che solo soffrendo molto si capisce molto (o si riesce a scavare di più all’interno del mistero – di quello che è la vita e di quello che siamo noi, poveri individui limitati nel tempo e nello spazio).

Non si tratta solo di “perle di saggezza”. Si tratta di verità generali, di dimostrazioni quasi-matematiche della realtà (non è un caso allora che ogni capitolo inizi con un’epigrafe tratta da due saggi di Newton: De la gravitation e Du mouvement des corps) portate a capo da uno che non ha più una vita perché non ha più un volto (e, si sa, “Pour avoir un vie, il faut un visage”- p. 15 dell’ed. Gallimard, 2008). E qui tocchiamo uno dei punti nodali del romanzo, uno degli aspetti più originali e che ne fanno un’opera-prima davvero geniale: Casas Ros (o colui che ne assume la voce narrante) usa il tempo che intercorre tra l’incidente (avvenuto quando aveva 20 anni) e la scrittura del romanzo della sua vita-non-vita (34 anni suonati) per studiare matematica, la passione trasmessagli dalla madre, e per spiegare matematicamente il cosmo… come se fosse un nuovo Newton, o un neonato Einstein, pronto a dimostrare tutto…nonostante o forse grazie al fatto che vive una “non-vita”, appartato da tutti, in perfetta solitudine, perché nessuno accetterebbe mai di stare vicino a un “mostro”…

Peccato che la matematica non sia una scienza esatta. Ed è qui che il romanzo decolla. Puoi anche provare a trovare la formula magica che spieghi il perché di quell’incidente automobilistico. Puoi anche provare a scoprire il teorema che spieghi l’amore o la morte o la solitudine, ma la matematica (non dobbiamo mai dimenticarcelo) non è una scienza esatta, ed è forse questo quello che più conta, come sembra suggerirci lo stesso narratore:

“J’amerais mettre en équation le désir, la créativité, l’audace, la peur, l’intrépidité, la solitude. Je vois un amphithéâtre plein d’étudiants passionnés cherchant à résoudre le théorème du désir. Je contemple dos corps désirants qui trouveraient en eux, dans leur chair, dans leurs céllules libérées de la pesanteur exacte, la clé du mystère. J’aimerais qu’un jour la médaille Fields, l’équivalent du Nobel pour le mathématiciens, soit décernée à celui qui aurait résolu l’équation du désir, de la folie ou celle de l’acte créateur” (id., p. 31).

Se è vero che la scienza non può comprendere il mistero, allora è pur vero che la letteratura (e l’arte, più in generale) sembra permetterci almeno di intravedere o di spiare quello stesso mistero in cui siamo tutti immersi, di guardare l’orlo dell’abisso.

L’uomo senza volto scrive e scrivendo ri-crea un nuovo mondo che, pur essendo caotico, aspira ad essere un cosmo in cui tutto torna, in cui tutto è possibile. In cui, addirittura, sarebbe possibile anche rinascere grazie all’amore. Ecco allora il significato profondo che assume per lui l’incontro, inaspettato, con Lisa, un transessuale che si prostituisce per le stradine di Genova e che sembra non avere paura del volto sfigurato della persona che ha davanti. Ecco allora possibile l’incontro di Casas Ros con uno dei suoi registi preferiti, quello stesso Pedro Almodóvar che poi darà il titolo al libro…

La letteratura come redenzione. E la scrittura come strumento in grado di ri-creare il mondo anche quando questo continui ad essere un caos (lontanissimo da quel “cosmo” che, ci dice la religione, Dio ha creato per noi umani, nati a sua immagine e somiglianza – ma per Casas Ros anche Dio, anche la creazione artistica, è una questione matematico-geometrica, una questione di “spazio”, come si evince da queste parole lucidissime: “C’est presque une question de géometrie. Nous avons l’habitude de résider dans un corps et nous n’avons que la vision qui émane de ce corps-ci; mais qu’une grande beauté, une grande peine, nous déplace dans l’espace et Dieu se profile. Ce qu’on appelle les conversions doivent résulter de ce déplacement. La misère même de notre pensée vient de l’espace contigu dans lequel notre cerveau fonctionne” (id., p. 36).

La scrittura, dunque, come mezzo per capire; per vedere come stanno veramente le cose; per essere Dio (o Newton o Einstein). Ecco allora il teorema che spiega la connessione tra “dittatura” e “sguardo”: “Toute la violence de notre temps, toute la crapulerie politique vient du fait que personne ne regarde personne. […] Les dicateurs ont toujours le regard fixe” (id. p. 79). Ecco la connessione tra la “nostra cultura” e l’ “anoressia”: “Toute notre culture est anorexique, toute notre civilisation. Nous avons l’oeil fixe” (id. p. 82). Ed ecco l’assioma finale, la parte fondante il “teorema di Almodóvar”: “il suffit de regarder assez longtemps pour transformer l’horreur en beauté” (id. p. 82).

