domingo, enero 31, 2010

Rettifica sul post precedente




[...] la nostra vita è così poco cronologica,
tanti anacronismi interferiscono nella successione dei giorni
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto
(All'ombra delle fanciulle in fiore. Parte II: Nomi di paese: il paese)

In realtà, e ripensando meglio la questione (adoro gli scrittori che ti obbligano a ripensare le questioni, che ti aprono la mente, che ti scombussolano le idee): non è che Proust ci spinga a stare da un lato o dall'altro dell'abisso (dentro o fuori del Tempo - l'uso del maiuscolo non è casuale, ovviamente). E' che tutti noi, in quanto esseri mortali, siamo sempre immersi fino al collo nel Tempo (nello scorrere inesorabile ed inarrestabile dei minuti e delle ore, dei giorni e dei mesi, degli anni...).

Posso guardarmi come "fuori del Tempo" solo se mi sforzo di osservare la mia vita dall'esterno, come se la mia fosse la "vita di un altro", come se io stesso fossi il "protagonista" della mia vita ancora da vivere (è quando Proust veste i panni di Marcel, del Narratore, che - essere mortale, in carne ed ossa, soggetto al potere del Tempo - può riuscire a parlare di sé come personaggio fuori del Tempo - o come essere la cui memoria (quand'è involontaria) gli permette, per pochi e rari momenti privilegiati, di cogliere verità o illuminazioni sul proprio "io" che esulano (sono perciò fuori) del Tempo.

Eppure è proprio questa possibilità: di vedere la mia vita come un romanzo e di considerare il mio "io" come un personaggio a mettermi davanti all'incapacità di vivere davvero fuori del Tempo, senza la presenza ingombrante e, a volte, opprimente, dello scorrere delle lancette sull'orologio...

Si tratta, insomma, di un'illusione o di una "menzogna romanzesca". Io non posso, ad esempio, immaginarmi il capitolo finale, l'ultima pagina della mia vita: come dimostra Freud in vari suoi scritti sul tema, posso immaginarmi la mia morte solo proiettando quest'ultima sulla morte di un altro. Posso pensare la morte di uno sconosciuto, la morte di un amico o di un parente, posso addirittura immaginare la morte di un padre o di una madre, ma non potrò mai immaginare sul serio il giorno e il modo in cui io smetterò di vivere. Si può narrare la propria morte, fingendosi fuori del Tempo, solo grazie all'immaginazione delle morti altrui (che poi vivere consista anche nell'accettazione dell'essere stati gettati nel mondo proprio in quanto "esseri-per-la-morte", beh, questo è un altro paio di maniche su cui Heidegger ha riflettuto a lungo e ci ha illuminato parecchio, dicendo cose molte interessanti, anche se con linguaggio a volte davvero troppo arzigogolato, nel suo Essere e tempo...).

Anche lo spagnolo Javier Marías, come Proust, ha riflettuto in varie sue opere su tale strano legame che abbiamo col Tempo (e sulla dicotomia spaziale tra lo "stare fuori" e lo "stare dentro" il Tempo).

Prendiamo un curriculum vitae: ebbene, esso dovrebbe incarnare alla perfezione questo nostro tentativo di vederci come "personaggi di un romanzo (ancora) da scrivere" (o "persone di una vita (ancora) da vivere"); in un curriculum vitae io organizzo il "mio tempo" in parti, capitoli, paragrafi ben precisi e separati cronologicamente tra loro per comunicare e mostrare agli altri "quello che io sono" in quanto essere mortale immerso nel Tempo. Peccato, però, che, troppo spesso, ci si dimentica di valutare (e apprezzare) debitamente anche quegli eventi, quei progetti, quelle aspirazioni che, non essendosi concretizzate nel Tempo, non vengono annoverate come facenti parte integrante del curriculum. Quando invece e a ben guardare noi siamo fatti non solo di quanto abbiamo effettivamente fatto, ma anche e soprattutto di quanto avremmo voluto fare e non siamo riusciti a fare. Non solo di lavori concreti e portati a termine, ma anche di sogni, illusioni e aspirazioni ancora non realizzate. E quindi consistiamo sia di tempo concreto e computabile e matematicamente misurabile, ma anche di tempo potenziale, non tangibile e non calcolabile e che chissà se un giorno arriveremo a vivere (dal "di dentro", oltre che "dal di fuori").

sábado, enero 30, 2010

Le citazioni di Proust: tra echi e rime interne

L'aveva già detto Italo Calvino in una raccolta di saggi tanto brevi quanto densi, le famose (e inconcluse) Lezioni americane: "Come nelle poesie, così nei testi in prosa, nei racconti o nei romanzi, ci sono frasi che rimano tra loro, avvenimenti che riecheggiano e creano un sistema di echi e di ritmi interni non dissimile da quello che formano le rime in un sonetto" (la citazione è mia e non verbatim).

Proust ne è l'esempio (forse) più esplicito: nella Recherche (ovvero: nel maremagnum della Recherche) certi personaggi, alcuni fatti, determinati ricordi del Narratore si ripetono, vengono citati o ricordati in modo leggermente diverso da quando sono stati evocati per la prima volta in un modo tale che il lettore non può non avvertirli come una sorta di dejà-vu (con tutta la carica d'inquietudine, di vertigini, d'instabilità ontologica che questo fenomeno è solito suscitare in ognuno di noi). Ed esemplare, in tal senso, è l'uso (polimorfico e polisemico) delle citazioni, le quali vengono predisposte e organizzate da Proust proprio per dare vita ad una sorta di sistema di sotto-testi o sotto-trame nascoste che, in modo a volte implicito e altre decisamente enigmatico, punteggiano l'intera trama del romanzo.

