jueves, mayo 27, 2010

Giugno (the cruellest month)


Inizia il mese di Giugno; le ragazze non si tengono; fremono e piangono a ogni piccola richiesta di correzione degli esercizi ("Prof. mi deve giustificare: i miei compiti li ha mangiati il cane", o "Prof. mi scusi, ma ieri non ho potuto studiare, mia nonna si è sentita male e abbiamo dovuto portarla al pronto soccorso", o "Prof. mi perdoni, ma non ce l'ho fatta, ho avuto le mie cose e quando ce le ho con questo caldo mi buttano a terra"...). I colleghi sono cotti, anch'essi, chi più chi meno. Il distributore di caffè non funziona e non da più resto (io questa mattina ho pagato 1 euro e 10 un caffè che, di solito, costerebbe 30 centesimi). Quello che si occupa delle fotocopiatrici ha un diavolo per capello: è sordomuto, ma quando vuole e s'incazza sa farsi capire benissimo (ci tratta come fossimo dei somari imbecilli che non sanno ancora da che parte iniziare per fare le fotocopie fronte-retro). E c'è la docente più anzianotta che tenta di stare al passo coi tempi: non la conosco, a male pena le rivolgo il saluto (buongiorno e buonasera, sono comunque educato, quando entro in sala-professori), e questa prende e mi fa: "Guarda, guarda com'è bella, ma guardala, la mia micia!". Che poi uno a quest'ora del mattino potrebbe pure equivocare...la mia micia...la gatta. Distolgo lo sguardo dal pc per guardare lo schermo del suo: ha aperto una pagina sul suo profilo su Facebook, è incredibile, una donna di una sessantina d'anni che scrive le sue cose su Facebook, "questa è Milù, la mia gatta, non è un tesoro?". Faccio cenno di sì con la testa e balbetto un sì incerto. Poi torno agli affari miei (e la docente continua a parlare da sola: "Come ti senti oggi?"; per un attimo ho pensato che la domanda fosse rivolta a me, ma no, era solo una domanda retorica cui rispondere per far sapere agli altri amici e contatti di Facebook come ti senti oggi).
E il caldo si fa sentire potente; hai voglia a cercare di spiegare la differenza tra "metafora" e "similitudine" (o quella tra "simbolo" e "allegoria"). Fa troppo caldo per dei cervelli abituati a sapere le cose tramite Google (anche se qualcuno mi ha fatto notare che Wikipedia avrebbe bisogno di una bella revisione - prof., in italiano ci sono degli articoli scritti coi piedi - e questo lo dice Tommy, ovvero, Tommaso, uno dei più scarsi nella mia materia, insomma, è tutto dire).
Lo scrissi una volta in questo stesso blog e oggi lo ribadisco: sia che si tratti di Università, sia che si parli di scuola, quando sei dentro un'aula e provi a insegnare qualcosa, ebbene allora, in quello stesso istante in cui prendi la parola e cominci la lezione, tu prof. ti trasformi immediatamente ed irrevocabilmente nel maestro d'orchestra che cerca di suonare al meglio mentre tutti fanno altro; insomma, da che mondo è mondo, il prof. è come quel direttore dell'orchestrina del Titanic che continua a dirigere anche se la nave cola a picco (e tutti scappano o provano a scappare per ogni dove). Non è una bellissima sensazione; sai che prima o poi affonderemo tutti, insieme alla nave; però provi a dare il meglio, provi a suonare e a far suonare i componenti dell'orchestrina nel migliore dei modi possibili, sapendo benissimo che ti trovi in uno dei peggiori posti possibili del mondo intero...
Giugno. Il 12 Giugno finisce la rappresentazione scenica di quest'opera buffa. Poi, il 22 (a dire di Tommy, o Tommaso) ci sono gli esami di maturità. E lì sì che ci sarà da ridere, con le solite scenate di pianto o di isteria collettiva, di disperati e d'insonni che hanno tirato fino all'alba nella vana speranza di capire Svevo o Montale...Lì sì che mi voglio divertire.

domingo, mayo 23, 2010

Jean-Luc Godard e l'inquadratura (una quesione estetico-politica)


Ci sono dei libri i cui titoli esercitano sul lettore una forza tale d’attrazione per cui diventa poi impossibile non prenderli e vedere di cosa parlano. Ultimamente mi è capitato con un saggio di Jean-Luc Godard, dal titolo (curioso e, al contempo, ambizioso, fors’anche pretenzioso): Introduzione alla vera storia del cinema (Roma, Riuniti, 1982) (dove l’aggettivo “vera” pone domande non meno serie del sintagma “storia del cinema”, visto colui che scrive).

