martes, marzo 30, 2010

I risultati (delle elezioni regionali)

"Mi sa che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone, io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone, mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo sempre e solo con una minoranza delle persone..."

Nanni Moretti, Caro diario, Italia, 1993

domingo, marzo 28, 2010

Oggi si vota: istruzioni per l'uso (ovvero: Daniele Luttazzi docet)

Alcuni miei alunni hanno appena compiuto 18 anni e mi hanno chiesto: "Prof., scusi, ma è la prima volta che votiamo, non sappiamo chi votare, non abbiamo informazioni, come dobbiamo fare?". Ho consigliato loro di leggere i giornali, vedere come filtrano le notizie e da quali punti di vista le analizzano. Ho consigliato anche di guardare le facce dei politici che si candidano nei loro comuni (o provincie o regioni) perché la faccia è "lo specchio dell'anima". E, se non fosse per certe espressioni colorite e le molte parolacce, consiglierei loro oggi di vedere lo sketch del geniale Daniele Luttazzi, che ha una sua "teoria" sull'era berlusconiana e sulla condizione dell'Italia attuale...(lo sketch è andato "fuori onda" il 25 Marzo dal Paladoxa di Bologna grazie all'impegno di Santoro e dello staff di "Annozero", che resistono alla censura trasmettendo su Sky, canali privati e web anche quando qualcuno li vorrebbe per sempre fuori dalla Rai).

sábado, marzo 20, 2010

Francesco Orlando docet

L'altro giorno, per ammazzare il tempo, mi sono ritrovato all'interno della Feltrinelli di Corso Italia (Pisa) e mi sono imbattuto nel primo (e finora unico) romanzo dell'Esimio Prof. Francesco Orlando (le cui lezioni sul "sovrannaturale in letteratura" ho avuto il piacere di seguire l'ultimo anno del mio Dottorato). Per chi non conoscesse il soggetto, possiamo dire che: Francesco Orlando si inizia agli studi letterari seguendo le lezioni private di un maestro d'eccezione, quel Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, negli anni 60, pubblicherà Il Gattopardo; nel corso degli anni, Orlando si dedicherà alla critica letteraria, e, dopo aver lasciato Palermo per Pisa a 25 anni (nel 1959), comincerà a dedicarsi alla docenza, spaziando dallo studio della Letteratura Francese allo studio della Teoria della Letteratura, passando per l'applicazione delle teorie freudiane alla letteratura stessa e dedicandosi con profitto allo studio della musica di Wagner...

Ebbene, a 75 anni, e dopo tanti studi critici che "hanno lasciato il segno", Orlando manda in libreria un romanzo che scrisse intorno ai vent'anni. Titolo: La doppia seduzione (Torino, Einaudi, 2010).

Orlando mi ha insegnato molto. Non so se sia bravo anche come "narratore" (e sono curioso di scoprirlo); di certo, quando faceva lezione lui era un piacere ascoltarlo (avrei potuto passare ore a sentirlo scandagliare i segreti dei principali romanzi della storia della letteratura occidentale) e non volava una mosca in aula.

Per chi volesse sentirne la viva voce, posso segnalare questo link:


Per chi non ha mai letto due righe di questo critico, cito due frasi a caso (ma nemmeno tanto) da L'intimità e la storia. Lettura del "Gattopardo", Torino, Einaudi, 1998:

a) personaggi come "fantasmi":

"Mi sono addentrato nel labirinto della sua psicologia non senza circospezione, perché un personaggio è un fantasma che vive di parole, e c'è sempre il pericolo di reificare al di là delle parole la psicologia d'un fantasma" (id., p. 64);

b) letteratura come "risposta":

"La letteratura non è un riflesso, certo, però è una risposta; non ha mai a questo mondo la prima parola, però quella parola seconda che le appartiene è spesso la sola a rompere l'opacità dei silenzi incombenti sul mondo - dove le parole d'uso che si prodigano hanno spessore e durata troppo minori" (id., p. 94).