In un post precedente ho citato Barthes e la sua teoria dell'effet du réel per dire che a Proust quell'effetto di realtà non interessa affatto: se Proust inserisce i nomi veri (reali) delle strade della Parigi a lui contemporanea (o dei negozi alla moda, delle chiese più note, dei posti più chic, degli angoli più pittoreschi e meno noti) non è per dare l'idea di un maggiore realismo, di una maggiore e presunta fedeltà del narratore alla realtà che descrive, quanto per immergere quei pezzi di realtà dentro la cornice "autonoma" del suo romanzo (è da Omero che gli scrittori mescolano realtà e fantasia; ma è da Cervantes che si arrischiano a usare i pezzi della realtà, le nozioni che conosciamo sul piano della realtà, per farne strumenti utili a creare la "realtà" di secondo grado o la "realtà immaginata" del romanzo; Proust cita pezzi di realtà come fossero oggetti utili a puntellare la realtà "altra" del suo romanzo; e se oggi uno storico volesse conoscere usi e costumi della Parigi dei primi del 900 avrebbe maggori probabilità di scorgere la verità andandosi a rileggere la Recherche piuttosto che spulciando i libri di storia dedicati alla stessa materia...).

E così, in una citazione che parla del tempo, il Narratore può esprimere verità che verranno ribaltate (o ingnorate o eluse) in una citazione successiva sullo stesso argomento...Un argomento clou, visto anche il titolo dell'opera. E se in una prima citazione potrebbe anche legare il mistero del tempo al modo in cui esso entra a far parte degli strumenti che ha a disposizione il romanziere per dare un senso alla sua storia, così, in una seconda occasione, potrebbe allargare quello stesso tema per includervi...se stesso in quanto "scrittore in erba" o "romanziere in potenza" della propria vita personale.

E' quello che succede alle pp. 582-83 (da Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, "All'ombra delle fanciulle in fiore. Intorno a Madame Swann"):

"Il secondo sospetto [...] era ch'io non mi trovassi al di fuori del Tempo, bensì sottoposto alle sue leggi, esattamente come quei personaggi letterari che, proprio per questo, mi rattristavano talmente quando, a Combray, in fondo alla mia poltrona di vimini, leggevo la loro vita. Teoricamente uno sa che la terra gira, ma di fatto non se ne accorge, il suolo sul quale cammina sembra che non si muova, e si vive tranquilli. Lo stesso avviene col Tempo nella vita. E, per renderne percettibile la fuga, i romanzieri sono costretti ad accelerare follemente gli scatti della lancetta, facendo varcare al lettore dieci, venti, trent'anni in due minuti. [...]. Dicendo di me: "Non è più un bambino, i suoi gusti non cambieranno più, ecc.", mio padre aveva fatto apparire di colpo ai miei occhi l'immagine di me stesso dentro il Tempo, e mi causava un particolare genere di tristezza, come se fossi stato, non ancora il vecchio illanguidito dell'ospizio, ma uno di quegli eroi dei quali l'autore, in un tono che l'indifferenza rende particolarmente crudele, ci dice, alla fine d'un libro: "Lascia sempre più di rado la campagna. Ha finito per stabilirvisi definitivamente, ecc.".

Ora, questa riflessione (il Narratore che si vede come un personaggio letterario "dentro il Tempo" e non più fuori per colpa della frase del padre) è pronta e disponibile a nuove ri-scritture. E il lettore non potrà non stare all'erta: uno può anche sentirsi (percepirsi) fuori o dentro del Tempo; ma a partire da questa citazione non potrà non sentirsi partecipe degli "sprofondamenti" nel Tempo del Narratore. E starà attento a capire quando il Narratore vuole farlo sbilanciare da un lato o dall'altro dell'abisso che si apre tra "dentro" e "fuori".

lunes, enero 25, 2010

Lussuria, di Ang Lee (USA, 2007)


Sono riuscito a trovare un film in cui le scene di sesso non si riducono a una perlustrazione chirurgica o asettica dei corpi degli attori avvinghiati tra loro e in mezzo alle lenzuola né a una pudica ellissi che evita i "punti strategici" e le parti pudibonde prontamente tagliate dalla macchina da presa (e dall'autocensura), ma diventano parte fondante della trama, strumento attraverso il quale la storia va avanti, attorcigliandosi, magari, come quei corpi di cui sopra...

Si intitola Lussuria-Seduzione e tradimento ed è l'ultima opera girata da Ang Lee - regista che ho scoperto in tenera età con Il banchetto di nozze (1993) e che poi,da grande, ho imparato ad amare e apprezzare in tutto il suo splendore melodrammatico per lo strafamoso I segreti di Brokeback Mountain (2005).

La storia è ambientata negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, a Hong Kong: una giovane cinese sposa la causa rivoluzionaria, si schiera contro il nemico e accetta di andare fino in fondo, insieme ad un gruppo di studenti disposti a usare le armi, pur di vincere la loro guerra personale contro il Giappone.