Si tratta, in realtà, di una specie di saggio ricavato dalle lezioni che Gordard tenne presso l’Università di Montréal nel 1978. L’idea era parlare della storia del cinema studiando quei registi e quei film che maggiormente avevano colpito e influenzato uno dei cosiddetti “padri” della Nouvelle Vague francese. In pratica, più che di un saggio strutturato in capitoli, si tratta della sbobinatura delle conversazioni (più che delle lezioni, in senso stretto) che Godard fece davanti a un pubblico di studenti di Cinema. Ed è per questo che la lettura mi è sembrata amena, scorrevole e, a tratti, esilarante (con tutti quei puntini di sospensione e quelle ripetizioni e quei tentennamenti da parte del “conferenziere”).

Godard è un tipo difficile: ci sono intere schiere di ammiratori cinefili che lo osannano e che pendono dalle sue labbra; così come esiste un folto esercito di spettatori che non lo sopporta e lo considera uno strafottente, borioso e vanaglorioso maître à penser. Ebbene, entrambe le caratteristiche o tratti caratteriali vengono fuori dalla lettura di questa “vera storia del cinema” godardiana.
Sono davvero tanti gli spunti di riflessione. Ne seguo e ne cito uno soltanto: il significato dell’inquadratura (termine tecnico del linguaggio cinematografico che, per slittamento semantico, è entrato a far parte anche del linguaggio comune).

(p. 25): “Oggi, non so neanche più cosa sia un’inquadratura. In questi ultimi anni ho ripreso delle cartoline, e questo mi ha fatto ripensare ai quadri. E difatti perché il quadro è diventato quadrato, o un po’ rettangolare, e non rotondo? E perché per registrare questo quadrato bisogna passare attraverso degli obiettivi che, invece, sono rotondi? Mettiamo per esempio una telecamera che vi riprende, voi che parlate e io che rispondo, o il contrario; a quel punto ci si chiede: “Se si dovesse inquadrare quel che succede, come bisognerebbe fare? Bisognerebbe mettere la telecamera lì, e poi inquadrare tutto insieme? Bisognerebbe fare un primo piano vostro? O un primo piano mio? O cosa?”. Dunque, bisogna sapere quel che si vuole, per decidere. A quel punto uno avrebbe un’idea di come può essere un’inquadratura e a cosa possa servire. E allora si penserebbe a quel che in francese si dice “un cadre de vie”; ci sono quelli che vengono inquadrati; e, generalmente, quelli che dirigono, vengono chiamati “i quadri”…”

Non ci avevo mai pensato: l’obiettivo della macchina da presa è rotondo, mentre lo schermo è sempre rettangolare (così come, in pittura, la cornice predominante non è quella tonda o ovale, ma quella quadrata o rettangolare).

Ma andiamo avanti: anche noi, anche senza rendercene conto, “siamo inquadrati”, tutti i giorni, anche nella nostra vita quotidiana. Come? Ecco la risposta:

(p. 181): “In che quadro ci troviamo? Tu entri in casa: hai almeno una finestra in casa tua, questo è già un quadro. Anche la porta. Poi c'è la tavola che è quadrata, il letto che è quadrato...Per forza quindi ti trovi inquadrato. Il modo stesso in cui ci accostiamo all'embriologia, o alla nascita, o al codice genetico, sono tutti quadri di una data forma. A volte è un bene che il quadro sia rigido, altre volte lo è meno”.