sábado, marzo 13, 2010

L’ironia amara di Proust



Chi si accingesse a leggere il mastodontico capolavoro proustiano, e si aspettasse di trovarvi una “rappresentazione realistica” o “obiettiva” della realtà al tempo di Proust, andrebbe incontro ad un’amara delusione sin dalle prime righe del vol. I (“Du coté de chez Swann”). La realtà è tutta filtrata attraverso il punto di vista assolutamente (oserei dire: olimpicamente) soggettivo di Marcel, il Narratore (anche se per ora io non ho mai letto esplicitamente che il Narratore si chiami davvero Marcel – nessuno dei vari personaggi secondari lo chiama per nome e sono arrivato al vol. II, “Le coté de Guermantes”…ma non ho fretta, paziento, staremo a vedere se spunta questo fantomatico Marcel). Ora, caterve di studiosi, critici letterari e lettori attenti e appassionati hanno tentato, nel corso degli anni, di capire quali fossero i tratti di questo Narratore, ovvero: di questa voce che ti parla e che, mentre parla, sembra ipnotizzarti e coinvolgerti all’interno della trama che si va dipanando nella mente del protagonista nel corso degli anni e dei ricordi che si accumulano o si accavallano o si illuminano gli uni gli altri in modi del tutto inaspettati.
Un tratto che posso dire di aver scovato è questa sorta di ironia amara, di “coscienza infelice” (per dirla con tono freudiano – e che Proust mi perdoni), di questo Narratore che parla e ricorda e che, mentre parla e ricorda, scrive (anche se noi lettori l’atto di scrittura non lo vediamo mai; per ora è un atto invisibile o cui si allude solo in modo trasversale; infatti, bisognerà aspettare la fine del Temps retrouvé per capire il senso dell’intera operazione narrativa-rammemorativa portata a termine grazie a – e attraverso la - scrittura).
Come si esplicita e verso chi o cosa è diretta questa cosiddetta “ironia amara”? Beh, innanzitutto verso il Narratore stesso: spesso e volentieri è Marcel adulto che fa ironia o che tratta in modo amaramente ironico la sprovvedutezza, le incertezze, diciamo pure le gaffes di Marcel bambino o adolescente (o immaturo). Solo grazie al passare del tempo, infatti, Marcel capisce realtà o pezzi della stessa che, ai suoi occhi, apparivano come misteri incomprensibili. Dunque, l’ironia più amara sembra sostantivarsi soprattutto nello scarto temporale tra passato (ciò che sapevo prima o credevo di sapere allora) e presente (ciò che sono venuto a sapere dopo o ho potuto scoprire solo in seguito). Un esempio tra tanti, sotto forma di aforisma:
“Così per il nostro passato. E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe). Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai” (in Dalla parte di Swann, “Combray”, vol. I, p. 55 dell’ed. Mondadori, 1983).
Proust ci dice che lo scarto tra conoscenza e ignoranza, tra passato e presente, è incolmabile, se ci limitiamo a usare l’intelligenza. E che solo il caso o la casualità possono metterci sulla buona strada e permetterci di carpire una qualche verità (come a dire: siamo tutti stupidi o ignoranti, se ci rapportiamo a quanto ci è capitato in passato; e questa è la condizione di ognuno, non ci si può fare niente, non c’è motivo di disperarsene, e se l’illuminazione – legata a un certo oggetto materiale – avviene, è solo grazie all’influsso del caso o della casualità). Ironia più amara di questa è difficile da trovare, all’interno di tutta la Recherche. Hai voglia a scavare e a sforzarti di capire (solo) con l’intelligenza. Il passato è un abisso talmente profondo e scuro che “il lume della ragione” serve a poco.
Ma l’ironia non è solo auto-ironia amara. Spesso e volentieri sono gli altri personaggi a ironizzare sui tratti o le qualità morali salienti di Marcel. E’ il caso del signor Legrandin (un ingegnere che si diletta di scrittura e che frequenta la famiglia del Narratore a Combray), il quale, dopo esser venuto a conoscenza delle aspirazioni di Marcel in campo letterario, gli da questi consigli:
“Oh! aggiungeva, con quel sorriso dolcemente ironico e deluso, un po’ distratto, che gli era peculiare, non mancano certo là, nella mia casa, tutte le cose inutili. Quello che manca è solo il necessario, un gran lembo di cielo come qui. Cercate di conservare sempre un lembo di cielo sopra la vostra vita, fanciullo mio, aggiungeva voltandosi verso di me. Voi avete un’anima bella, d’una qualità rara, una natura d’artista, non lasciatele mancare ciò di cui ha bisogno” (id. pp. 83-84).
Qui l’ironia è: del personaggio Legrandin, quando ci obbliga a guardare in modo diametralmente capovolto “ciò che è utile” e “ciò che consideriamo necessario” nella vita per essere felici; e di Proust-autore nei confronti di Marcel-Narratore, quando ci spinge a riflettere su quanto continuerà ad essere difficile per l’artista “conservare sempre un lembo di cielo sopra la testa”….
Altre volte è il Narratore a tratteggiare o a descrivere in modo ironicamente amaro o amaramente ironico i tic dei personaggi secondari. Ma può capitare anche che siano gli stessi personaggi della Recherche a rivolgersi gli uni agli altri con accenti ironici per riflettere o “pensare ad voce alta” sui temi più svariati. Un mix di questa tecnica duplice lo troviamo nelle pagine finali con cui si conclude La parte dei Guermantes.
Swann ha appena detto all’amica, la nobile Mme de Guermantes, che i medici gli hanno diagnostico una malattia mortale; gli restano solo 3 o 4 mesi di vita, se tutto va bene. Mme de Guermentas sta per salire in carrozza per partecipare a un gran galà o pranzo ufficiale organizzato a casa di un’altra nobile aristocratica del faubourg Saint-Germain e non sa che dire né che fare. Questo il commento del Narratore:
“Trovandosi, per la prima volta in vita sua, al bivio fra due doveri così diversi come salire sulla carrozza per recarsi a un pranzo, e testimoniare pietà a un uomo che sta per morire, non rintracciava nel codice delle convenienze alcuna indicazione circa la giurisprudenza da seguire e, non sapendo a quale dare la preferenza, pensò di fingersi convinta che la seconda alternativa non si ponesse nemmeno, in modo da poter obbedire alla prima che, in quel momento, richiedeva lo sforzo minore, superando così il conflitto con la migliore delle soluzioni, che consisteva nel negarlo. “Volete scherzare?”, disse a Swann.
“Sarebbe uno scherzo d’un gusto eccellente”, rispose ironicamente Swann” (La parte di Guermantes, “La parte di Guermantes II”, vol. II, p. 715).
Qui è evidente che il punto di vista che sposa il Narratore è quello di Swann; l’avverbio finale “ironicamente” ci dice quanta maggiore sensibilità abbia Swann rispetto a Mme de Guermantes, irrigidita dalla novità della situazione.
Ma se ho citato questo brano (o scambio di battute) è anche per sottolineare un altro aspetto dell’ironia amara di Proust (e/o di Marcel): e cioè, che questa si esercita soprattutto quando la scrittura si svolge all'interno o nel bel mezzo del campo semantico della “morte”. E’ quando si parla di “morte” o di “morti”, di lutto e di dolore legato alla scomparsa delle persone più care, che l’ironia amara proustiana diventa ritmo, musica, periodare sensuale, riflessione filosofica, contemptus mundi. E (aggiungerei) non poteva essere altrimenti, in un romanzo in cui si tenta di andare alla ricerca del tempo (e del senso) perduto, oltre che di approssimarsi a quel mistero assoluto, a quell’abisso terribile, che è rappresentato, per l’uomo, dalla fine del tempo, ovvero: dalla morte. E’ in questi brani della Recherche che l’ironia proustiana, in realtà, da “amara” si fa “superiore”. Perché ci insegna ad accettare (o ci spinge all’accettazione dei) limiti umani; e ci spinge a riflettere su come attraverso la scrittura l’uomo possa almeno sperare di superare il contingente e la caducità della realtà (le cose, le persone e i fatti) che lo circonda.