La ragazza (interpretata dalla bella e brava - in questo caso il binomio è inevitabile - Wei Tang) riesce ad entrare in casa di Mr. Yee (il sempre perfetto ed elegante Tony Leung - l'attore feticcio di Wong Kar-Wai - quello di In the mood for love), un politico giapponese di destra (o schierato a favore dei giapponesi) che va a caccia di rivoluzionari e ribelli.

Il nocciolo del film è proprio la relazione che si instaura tra questi due esseri umani così diversi (nell'ideologia) e così simili (nell'atteggiamento a volte deciso e a volte completamente smarrito di fronte a eventi storici che li sorpassano e li fanno sbandare). Se lo scopo della ragazza è far cadere l'uomo in un agguato organizzato dai suoi amici, quello dell'uomo è portarsi a letto la ragazza nella stessa casa in cui vive con sua moglie. Quando i due, dopo alterne vicende e sguardi ammiccanti, si "incontrano", non saranno più gli stessi.




Come si può fare l'amore con una persona che detesti e di cui desideri la morte? Come si può anche solo immaginare di accettare di fare sesso con l'obiettivo della tua missione di morte? Come si può ancora desiderare la morte del nemico quando quel nemico si infiltra dentro il tuo stesso cuore e dentro l'anima, come un serpente, e non ti lascia più?

Le scene di sesso sono di una crudezza notevole: coinvolgono lo spettatore ma, al contempo, lo lasciano impietrito. Quei due che si amano e si odiano e che arrivano a sospettare l'uno dell'altro ci mostrano una faccia del sesso che tendiamo a rimuovere (forse anche per una sorta di autodifesa inconscia). Darsi all'altro vuol dire anche abbandonare il proprio corpo e il proprio "io" più nudo e profondo all'altro. E' un donarsi pericoloso (anche perché in quei momenti non solo il nostro piacere dipende dall'azione dell'altro, ma anche il piacere che "regaliamo" all'altro dipende da quanto siamo disposti a piegare l'altro al nostro ritmo, al nostro respiro, al nostro modo d'intendere la vita e l'amore e il piacere insieme).

I due attori sono come due animali che si guardano in cagnesco; nessuno dei due si fida completamente dell'altro (nella seconda parte del film i dubbi aumentano, fino a divenire amare verità); eppure l'uno è attratto irresistibilmente dall'altro. E si sa che "quando si è innamorati non si ama più nessuno" (come scrive Proust); ormai quei due esseri così primitivi hanno abbandonato ogni morale, ogni ideologia, ogni contatto con la realtà. Non c'entra più niente la vittoria della Cina o del Giappone; non importa più a nessuno se l'attentato riuscirà o fallirà; se Mr. Yee finirà la sua carriera di brillante uomo politico sotto i colpi degli studenti e alleati della ragazza. Quello che conta, ormai, sono solo loro due in quanto esseri animali e legati indissolubilmente dal sesso (e da una specie d'amore che sembra odio - o a volte lo è davvero - in contesti come questi anche i termini "amore" e "odio" assumono valori relativi e intercambiabili; a chi non è mai successa una cosa del genere, e quanto sconforto e quanto dolore e, pure, quanto piacere puramente fisico...).

Ang Lee è uno dei pochi che sia riuscito a mostrare questi grovigli al cinema; con quel tatto, quel realismo e quella poesia che caratterizzano il suo cinema (un cinema fatto di poesia e che, credo, sarebbe piaciuto anche a uno come Pasolini, che il "cinema di poesia" lo ha teorizzato nei lontani anni 60)...

jueves, enero 21, 2010

Talismani

"Toccando un mosaico fatto con le diverse lave del Vesuvio e dell'Etna,
la sua anima si slanciava nella calda e fulva Italia: assisteva alle orge dei Borgia,
libero correva per le terre d'Abruzzo, ardentemente desiderava amori italiani,
si appassionava per i bianchi volti dai lunghi occhi neri".
Balzac, La pelle di zigrino

Ma quanta tristezza c'è nello sguardo di questa donna sui sessant'anni, quando mi confessa candidamente che oggi si pente di non aver saputo sfruttare al meglio il suo tempo, di non avere studiato e scritto di più (oggi è un'eminenza nel suo campo di studi; un luminare della Letteratura Spagnola del Siglo de Oro; ha pubblicato pochi saggi, ma quei pochi sono citati da tutti, sono diventati dei "pezzi" di critica letteraria imprescindibili, rispetto agli altri che trattano gli stessi temi...). Quanta nostalgia per gli anni che sono svaniti così rapidamente, mentre mangiamo un piatto di pasta alle vongole in pieno centro, in Piazza Dante, ricordando quello che è stato.
Ho 33 anni, le dico. E' ancora così giovane....lei, mi dice. Poi il cameriere porta il conto e lei paga al volo, ancor prima di darmi il tempo di rendermi conto che è stata lei ad invitare me, e non viceversa.

Giornata davvero pesante. Dopo aver parlato con la professoressa mi ritrovo in stazione per prendere il treno. Mi sento uno zombie; tutto mi spaventa; tutto mi repelle.