Uhmm…neanche a questo avevo mai pensato…Eppure, queste osservazioni hanno delle conseguenze enormi, se, appunto, e come fa Godard, ci accostiamo alla storia del cinema (al modo in cui l’uomo, da quando i fratelli Lumiére hanno scoperto il cinema, ha imparato ad inquadrare ciò che vede intorno a sé):

(p. 191): “Quello che conta allora sono i limiti; perché è solo grazie ai limiti che noi possiamo conoscere il nostro desiderio di non-limiti, sia un senso che nell'altro; e conoscere la realtà. Quindi la cornice, il quadro. E' questo ciò che conta. Nella realtà tutto è inquadrato. E che una cosa sia inquadrata in tondo oppure in quadro dipende dal fatto che anche l'immagine è una cosa della vita, e che rappresentare è appunto un modo d'inquadrare. Del resto anche noi abbiamo qualcosa che c'inquadra anche fisicamente, ed è ciò che chiamiamo il nostro corpo. E poi dopo c'è anche il quadro sociale, e c'è il problema dell'inquadratura o dell'angolazione da cui prendi l'inquadratura, che è pure una cosa interessantissima”.

Da qui Godard riflette sulle diverse tecniche d’inquadratura adottate da Ejzenstejn, per il cinema russo, e da Griffith, per quanto concerne il cinema americano (essendo stato il primo l’inventore del cosiddetto “montaggio” – o arte di collegare due o più inquadrature; e il secondo l’inventore del cosiddetto “primo piano” – o arte di valorizzare l’espressione del volto del divo).

Mi fermo qui, questo post è anche troppo lungo (e forse noioso per chi non s’intende o non s’appasiona di cose di cinema).

Godard doveva presentare di persona il suo ultimo film al Festival di Cannes, ma alla fine ha dato buca, lasciando le schiere (contrapposte) di cui sopra con l’amaro in bocca. Qui sotto il trailer (il film s’intitola – in perfetto stile godardiano – “Film Socialisme”):

http://www.youtube.com/watch?v=FN27Hhfkf6k

viernes, mayo 21, 2010

Javier Marías presenta Il tuo volto domani 3. Veleno e ombra e addio e riflette sull’accelerazione dei tempi moderni (alla Fiera del Libro di Torino):

martes, mayo 18, 2010

Frammenti da “Invenzione di Don Chisciotte” (1949)

Don Chisciotte

Anticipa e calcola, prende e abbandona

-nessuno sa chi e quando, e nessuno sa come:

pensa che presto morirà, che occorre cambiare in fretta

-e guarda i suoi paesaggi:

Don Chisciotte

Si espone e si dichiara e si spiega e si dimostra

-questo è Don Chisciotte:

io apro il tempo che viene, come una porta o una finestra:

o como qualunque cosa chiusa:

-Don Chisciotte

Canta le sue canzoni di fronte a tutti i luoghi della terra:

ho poco da dire, nulla anzi, nulla da dire:

-io affretto

Il passo, per ritrovarlo:

le pulite ragazze sulla spiaggia che leggono racconti

di altre terre

non sono più con noi:

noi non siamo più con loro:

e tu con me:

la stagione dei gasometri e delle ciminiere è evaporata

nel vento:

la pioggia ci ha colti in corsa, il bavero

era proprio rialzato:

e ridi incomprensibile:

sei l’amico indifferente, senza peso:

sai soffiare sulle tue mani, inventare il tuo vento –

ti lascerò personaggio, anche se Dulcinea non vorrebbe,

homme plein de sens

-a fingere da solo le storie poliziesche,

a inseguire le fanciulle verdi:

avrai la tua solitudine:

-il gatto si rifugia sull’albero:

ha raggiunto i rami

più sottili – la turba dei meschini ha le scale e le scope:

il chiarore è un cerchio, segue una zona oscura, il terzo

settore è di luce:

la pioggia arriva a tratti diseguali,

le formiche ti insidiano, ti assediano, Dulcinea,

non puoi fuggire:

sul ponte gli uomini oziosi contemplano

ombre, biciclette nere controluce, mentre cercano le donne:

le caserme si illuminano, i soldati si gettano sul prato,

Dulcinea sta sugli alberi –

Viaggia sull’elefante candido di marmo, ma per una

Repentina conclusione è scagliata a terra:

la ragione

è nei ponti, che sono pieni di significati:

-il ragazzo

Bruciava le formiche concentrando la luce nella lente:

-le assorbiva crepitanti nello zolfo –

Wir haben, wo wir lieben, je nur dies: einander lassen:

dove l’orizzonte è più basso, ormai appena visibile,

per Dulcinea si solleva, e per lei soltanto, il profilo

di sogno del viaggiatore sensibile:

inchini inaugurali

per la luna che ritorna, per la cenere che sui giardini

si consuma:

per il tuo profilo che resiste nel silenzio:

ma se le trombe si inerpicano nel cielo e il buttasella

insistente mi evoca, io sono l’uomo che deve partire:

il torneo riprende – la risata si fa acuta:

i frati

non gettano più le caramelle e ritrovano la loro testa

presente,

e io sono l’uomo che sale sulle nuvole –

e nei paesaggi colloca figure:

se la tua mi si sciupa

e tu precipiti, la tua partenza è soprattutto la mia:

la distanza è immobile:

nessuna misura può risolversi

in una tua felicità – le bandiere continuano

a torcersi altissime:

e confondono i colori:

by Edoardo Sanguineti (1930-2010)

viernes, mayo 14, 2010

Laurence Sterne para il colpo




"Le vicissitudini che il suo cadavere ha dovuto sopportare sono degne dei suoi due romanzi. Venne sepolto con poco seguito nel cimitero di una chiesa di Hannover Square, e da lì venne trafugato qualche giorno dopo per essere venduto al professore di anatomia dell'università di Cambridge, precisamente dove lui aveva studiato. A quanto sembra, quando si stava per concludere la dissezione del corpo, uno dei due amici che il professore aveva invitato ad assistere alla seduta, scoprì per caso il volto del morto e riconobbe Sterne, al quale era stato presentato non molto tempo prima. L'invitato svenne, e il professore, nel rendersi conto di quale illustre gloria avesse sottoposto allo scalpello, si preoccupò che almeno lo scheletro venisse conservato. Nella collezione di ossa cartabrigense si è tentato di identificare più di una volta il suo teschio, ma senza successo, quindi in realtà s'ignora dove giaccia il buon Laurence Sterne.
Probabilmente a lui non sarebbe importato, perché sebbene abbia detto, mentre la morte gli si gettava addosso, che "gli avrebbe fatto piacere altri sette od otto mesi... ma sia come Dio vuole", è anche vero che in Tristram Shandy aveva espresso il desiderio di morire lontano da casa, "in una qualche locanda decente", senza causare preoccupazioni né fastidio agli amici.
Il suo desiderio venne realizzato a Londra, dove un testimone ha riferito il suo ultimo respiro: "Ormai è arrivata", disse Sterne, e sollevò la mano, come per parare un colpo".

Javier Marías, "Vite scritte" (1992), tr. it. di Glauco Felici, Torino, Einaudi, 2004, pp. 152-53.

domingo, mayo 09, 2010

Sulla morte: Proust e l'arte come ancora di salvezza.