P.S.: il quadro supra s'intitola Veduta di Delft (1660 ca.), di Veermer, ed è una delle opere d'arte preferite di Proust.

martes, marzo 09, 2010


SOMIGLIANZE (?!)


La mia ex, spagnola e "passionale" come poche, diceva che assomigliavo a Vincent Gallo (ma parlava sotto l'effetto delle droghe leggere - e comunque non era mai obiettiva perché mi guardava con gli occhi dell'amore)...




Un collega una volta mi disse che, visto da lontano, potevo ricordare il mitico Frank Zappa ("ma da lontano", tendeva a rimarcare - non ho mai capito come potesse dire una simile frolloccata: io non ho mai portato i capelli così lunghi; semmai a zero, ma lunghi, stile "capellone" anni 60, o 70, mai; il nasone, invece, beh, quello sì, forse io e Zappa ce l'abbiamo in comune, purtroppo)...


Una mia cara amica, cinefila e alquanto "intellettualoide", dice che sono sputato a Fares Fares (e io all'inizio non ho colto il riferimento; poi me l'ha spiegato lei: "E' il protagonista del delizioso Jalla Jalla!, un film sui conflitti interrazziali nella Danimarca di oggi; il regista si chiama quasi come l'attore principale, e cioè: Josef Fares"; ecco chi è Fares Fares, ragazzo dai tratti decisamente arabi - e qui apro una parentesi: in Spagna m'hanno spesso scambiato o per un arabo o per un ebreo; incredibile, ma vero; a quanto pare, riesco a conciliare - almeno nel fisico - gli inconciliabili; era quando dicevo che ero italiano che a qualcuno scappava qualche commento cattivello sulla mafia e il fatto che siamo dei "mangiatori di spaghetti")...


L'ultima somiglianza me l'ha fatta notare Alyssa: l'altra sera guardava "Le iene" e hanno mandato in onda un vecchio servizio girato da quel simpaticone di PIF (che non ho mai capito cosa diavolo significasse). E Alyssa: "Certo che gli assomigli tanto, eh?"... Beh, in effetti, se lo guardo mi viene un po' d'ansia, perché in questo caso la somiglianza mi pare di scorgerla, anche se PIF è di sicuro più alto di me, più slanciato e con più capelli...beato lui!


Significativo è, comunque, il salto che si fa nel passare da un attorone come Vincent Gallo a un giornalista comico come PIF (se poi sia davvero giornalista, non lo so e non mi va di andare a scoprirlo su Google; suppongo che tutti quelli che fanno "Le iene" lo siano; o almeno, provano ad esserlo; di certo, fanno spesso un servizio di pubblica utilità). Per rimare in tema, e chiudere in bellezza (è un eufemismo) una foto fatta in perfetto stile Reservoir Dogs (anche se l'azienda per la quale lavoravo all'epoca era molto meno feroce e casinista dei protagonisti del film di Tarantino)...

sábado, marzo 06, 2010

INSEGNARE (qualcosa a qualcuno)