Treno (disastrato, maleodorante, vecchio, come tutti) Pisa-Firenze. Accanto a me sono sedute due giovani ragazze sulla quarantina. Entrambe molto truccate; vestite alla moda; con scarpe coi tacchi a spillo; e dei cellulari che non ho mai visto prima in vita mia.
Parlano una lingua che non riesco a riconoscere. Anche per effetto della stanchezza accumulata dalle 5 del mattino. Di cosa parlano queste due? E in che lingua? Sono italiane? E' italiano quello che sento? L'una dice all'altra che quel viaggio è stato del tutto inutile; l'altra è d'accordo, poi squilla il cellulare, risponde (in inglese), mi sembra che parli di scarpe, di sfilate, di import-export, poi riattacca mentre l'altra sbadiglia e chiede se era Kim, lei risponde di sì, era Kim, allora sbadiglio anch'io e, accavallando una gamba sull'altra, tocco sbadatamente il ginocchio di una delle due giovani donne (quella coi capelli neri, tinti, corvini) e chiedo scusa e finalmente m'addormento.

"Come poteva fare il pubblico a capire che erano trascorsi 5 anni dall'ultima azione rappresentata?". La domanda è rivolta all'intera classe. Il testo preso in esame è Don Giovanni. Prima silenzio di tomba; poi una mano (la mano di una morta vivente) si solleva.
"Passava una scritta che ci diceva: 5 anni dopo".
Il prof. fa cenno di no con la testa. Vorrebbe sbattere la testa contro il muro. Poi ride, per non piangere.
"No; avanti un'altra".
Un'altra zombie alza la mano, convinta:
"Passava una ragazza con una scritta che diceva: 5 anni dopo...".
Il prof. piange. L'aula, gelata, mantiene un rispettoso silenzio.
"No, prof., secondo me non è così che funziona. Forse c'era uno del gruppo degli attori, forse il regista, che con voce fuori-campo diceva: 5 anni dopo. Forse".
Il prof. piange e mugula ancora più forte. Prova a spiegare alla classe che la parola, a teatro, è veicolata soprattutto dai personaggi; che gli attori che interpretano i vari personaggi possono farsi carico (con estrema facilità) del compito di trasmettere allo spettatore un messaggio così semplice e, pure, così importante come quello: che dall'ultima volta che li abbiamo visti in azione sul palco sono trascorsi ben 5 anni. Ma non sarà tutto fiato sprecato?

Il treno arriva puntualmente in ritardo. Di pochi minuti. E comunque: in ritardo, cazzo. Squilla il cellulare (e mentre solleva la cornetta si convince che quelle due sedute affianco a lui sul treno siano due rappresentanti di una marca famosa, di una grossa marca di moda per scarpe di alta qualità - roba tipo Prada, Max Mara, Geox, etc.). E' una sua amica. Silvia:
"Ciao, come va?".
"Ciao, Silvia, non mi aspettavo una tua telefonata?".
Lei gli spiega di un esperimento che sta cercando di portare a termine con la Tim. Lui non capisce bene cosa c'entri la Tim, né di quale esperimento si tratti. Un barbone gli chiede l'elemosina e lui ride sotto i baffi - non per il barbone, ma per una battuta che ha fatto l'amica. A Vercelli c'è nebbia fitta da quattro giorni. Non ci si vede più dalla nebbia.
"Hai ragione, dovremmo vederci più spesso. Ma lo sai, io sono metereopatico, a me la nebbia m'amazza!".
Fa battute idiote di cui, subito dopo, si pente. Si pente anche di quello che le ha appena raccontato: non sa bene nemmeno lui come ci sia riuscito, fatto sta che ha finito col parlare con Silvia di Annette Schwarz, la famosa attrice porno.
"Vedi, anch'io sono d'accordo con te: uno deve trovare la forza, il coraggio, la sfrontatezza anche, se vogliamo, di portare avanti il proprio talento, di farlo sviluppare al meglio e di farsi valere per esso. Qual è il mio talento? In cosa sono davvero bravo? E' questa la risposta cui bisogna dare una domanda".
Silvia, preoccupata, all'altro capo del telefono:
"La domanda cui bisogna dare risposta, semmai, scusa".
Lui si corregge e afferra la bici, sbatte contro un capotreno, chiede scusa (scusandosi in un sol colpo con l'amica al telefono e col capotreno, in diretta).
"Sì, e poi bisogna anche sapere come farsi pubblicità", aggiunge lei, immersa nella nebbia.
"Sì, hai ragione. Nessuno viene a cercarti a casa tua", aggiunge lui, sempre più in bambola.

Ci vorrebbe un talismano. Ai primi del Novecento c'era gente che credeva ancora nei medium; nelle sedute spiritiche. C'era gente che credeva di parlare col caro estinto. C'era gente che pensava davvero che fosse possibile trovare un varco per stabilire un contatto con i morti. E, soprattutto, ci vorrebbe un po' più di tempo per fermarsi a riflettere. Qui dentro corrono tutti. Non c'è pace. Non c'è requie. Nessuno si ferma più a guardare come brilla il cielo di notte (anche perché le stelle sono diventate più opache, a furia di gas tossici e smog). Che romantico che sei! Alyssa urla questa frase dal bagno. Mentre è intenta a fare i suoi bisogni e legge una rivista femminile che parla di problemi di cuore (nel senso sentimentale del sintagma, non in quello salutare - o salutista, o medico, che dir si voglia). Che romantico, ancora credi ai Re Magi!

In tv danno una replica di un vecchio programma degli anni 80. Un trio di comici scimmiotta la postura impettita di certi giornalisti dei telegiornali della RAI. E poi passano a fare la parodia delle telenovelas messicane che, anni prima, andavano così tanto di moda. Che fine hanno fatto quelle telenovelle? Che fine hanno fatto quelle casalinghe d'un tempo? Ci sono ancora o sono tutte emigrate in Messico?