C'è poi tutta quella storia sulla morte...la morte e l'arte...la morte di Bergotte (alias: Anatole France), una delle parti più toccanti e, allo stesso tempo, più filosoficamente dense della Recherche, perché è lì, è proprio in questi brani, che Proust si ferma a riflettere sull'arte (o inizia a riflettere sull'arte in quanto ancora di salvezza, e possibilità di travalicare i secoli, di sorpassare la morte fisica delle persone, in quanto unico strumento che l'uomo possiede per eternizzare quanto prodotto con la forza della propria immaginazione, dello stile, di quello che siamo in grado di creare in modo artistico a partire dagli oggetti reali che ci circondano)...
Sono ormai mesi che ho letto quel brano e, di fatto, non ne ricordo tutti i dettagli, ma con Proust è così: la scrittura proustiana produce degli echi che risuonano nell'animo del lettore a distanza di giorni, mesi, forse anni. Una determinata scena rimane impressa nella memoria e anche se non si ricorda tutto si può ricordare perfettamente l'aria (e l'aura) di un personaggio, il modo di parlare di quell'individuo che sembrava comparsa e invece non lo è, di quel particolare avvenimento tragico o luttuoso. Come la morte di Bergotte.
Siamo nel bel mezzo del volume dedicato ad Albertine, il grande amore di Marcel (La prigioniera, che è una specie d'incubo ad occhi aperti, una radiografia di quel sentimento onnipotente che chiamiamo “amore” e di quell'incubo quotidiano a esso intimamente connesso che definiamo “gelosia” - una sorta di fenomenologia dell'amore e della gelosia in quanto “ossessioni” portanti dell'essere umano). E il Narratore si sorprende quando viene a sapere la notizia della morte di quello che è stato uno dei suoi scrittori preferiti, letti sin dalla prima giovinezza. Bergotte si era ammalato, negli ultimi tempi soffriva d'insonnia, le medicine che gli vengono prescritte dai vari dottori non fanno che peggiorare la situazione. Poi, ad un tratto, Bergotte si accorge di un particolare cui non aveva mai prestato attenzione: un pezzo di muro giallo dipinto all'interno del famoso quadro Veduta di Delft, di Veermer (il pittore e il quadro preferiti di Proust). E allora Bergotte approfitta della mostra che stanno organizzando a Parigi proprio sui pittori fiamminghi per andare a vedere quel dettaglio che gli era sfuggito. Va al museo, infagottato nel suo cappotto (si suppone faccia freddo, ma non ricordo se è Giugno o Maggio, se fa caldo o freddo, e in quale stagione muoia davvero Bergotte), e contempla il quadro di Veermer, e nel contemplarlo riflette sulla propria arte, sul suo modo di scrivere, si domanda se non abbia sbagliato tutto nella vita, se non avesse dovuto cambiare stile, migliorarsi, riempire le frasi di echi più pregnanti, e scrivere con stile più evocativo, meno piano e diretto. Poi ha un attacco di tosse. Si sente male. Ma pensa che sia un attacco passeggero (forse le patate non abbastanza cotte). Cade. E il Narratore ci descrive la caduta del suo scrittore preferito come se fosse uno dei tanti testimoni oculari:
Un nuovo colpo l'abbattè, dal divano rotolò per terra, facendo accorrere tutti i visitatori e i guardiani” (p. 587 del vol. III dell'ed. Meridiani Mondadori a cura di Luciano De Maria).
C'è un che di ridicolo nella morte dello scrittore, qualcosa che ricorda vagamente una scentta comica dei film muti di Buster Keaton o di Charlie Chaplin. E a metà tra la tragedia e la commedia sono pure le successive impressioni del Narratore, che scrive con stile filosofico:
Era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo? Certo, le esperienze spiritiche non forniscono – non più dei dogmi religiosi – alcuna prova che l'anima sussista. Quello che si può dire è che tutto, nella nostra vita, avviene come se vi fossimo entrati con un fardello di obblighi contratti in una vita anteriore; non vi è nessuna ragione, nelle nostre condizioni di vita su questa terra, perché ci sentiamo obbligati a fare il bene, a essere delicati o anche soltanto educati, né perché un artista ateo si senta obbligato a ricominciare venti volte qualcosa che susciterà un'ammirazione così poco importante per il suo corpo divorato dai vermi, come il lembo di muro giallo dipinto con tanta sapienza e raffinatezza da un artista per sempre ignoto, identificato appena sotto il nome di Veermer. Tutti questi obblighi, che non trovano sanzione nella vita presente, sembrano appartenere a un mondo diverso, fondato sulla bontà, lo scrupolo, il sacrificio, un mondo totalmente diverso da questo, e dal quale usciamo per nascere a questa terra prima forse di tornarvi a rivivere sotto il dominio di quelle leggi sconosciute cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l'insegnamento dentro di noi senza sapere chi ve le avesse tracciate – quelle leggi cui ci avvicina ogni lavoro profondo dell'intelligenza e che rimangono invisibili soltanto (e chissà, poi?) agli sciocchi. Così, l'idea che Bergotte non fosse morto per sempre non ha il carattere dell'inverosimiglianza. Lo seppellirono, ma per tutta la notte prima dei funerali, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliarono come angeli dalle ali spiegate sembrando, per colui che non era più, un simbolo di resurrezione” (id., pp. 587-88).