Diciamo che è da una settimana circa che, per motivi di lavoro, sono costretto (volente o nolente) a parlare in pubblico. Non avessi la voce, fossi afono, o restassi rauco, non potrei portare a casa la pagnotta (la voce come strumento di comunicazione centrale per gli esseri umani, ma anche – come in questo caso – mezzo di sostentamento fondamentale per chi, per lavoro, deve trasmettere il sapere – se poi si possa parlare davvero di “sapere”, o in che senso se ne possa parlare, beh, ai poster l’ardua sententia…). Diciamo che parlo a un pubblico eterogeneo composto da studenti che vanno dai 16 ai 23 anni d’età; e diciamo che se faccio la media viene fuori un numero preoccupante di ascoltatori, se ci penso a freddo: 40 persone al giorno, per 5 giorni alla settimana, per almeno altre 12 settimane….Brividi. Anche perché, voglio dire, nessuno sa quale potrà essere l’effetto delle sue parole una volta che queste giungono alle orecchie degli ascoltatori; ognuno ci vedrà quello che gli suggerirà la propria sensibilità personale, la propria attenzione del momento, la propria “enciclopedia personale”, come direbbe Umberto Eco. E, come sappiamo fin dall’infanzia, con le parole bisogna stare attenti; andarci cauti; procedere con prudenza. Le parole possono infiammare l’auditorio, scaldare le masse, invitarle alla rivoluzione, ma anche offendere, ferire, segnare per sempre…creare traumi che poi uno potrebbe portarsi dietro per tutta la vita. E allora provi a calibrare; a prendere la mira; a non spararle troppo grosse, anche se è davvero difficile centrare il bersaglio (troppe teste pensanti dentro la stessa aula; troppe soggettività da accordare a un unico concetto che tu provi a sviluppare nel modo più completo e corretto e logico possibile, ma tanto è inutile, perché c’è sempre quello che non prende bene gli appunti o si distrae e pensa alle nuvole, e guarda fuori della finestra, o distrae il vicino, chiacchiera e ti fa perdere il filo pure a te che stai in cattedra e parli e sentenzi e stabilisci dati e fatti e date storiche, provando a togliere dubbi e a ristabilire un minimo d’ordine nel marasma generale...che lavoraccio, insegnare!). E allora, ogni tanto, per smorzare la tensione fai qualche battuta spiritosa, provi a rompere il ghiaccio con l’ironia, misuri la validità del tuo atteggiamento e l’efficacia del feed-back dalle risate, come un comico che fa il suo numero davanti ad una platea esigente, e speri che faccia ridere, quella battuta, detta proprio in quel momento – è questione di ritmo e d’azzeccare i tempi giusti, guai a steccare o a dirla nel momento sbagliato – e speri intanto che questa non scandalizzi quelli più sensibili, non urti la sensibilità politica dei più, non risulti troppo rozza o troppo “politicamente scorretta”. E parli e provi a convincerli della validità delle cose che dici loro, ah, quanti punti in comune ha il docente con il prete che dice messa e fa la predica, tutti rinchiusi dentro le famose quattro mura, costretti a recitare la parte e a portare a termine il rituale giornaliero della lezione, tutti pronti a fare la loro parte, l’insegnante a rassicurarti, a dirti che va tutto bene, basta avere buona volontà (quanti uomini ci sono ancora dotati della cristiana “buona volontà” tanto citata nei Vangeli?), che con il sacrificio i risultati si ottengono, che bisogna lottare ma poi vedrai che alla fine ce la fai…la messa (la lezione) è finita, andate in pace, mi raccomando, ragazzi, occhio alle droghe (leggere e pesanti) e non state troppo tempo davanti alla tv, meglio internet, che almeno là c’è il rischio che v’imbattiate in qualche notizia interessante o in qualche definizione alla “wikipedia”… Ma l’insegnante (qualsiasi sia il livello di studi cui si dedica o di cui si occupa) è sempre anche una specie di deejay, uno che mette la musica da suonare a quell’ora, in quella circoscritta porzione temporale, davanti a quei ragazzi scalmanati che non vedono l’ora di ballare o, se non apprezzano, di scappare fuori, all’aria aperta, per fumarsi una sigaretta o parlare del più e del meno (altro che Dante o Colombo o la linguistica computazionale…). Al posto dei dischi, il prof. mixa i libri o i capitoli e i paragrafi dei libri che ha in programma, li “suona” (ovvero, li legge) come meglio può e come meglio sa, lasciandosi trasportare dall’ispirazione del momento, tentando di non farsi incastrare dal burocratese che – infingardo – è sempre pronto ad attaccare e ad attecchire, anche, sempre nascosto a ogni nota a piè di pagina, dietro a ogni circolare o ordine del giorno, dietro al registro o sotto la sedia, come un ladro in agguato. E mentre ascolti la bellissima canzone “Gone (going)” di Jack Johnson nella versione remix dei Black Eyed Peas, ti domandi: “Avrò fatto il mio dovere? L’avrò fatto al meglio? Sono stato chiaro? M’avranno capito? Si sarà offeso qualcuno per quella battuta su Federico Moccia?”. “Gone going gone everything gone everywhere”, riecheggiano i versi della canzone che ormai chi te la toglie più della testa, ormai è fatta, ormai siamo vicini a casa, manca poco per quel poco di riposo che ti tocca, dopo 12 ore passate in giro tra scuole e Università e aule varie di città e alunni e facce tutte diverse, che chissà poi se le ricorderai più, dopo tante ore di lezione e tanti interscambi di neuroni e tanti sorrisi o risate improvvise…