Talismano o meno, qui è difficile trovare la strada giusta. Parcheggio la bici sotto casa. Mi scordo di metterci il lucchetto. La mattina alle 5 sono di nuovo in piedi. Faccio colazione al volo. Do un bacio sulla fronte ad Alyssa. Scendo le scale a quattro a quattro. E quando apro la porta e vedo che mi hanno fregato la bici bestemmio e impreco perché non è giusto, non si può punire così un onesto cittadino che paga le tasse e che usava la bici per andare a lavoro e per guadagnarsi il pane col sudore della fronte, cazzo! Sento un rumore forte, una frenata improvvisa, un fischio sull'asfalto...Prego. E penso: forse c'è un Dio, in questo mondo, che ristabilisce un minimo di giustizia civile...oltre che morale...

lunes, enero 18, 2010

I misteri della lettura (riscoperta)

"Chi può dire perché abbiamo respinto per tanto tempo un libro, dopo averlo comperato, perché non siamo neppure riusciti a iniziarlo, nonostante lo avessimo desiderato a lungo, perché lo abbiamo sempre guardato con fastidio, senza che in definitiva ne sapessimo qualcosa di preciso, tirato fuori ogni tanto dallo scaffale franante per il sovrappeso per dargli un'occhiata frettolosa e avida, infastiditi persino dai suoi caratteri di stampa, e poi un giorno, senza che in apparenza sia cambiato nulla, lo riprendiamo in mano dopo molti anni senza la minima esitazione, e cominciano a leggerlo con passione crescente e inarrestabile, esattamente nel momento in cui può avere su di noi la massima capacità d'irradiazione?"

Antonio Moresco, Lettere a nessuno, Torino, Einaudi, 2008, p. 173.

viernes, enero 15, 2010

Dunque, non è solo questione di effet du réel (come voleva Roland Barthes)


"Un individuo reale, per quanto profondamente possiamo simpatizzare con lui, è percepito in gran parte dai nostri sensi, il che significa che resta opaco per noi, che la nostra sensibilità non riuscirà mai a sollevare il suo peso morto. Se una disgrazia lo colpisce, potremo essere turbati solo in una piccola parte della nozione totale che abbiamo di lui. Di più: lui stesso potrà essere turbato solo in una parte della nozione totale che ha di sé. La trovata del romanziere è consistita nel sostituire quelle parti impenetrabili all'anima con una uguale quantità di parti immateriali, tali cioè che la nostra anima possa assimilarle. Che importa allora se le azioni, le emozioni di questi individui d'un genere nuovo ci appaiono come vere, dal momento che le abbiamo fatte nostre, dal momento che è in noi che esse si producono e che è da loro che dipendono, mentre voltiamo febbrilmente le pagine del libro, la rapidità del nostro respiro e l'intensità del nostro sguardo?"

Cosa vuole dirci Proust in questo brano? Per quanto ho capito io, ci sta dicendo (con tono lirico e argomentare da filosofo attento, oltre che da critico letterario arguto - e anticipando di svariati anni le teorie sul lettore di Umberto Eco, Wolfgang Iser, Hans Robert Jauss e tutta quella corrente che va sotto il nome di "critica della ricezione") che la lettura ci permette di conoscere i personaggi di un romanzo meglio di quanto potremmo conoscere una persona reale. Perché? Perché noi lo "facciamo nostro" meglio di quanto potremmo "fare nostre" le nostre mogli, amanti, amiche, conoscenti, etc. I personaggi letterari, dunque, (ci) si presentano (spesso) come più veri delle persone vere. E ci restano impressi perché, grazie alla storia che li riguarda, ne riusciamo a scorgere la parabola esistenziale (ogni romanzo racconta sempre vita morte e miracoli -nascita, crescita e riposo finale - di un determinato gruppo di personaggi). E questa visione "panoramica" e a tutto tondo, ripeto, solo la lettura del romanzo ce la può offrire. Ma poi va avanti; cosa accade dopo?

"E una volta che il romanziere ci ha messi in questo stato nel quale, come in tutti gli stati puramente interiori, ogni emozione è decuplicata, e il turbamento che il suo libro ci darà risulterà simile a quello di un sogno, ma di un sogno più nitido di quelli che facciamo dormendo e destinato a durare di più nel ricordo, ecco che egli scatena dentro di noi nello spazio di un'ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte, e di cui le più intense non ci verrebbero mai rivelate giacché la lentezza con la quale si producono ce ne impedisce la percezione [...]" (Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Dalla parte di Swann, tr. di Giovanni Raboni, a cura di Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, pp. 104-105, grassetti miei).

E qui la questione, se vogliamo, si complica e, al contempo, si risolve, in modo davvero inaspettato, o che non ci saremmo aspettati da uno che scrive un romanzo e lo intitola A la recherche du temps perdu... Dunque: il romanziere riesce - se è bravo, ci sa fare ed è degno di questo nome - a trasportarci in un'altra dimensione. Quando leggi, e soprattutto se leggi un romanzo ben scritto, ti estranei dal mondo reale esterno a te - quello empirico che avverti coi sensi, ma che vedrai sempre in maniera opaca, perché, a quanto pare, solo l'arte sembra riuscire nell'ingrato compito di togliere il velo alla realtà; ed è per questo che solo dei personaggi posso avere una visione nitida e chiara e completa, mai delle persone vere, reali, che mi stanno accanto e che vedo e che sento parlare e muoversi "dal vivo" - ma non solo: finisci con l'abitare temporaneamente - o col precipitare improvvisamente, dipende dai casi - dentro un mondo non dico irreale, ma "altro dal reale", pieno di emozioni che, proprio in quanto intime, sono "più estreme" di quelle che potresti provare nella vita vera (Proust parla di "sogno più nitido di quelli che facciamo dormendo" - se applichiamo la riflessione al cinema, i conti tornano in modo ancor più esplicito e diretto).