E’ quello che fa Lisa davanti al viso sfigurato dell’autore; ed è quello che farà l’autore contemplando il mare e il cielo dalla terrazza di casa. Ecco perché possiamo definire quest’opera come un “romanzo romantico”: perché anche gli aspetti più tragici o brutti della realtà sono visti attraverso il punto di vista di un personaggio che non smette di sognare, che non smette di pensare alla possibile soluzione dell’equazione che trasformerebbe il caos in cosmo.

A un certo punto della trama, Casas Ros si ritrova davanti a quello stesso cervo che è stato la causa-prima della sua tragedia personale. Lisa resta interdetta, ma il cervo è mansueto e si lascia carezzare la testa. Casas Ros lo prenderà con sé e lo farà stare in terrazza, trattandolo come un altro membro della famiglia. La letteratura non solo redime, ma ci aiuta anche a sopportare con dignità le sconfitte. E a capire che, come dice il poeta (Roberto Juarroz, citato in epigrafe al romanzo): “Au centre du vide, il y a une autre fête”… ovvero: “En el centro del vacío, hay otra fiesta”…il che equivale a dire che: “Nel centro del vuoto, c’è un’altra festa”.

jueves, octubre 08, 2009


UN'EQUAZIONE





ALESSIO BERTALLOT sta alla MUSICA come ENRICO GHEZZI sta al CINEMA


Ieri mi sono lasciato andare e, mentre ascoltavo l'ennesima puntata di B-SIDE su Radio Deejay e senza freni inibitori, gliel'ho scritto al volo via email. Il bello è che m'ha risposto, in diretta!!! E molto modestamente ha detto che gli piacerebbe, essere come Ghezzi per il cinema... Poi chissà, magari una di queste sere si metterà a parlare anche lui fuori-sincrono...

domingo, octubre 04, 2009

Los cronocrímenes (tit. ing.: "Timecrimes"), di Nacho Vigalondo (Spagna, 2007)



Sono sempre stato affascinato dai film che parlano di "manipolazioni temporali" o che tentano d'indagare i paradossi legati allo scorrere del tempo (in cui tutti siamo immersi, volenti o nolenti, fino al giorno della nostra morte, quello della dipartita definitiva dal tempo, appunto). Credo di aver visto Back to the future ("Ritorno al futuro", USA, 1985) di Robert Zemeckis almeno 12 volte; e mi è piaciuto molto anche Memento (USA, 2000) di Christopher Nolan, sul detective che perde la memoria e che riesce a risolvere il caso (scoprire chi sia lui stesso, tra le altre cose) grazie agli appunti che si scrive su dei foglietti tipo post-it proprio perché ha una memoria a corto raggio troppo scarsa. Ho amato perfino quella commediola leggera interpretata da Bill Murray e intitolata Groundhog Day ("Ricomincio da capo", USA, 1993) su un povero meteorologo che finisce "incastrato" e obbligato a vivere sempre lo stesso famoso "Giorno della marmotta"...(il film, tra le altre cose, è ripreso - anche se solo di traverso - anche nel numero di questo mese di Dylan Dog, "Il giorno del licantropo", albo n.277, interessante e perfettamente disegnato da quel maestro di Angelo Stano).

In questa categoria possiamo far rientrare anche il geniale Los cronocrímenes ("Timecrimes", in inglese; "Crimini temporali" o "Crimini nel tempo", potremmo tradurlo in italiano) del giovane regista spagnolo Nacho Vigalondo. Il film evoca due capolavori della storia della letteratura "fantastica": Dr. Jekill and Mr Hyde di R.L. Stevenson (1886) e The Time Machine di H.G. Wells (1895). Non è un caso che entrambe queste storie abbiano ispirato un'infinità di trasposizioni cinematografiche. Il cinema è l'arte di manipolare il tempo ed è anche uno dei pochi strumenti "artificiali" in grado di farci vedere il lato "oscuro" della realtà e dell'animo umano. E così, Vigalondo parte da questi due grandi racconti quasi-archetipici per mettere in atto la sua personale "variazione sul tema", con tutta l'innocenza e l'ardore e l'abilità del regista che si trova a girare la sua opera-prima...

E' geniale la scelta dell'attore protagonista: faccia da perfetto uomo qualunque, o vicino della porta accanto, grasso e goffo, Héctor (interpretato dal bravissimo - e a me sconosciutissimo - Karra Ejelalde) si ritrova per sbaglio all'interno di una macchina del tempo ancora in fase di rodaggio. Il ragazzo che l'ha inventata ha sbagliato i suoi calcoli e così Héctor si ritrova un'ora indietro rispetto al suo tempo presente. Come fare per risolvere il problema? Rientrare nella macchina e spostare la lancetta di un'ora avanti?

Il film coinvolge lo spettatore grazie a una sceneggiatura veramente originale e ricca di colpi di scena che nemmeno il cervello più cervellotico poteva inventarsi.

Ma non finisce qui: Vigalondo sa infilare scene comiche o tragicomiche perfino nei momenti in cui la paura e la tensione sono espresse al loro massimo grado. E sono pochi i registi che sanno fare una cosa del genere.

Qui è possibile vedere il trailer del film:

http://www.youtube.com/watch?v=gfyQia26_mU

Mentre questo qui sotto è il bravissimo Karra Ejelalde:

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...