lunes, marzo 01, 2010

La breve vita della posterità

Javier Marías

Per quanto scetticismo, o anche cinismo, oggi possiamo attribuire all’idea di posterità, non è facile che gli scrittori, i pittori, i musicisti e i cineasti si allontanino da essa interamente nell’arco di due o tre generazioni. E’ un tempo molto breve, in rapporto ai molti secoli durante i quali questa speranza o nozione rimase vigente. Per definizione, chi mette per iscritto qualcosa ha una certa intenzione, anche se incosciente, del fatto che questo qualcosa rimanga o, per lo meno, possa essere scoperto in futuro. Chi si dedica a una qualche forma d’arte non ignora che esistono opere che si continuano a leggere, ad ascoltare, ad ammirare, dopo centinaia di anni dalla loro realizzazione e morte dell’autore, quando questi è ormai un’eternità che non è più “presente” né offre più alcuna “novità”. La durata di Cervantes, Shakespeare o Montaigne; quella di Bach, Mozart o Schubert; quella di Velázquez o Rembrandt o Leonardo; la minore, anche se pur’essa lunga, di Welles, Hitchcock, Ford o Lubitsch fa sì che qualsiasi artista venga animato, anche se non lo riconosce o addirittura lo nega, da una diffusa intenzione di lasciare una qualche traccia del suo passaggio sulla terra, oltre che da cose senza dubbio più urgenti e importanti, come guadagnarsi da vivere con ciò che sa fare, o divertirsi facendolo, o avere un lavoro che – come io stesso ho detto in numerose occasioni davanti alla domanda: “Perché scrive?” – lo dispensi dall'avere un capo e dal dover fare levatacce.

La brama di posterità oggi è molto malvista, per non dire che risulta piuttosto ridicola, oltre che – come sempre – pretestuosa. Il ridicolo deriva dal fatto che, per come è concepita e organizzata la produzione di opere artistiche nell’attualità, queste si portano dietro, all’inizio, una data di scadenza sempre più immediata. Non son pochi i libri, i film, i dischi per i quali questa data coincide di fatto con quella del loro concepimento. Nascono già morti, dimenticati prima di produrre memoria; esistono, ma è come se non fossero mai esistiti. Come tutti sanno, vengono rispediti in fabbrica prima che nessuno abbia potuto sentire curiosità per essi, ci sono film che non vengono nemmeno proiettati. L’unica cosa che sembra esistere davvero sono i grandi successi commerciali, quelli che restano innumerevoli settimane nelle liste dei più visti o venduti o ascoltati. Solo che la loro permanenza è tutto fuorché garantita. Anzi, questi prodotti si consumano in modo così rapido e massiccio (tutti insieme, per non restare “indietro” rispetto a ciò che spetta in ogni momento) che nessuno si ricorda più di loro dopo pochi anni, e quasi nessuno li vede o li legge o li ascolta, fuori del loro “tempo”. Chi si prenderebbe la briga di sciropparsi Il codice Da Vinci o Il bambino con il pigiamo a righe? Solo pochi ritardatari, che, a tutta velocità, assomigliano a quelli che oggi si appassionano a Via col vento o ad Addio, Mr Chips, per citare due degni romanzi che, nella loro epoca, vennero letti da tutti. Chi si azzarderà a dare un’occhiata alla trilogia di Stieg Larsson o a Avatar tra cinque anni, oltre ai patiti dell’una e dell’altra, coloro che s’installano a vivere in un mondo dal quale si rifiutano di uscire?