L'intensità è tale che, anche dopo l'atto di lettura, ricordiamo (o possiamo ricordare) a occhi chiusi quanto abbiamo percepito grazie alla lettura stessa (possiamo impadronirci dell'essenza dei personaggi; dei loro ricordi; dell'effetto che personaggi e loro avventure esistenziali e ricordi ci lasciano a una prima lettura). Più vero del vero; più "memorabile" di tutte quelle cose (persone o eventi o ricordi) che ci capitano nel piano della realtà...

Non solo: il romanziere può farci sperimentare (temporaneamente - mentre leggiamo - o a tempo indeterminato - a lettura terminata) le emozioni o i ricordi più estremi e coinvolgenti vissuti dal personaggio nell'arco di una sola ora...accorciando in pochissimo tempo quanto, nella vita vera, sarebbe durato anni interi... (ma non può anche permettersi un altro e contrario lusso? Quello di allungare in centinaia di pagine quanto, nella vita reale, potrebbe durare pochissimi secondi o, al massimo, qualche minuto, un paio d'ore, un giorno soltanto? E' quanto fa lo stesso Proust grazie alla maschera di Marcel - e la voce dello stesso Narratore...che poi è l'operazione che tenta James Joyce raccontando nel suo Ulysses "solo" l'arco delle 24 ore della vita del suo anti-eroe omerico).

Concludendo: la letteratura (ma qui varrebbe anche dire: la lettura; o in senso traslato: la scrittura) ci permette di: a) inventarci la verità; b) di andare al di là dello scorrere del tempo e di penetrare in un tempo "altro" in cui il tempo in quanto "materia in cui siamo tutti immersi" diventa "materiale da costruzione di una vita - una storia - dotata di senso" (almeno apparente - che poi il senso non ce l'abbia, o io non ce lo riesca a trovare, è un altro paio di maniche).

Che vuol dire "inventarsi la verità"? Che, forse, quando mi manca qualche pezzo importante di un puzzle, quando non so come sono andate davvero le cose, l'immaginazione mi permette di "indovinare" quella stessa verità che, nel piano della realtà, mi era sfuggita o mi è impossibile scorgere e acciuffare una volta per sempre. E inoltre che, forse, può essere più "vera" la verità che invento con l'immaginazione che non quella che mi offre la realtà (tramite i giornali, i telegiornali, i libri di Storia)... Sul punto b) ha scritto molto Paul Ricoeur, parlando nel suo fondamentale Temps et récit di "romanzi-favole sul tempo" (come La montagna incantata di Thomas Mann, To the lighthouse di Virginia Woolf e, ovviamente, la Recherche di Proust). Ma questa, come si dice, è "un'altra storia"...

lunes, enero 11, 2010

Piero Boitani da Corrado Augias per
parlare de Il Vangelo secondo Shakespeare


Guardando questa intervista di Corrado Augias a Piero Boitani (per chi fosse interessato al saggio Il Vangelo secondo Shakespeare rimando al post del 2/11/2009), continuo a pensare che il prof. (Anglista e Comparatista dell'Università "La Sapienza" di Roma) sia la reincarnazione di Omero (per il modo in cui "racconta" alcuni dei capitoli più belli della letteratura mondiale e per la passione che riesce a trasmettere a chi lo ascolta); questo è il link per l'intervista:


La parte più bella è all'inizio, e cioè, quando Boitani sottolinea una delle tante contraddizioni apparenti (o paradossi reali) del Bardo: Amleto ha da poco visto il fantasma del padre (che lo mette al corrente della propria morte violenta per mano di Claudio, suo fratello) e nel famosissimo monologo che inizia con "To be or not to be", lo stesso Amleto, a un certo punto, dice di avere timore di compiere l'azione perché non sa cosa l'aspetta di là, nel mondo dei più, quella strana terra da cui nessun viaggiatore è mai tornato ("The undiscouvered country from whose bourn / No traveller returns [...]", dalla scena I dell'Atto III).

Ma perché mai - si domanda Boitani - Amleto fa una simile affermazione, quando ha appena parlato col padre tornato dall'al di là?

Shakespeare è un classico anche per questo: apre la strada a una molteplicità d'interpretazioni diverse e, a volte, perfino contrastanti l'una con l'altra. Continua a sfidarci, a distanza di secoli...

E Augias: "Non ci avevo mai pensato!". Boitani sorride...

viernes, enero 08, 2010

Invisibile, di Paul Auster


Come per i film, così per i libri: ci sono opere (cinematografiche o letterarie) che ti lasciano un'eco, che riecheggiano, per così dire, dentro gli occhi o nel ricordo e nell'anima, una volta che le hai "finite" (quando lo schermo diventa buio e devi deciderti ad abbandonare la sala; quando arrivi all'ultima pagina e sai che di pagine scritte non ce ne saranno più... oltre quel confine segnalato dalla parola Fine - a proposito: com'è che oggi i romanzieri non hanno più bisogno di indicare anche visivamente che sì, che quella è "la fine"? Perché nel 500, mettiamo, o nel 600, o anche con Dickens o Defoe, con Balzac o Flaubert, lo scrittore di romanzi chiudeva con quella parola?The End; Fin; Fine... Shakespeare, poi: lui addirittura certi drammi li chiude con il più che cristiano - e ambiguo - Amen; come se lo scrittore fosse cosciente che ormai non può più aggiungere nulla a quanto scritto; come se gli facesse venire una certa nostalgia lasciare per sempre l'universo narrativo, il mondo di personaggi e episodi che ha creato; o forse, anche, come a voler dire al possibile, potenziale scrittore apocrifo: "è la fine, qui finisce l'originale, non ti ci provare nemmeno a inventarti un prosieguo dell'azione, l'opera originale, quella vera, quella doc, è mia e questa è la fine", non dice: To be continued o Continua)...

Ebbene, Invisibile, di Paul Auster (Einaudi, 2009, tr. it. di Massimo Bocchiola; il libro è ricolmo di refusi, davvero vergognoso per una casa editrice come Einaudi, comunque...) è uno di quei libri che ti rimangono in mente per giorni e giorni, una volta che arrivi alla fine. Che risuonano nell'animo del lettore a distanza di settimane, giorni, mesi, forse anni... Perché? Cos'ha di speciale?

Premetto: non sono un fan di Auster; specifico: The New York Trilogy (1987) è una delle raccolte di racconti più belle e riuscite e compatte che abbia mai letto in vita mia; aggiungo: di Auster, dopo la famosa "Trilogia" (letta in lingua originale), ho letto solo L'invenzione della solitudine (1982) e Hand to mouth (1997) letto in spagnolo ("A salto de mata. Crónica de un fracaso precoz"): due libri strani, perché mescolano (deliberatamente) i generi e, soprattutto, la realtà (anche biografica, dell’autore) con la finzione.

Ciò stabilito, Invisibile cattura per come è strutturato: quattro parti, ognuna narrata da un personaggio diverso e legato in un modo o nell’altro a quello principale, Adam Walker, che ci viene presentato all’inizio della sua storia come un giovane studente della Columbia University, aspirante poeta ribelle e amante di poeti medievali semi-sconisciuti. Siamo nel 1967, l’America è in fermento; tra un anno, a Parigi, comincerà il 68. Adam Walker è un tipo solitario; partecipa controvoglia a una festa di facoltà e lì fa la conoscenza di un certo Rudolf Born, un personaggio strano, un professore di Economia d’origine francese che, guarda il caso, ha un cognome simile al nome di uno dei poeti preferiti di Adam, quel Bertrand de Born (poeta provenzale del XII sec.) che Dante colloca nel canto XXVIII dell’Inferno, quello in cui vengono puniti per l’eternità i “cattivi consiglieri” (de Born ha consigliato il principe Enrico di ribellarsi a suo padre, Re Enrico II d’Inghilterra; per questo de Born è condannato: perché ha seminato odio, morte e distruzione tra un padre e un figlio; perché amava la guerra come somma espressione della violenza umana; e Dante lo fa vagare per l’eternità con la testa staccata dal collo e portata a mano per i capelli).

E’ un segnale: Rudolf Born presenta al ragazzo inesperto in materia sessuale la sua amica e amante Margot (un’altra francese, affascinante e più grande di Adam di una decina d’anni). E sembra quasi che il professore voglia indurre il ragazzo in tentazione, offrendogli su un piatto d’argento la bella fanciulla misteriosa. Poi gli propone, addirittura, di finanziargli una rivista letteraria: sarà Adam a scegliere tematica, veste grafica e collaboratori, visto che si intende così bene di letteratura.

La relazione fra i due va avanti fino a quando Adam finisce a letto con Margot, approfittando dell’assenza momentanea di Born (volato a Parigi per risolvere certe questioni avvolte, anch’esse, in un alone di mistero).

Parte finale e tragica di questa prima sezione: Born cammina per Central Park insieme ad Adam, esponendogli le sue posizioni piuttosto reazionarie (per non dire, fascistoidi), fino a quando non gli dà una prova concreta della sua violenza innata, sfoderando un coltello e pugnalando un rapinatore di colore, un ragazzo armato di pistola finta, che ha provato a scipparli.

Adam Walker taglia i ponti con Born, ma non sa se andare dalla polizia e denunciarlo per omicidio (la legittima difesa svanisce come ipotesi quando Adam legge sul giornale che il ragazzo presenta sul corpo un gran numero di coltellate).

Un lettore comune si aspetterebbe come minimo uno sviluppo, a questo punto; e invece, Paul Auster cambia narratore. Chi parla, all’inizio della Seconda Parte, è un vecchio conoscente di Adam, uno scrittore di successo cui Adam stesso invia la Prima Parte, che abbiamo appena finito di leggere, e che dovrebbe essere la Prima Parte di un romanzo autobiografico sulla vita di Adam da giovane. Il problema è che ora – nel 2007 – Adam è vecchio, ha 62 anni, e sta per morire di tumore. Non sa come fare per andare avanti e chiede aiuto all’amico scrittore per poter poi pubblicare il libro completo.