Non se la passano meglio coloro che creano opere che portano scritta sulla fronte la parola “durata”, quelle che non aspirano a un’accettazione istantanea e massificata e si giocano la carta della pazienza e scommettono sul futuro. Chi vede oggi il cinema di Bergman, Rossellini o Renoir, oltre ai quei pochi cinefili che comprano religiosamente i loro dvd? Chi legge oggi il grande Faulkner, o Fitzgerald, o Céline? In fondo, siamo patiti tanto quanto lo sono quelli che vedono Guerre stellari o Il signore degli anelli, anche se senza maschere né convinzioni. Questi autori non fanno più parte ormai della “cultura generale”, ma solo di quella degli specialisti o di minoranze. Il loro indubbio talento non basta per la loro piena permanenza, questa è solo di tipo parziale. Che bisogna fare, allora, per essere un vero classico a tutti gli effetti, come Hitchcock o Billy Wilder, dai quali passano ancora tutte le altre generazioni? O come Dickens, Flaubert, Conrad o Henry James ai quali ogni amante della letteratura finisce col dare un’occhiata, anche se solo di sfuggita? O come il sempreverde Elvis Presley? Tantomeno è nelle mani degli artisti la loro sopravvivenza. Sono passati i tempi in cui Joyce o Thomas Mann si sforzavano di raggiungere la posterità e finivano col riuscirci. Tutti i loro passi erano diretti a quel solo scopo, tanto quelli letterari quanto quelli che davano forma alla loro figura pubblica. Oggi non serve più. Fra noi, fu Cela lo scrittore che più di altri si preoccupò di “restare” e a questo scopo dedicò gran parte delle sue energie. Insicuro del suo valore, conservò, ordinò e archiviò i suoi manoscritti originali e le lettere, s’impegnò affinché nella sua collezione non mancasse nemmeno una delle edizioni di tutti i suoi titoli, per insignificante che questo fosse. Addirittura, arrivò a riscrivere a mano, e fuori tempo massimo, l’unico originale che aveva smarrito o regalato, quello de La famiglia di Pascual Duarte, divenendo così uno strano falsificatore di se stesso. Stando alle ultime notizie, quanto conservò con megalomania e ossessione presso la Fundación Cela, raccogliendo denaro pubblico per la sua costruzione, inizia a deteriorarsi e ad essere vittima dell’incuria e della bancarotta. E a quanto sembra quasi nessuno si prende il disturbo di visitare la sua sede. Morì solo otto anni fa, e inoltre, ricevette il Premio Nobel, ma non sono sicuro che lo si legga poi molto. Che oggi qualcosa duri dieci anni è già un miracolo, e forse – tranne eccezioni incomprensibili – la massima forma di posterità.

Articolo apparso su El País Semanal del 28/2/2010 e disponibile sul sito:

http://javiermarias.es/wordpressblog/

[La trad. it. – affrettata e di sicuro traballante – è mia; il tema si ricollega inaspettatamente con quanto andavo dicendo di Paranormal Activity e di Avatar nel “post” posteriore].

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...