Non voglio svelare altro. Paul Auster è bravissimo a farci penetrare nella parte più intima e oscura dell’animo dei suoi personaggi (la relazione apparentemente incestuosa tra Adam e sua sorella è uno dei capitoli più riusciti e coinvolgenti del romanzo) e a mostrarci ancora una volta come, a essere invisibile, non siano soltanto le intenzioni degli altri, ma anche la verità che gli altri affermano di conoscere… Ribaltamenti di prospettiva legati alle narrazioni fatte dai vari narratori; riconoscimenti tardivi tra gli stessi; e ammissione delle proprie colpe fanno di questo libro una specie di riflessione romanzesca su male e bene (la morale comune che sembriamo avere smarrito); su passato e sue influenze nelle vite di tutti; su sesso e sua capacità di distruggere le vite altrui.

Ecco: la capacità che ha Paul Auster di farci immergere nella caduta morale ed esistenziale dei suoi personaggi fino all’annientamento totale; la capacità di farci smarrire la direzione mentre leggiamo e di obbligarci a leggere di nuovo per capire com’è avvenuta questa discesa agli inferi; l’abilità nel farci sprofondare nel baratro insieme alla sua scrittura ipnotica. Sono queste le qualità che fanno di Auster un autore di razza. Che si legge tutto d’un fiato (e si ri-legge con piacere).

lunes, enero 04, 2010

Elogio delle donne mature, di Stephen Vizinczey (Venezia, Marsilio, 2003)


Due gli aspetti che mi hanno catturato di questo libro (uscito per la prima volta in America nel 1965 – tit. orig. In Praise of Older Women): il primo è dato dal modo in cui il protagonista maschile riesce a crescere e a capire meglio se stesso e come funziona il mondo grazie al contatto intimo con donne più grandi di lui. Le donne hanno molto da insegnarci (su questo non ho alcun dubbio); soprattutto (sembra suggerirci Vizinczey) quelle sposate o che hanno un divorzio alle spalle e sono rimaste, diciamo così, “scottate” dall'amore. Sono maestre che guardano la vita con un sguardo più distaccato e non per questo meno ironico. Le migliori amanti con cui il narratore va a letto sono anche quelle più autoironiche. Quelle che quando dici loro “Ti amo”, sanno prendere le misure alle parole che spari a vanvera e sanno riportarti con i piedi per terra. Quelle che godono del momento, senza farsi troppe illusioni. Perché se è vero che l'amore è un'illusione che spesso usiamo per tirare a campare e per andare avanti, è pur vero che si rischia di perdere il contatto con la realtà se lo si vive come un evento “eterno”. L'importante è essere fedeli a se stessi e alla vita, ai propri sentimenti, hic et nunc; al riguardo, mi piace - e perciò trascrivo - questa riflessione del protagonsita su AMORE e TEMPO e ETERNITA':

“Ci aggrappiamo alla speranza dell'amore eterno, mentre neghiamo persino la sua validità temporanea. E' meno doloroso dirsi “sono superficiale”, “lei è un'egocentrica”, “non riuscivamo a comunicare”, “era un rapporto puramente fisico”, piuttosto che accettare il semplice fatto che l'amore è una sensazione passeggera per ragioni che sfuggono al nostro controllo e anche alla nostra personalità” (p. 150).

L’altro elemento che mi ha colpito del libro, invece, è il contrasto tra sesso e potere. L’autore - che, da giovane, ha combattuto contro l'Armata Rossa la rivoluzione d'Ottobre del 1956 per la liberazione dell’Ungheria dal giogo russo, finendo poi con lo scampare la morte e con il rifarsi una vita da immigrato a Roma - ci mostra in quasi tutti i capitoli del romanzo che non può esistere dittatura che possa togliere all’uomo la voglia di fare l’amore. Si fa sesso (e forse lo si fa con ancora maggior trasporto) anche quando chi comanda tenta di trasformarci in animali domestici addomesticabili; il sesso è la salvezza, è l’espressione più alta di umanità, quando la terra diventa un carcere a cielo aperto in cui chi comanda vorrebbe controllare il tuo corpo e la tua mente. E’ quanto succede a Budapest, all’epoca in cui Vizinczey era un incallito amante di donne mature e non sapeva ancora che sarebbe finito in Canada a fare il professore di Letteratura (dopo aver scritto una tesi su Sartre e la religione). Trascrivo un'altra citazione, questa volta sui risvolti devastanti di una dittatura sul cervello dei cittadini, anch'essa molto acuta e azzeccata:

“La lezione della dittatura consiste nel ricordarvi di continuo che i vostri sentimenti, i vostri pensieri e i vostri desideri non contano niente, che voi siete una nullità e che dovete vivere secondo regole imposte da altri. Una dittatura straniera [come quella che visse l'Ungheria negli anni 50 per colpa dell'URSS] vi insegna a disperare doppiamente; né voi né il vostro paese avete più importanza” (p. 155).

Come si combatte la dittatura? Come ci si può sottrarre a questo stato delle cose? Difendendo la propria dignità di uomini; e trovando piacere e pace nel fare sesso (non per forza con donne mature – ma si sa, loro sono più esperte e ai giovani maschi non possono non apparire più affascinanti delle altre, come dimostra ampiamente e ironicamente il narratore e protagonista di questo romanzo erotico-politico che è, al contempo, un canto e una lode al corpo e all'intelligenza delle donne, di tutte le donne che abbiamo amato in passato e di quelle di cui potremmo innamorarci domani)...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...