Proust non è un filosofo di professione; è uno scrittore e, come tutti gli scrittori, pensa per immagini. Questo brano, oggettivamente denso, sembra complicato perché evoca una serie di immagini che scatenano una serie di concetti che aprono a una serie di interpretazioni diverse sullo stesso fenomeno: la morte fisica (il corpo divorato dai vermi), a cui si contrappone, però, la vita “eterna” che l'arte sembra regalare a chi ha saputo plasmarla in un quadro (o in una partitura musicale o in un libro – qui simbolizzata da un angelo che dispiega le ali protettrici).
Che senso ha prodigarsi tanto, faticare così duramente, sforzarsi di scrivere bene, di praticare il bello e il buono, quando le condizioni di vita che ci influenzano su questa terra sono tanto contrarie al bello, al buono, perfino alla buona educazione? Chi ci ha inculcato il culto del lavoro profondo dell'intelligenza? Quale Dio ha avuto l'idea di imprimere nel nostro animo il senso del dovere e la spinta verso il bello? Perché possiamo dire che, in un certo senso, Bergotte non è morto (o non è inverosimile pensarlo “ancora vivo” nonostante i vermi abbiamo già iniziato a corrompere il suo corpo)? Trovo una risposta logica e plausibile solo a quest'ultima domanda: Bergotte vive perché esistono i suoi romanzi (quei libri esposti in vetrina e che, disposti a tre a tre, ancora ci parlano di lui). L'arte, sembra suggerire Proust, è l'unico strumento di salvezza dalla morte, l'unica resurrezione possibile per l'uomo mortale. Ogni volta che qualcuno tornerà a domandarsi che ci facesse quel lembo di muro giallo nel quadro di Veermer, ogni volta che qualcuno tornerà a leggere i libri di Anatole France (ogni volta che qualcuno prenderà in mano uno dei tomi della Recherche, senza farsi intimorire dalla vastità e dalla complessità dell'impresa), sia Veermer che France (che Marcel Proust) torneranno a vivere (nella mente dello spettatore o del lettore dedito a seguire il loro stesso sforzo d'artista, il loro stesso “lavoro profondo dell'intelligenza”).
I libri: presentati, nell'ultima frase, come “angeli custodi” che, per il morto, sembrano incarnare il simbolo della resurrezione. Eppure, Proust scrive questo brano come se stesse ricoprendo il ruolo del filosofo alla Schopenhauer (o alla Unamuno): un filosofo disilluso, deluso dalla vita, dinsingannato, e che non crede più nemmeno alle amare verità cui lo conduce la sua stessa filosofia. Sembra ancora dubitare. Sembra scettico, anche quando ci presenta i libri come fari che “illuminano” il cammino del morto (o la vetrina della libreria). La Recherche è il libro che lo scrittore in potenza sta tentando di scrivere quando ancora dubita che riuscirà a portarlo a termine. E' il viaggio di colui che ancora non sa che riuscirà a includere nella scrittura tutto quanto ricorda e pensa. E la morte di Bergotte sembra essere uno di quei momenti di crisi in cui, anche se si è circondati dagli “angeli”, non si sa bene e come e quando si riuscirà ad arrivare alla fine (a una qualche conclusione). L'arte salva ed eternizza la voce dei morti. Il punto è che qui Proust (attraverso la voce del Narratore) sembra proiettare su un piano futuro (e tramite la maschera di Bergotte) - sembra prevedere con “gli occhi della mente” - quella stessa morte che l'attende (e che, una volta sopravvenuta, non gli permetterà più di terminare la Recherche). Bergotte muore, ma è come se in questi brani Proust stesse facendo le prove per quell'ultimo atto che determinerà inevitabilmente anche la fine della sua opera. In questo brano, anche se solo per speculum et in aenigmate, il lettore si accorge di un fatto umanissimo: Proust ha paura della morte e dubita (per un momento) che l'arte possa davvero salvarlo. Quel dettaglio, poi, quel lembo di muro giallo, diventa un particolare assurdo: non sappiamo se esista davvero dentro il quadro di Veermer; e pure se dovesse esserci, è ridicolo alzarsi dal letto per andare al museo a contemplarlo, nello stato in cui si trova Bergotte. Quel dettaglio, il culto per il particolare (“Dio si nasconde nei dettagli”, diceva Flaubert, se non erro), il culto per l'arte che è fatta solo di particolari, serve anche come “spunto ironico” per riflettere su un certo tipo di scrittura che, in nome del particolare stesso, rischia di smarrire l'universale (quanto non farà mai Proust all'interno del suo romanzo-infinito). Ecco perché Bergotte crolla in quel modo un po' ridicolo e silenziosamente buffo, all'interno del museo, e davanti alla Veduta di Delft.

miércoles, mayo 05, 2010

Sono d'accordo (ancora su Eyes Wide Shut):

"[...] il cinema di Kubrick è un "cinema totale", in quanto messa in gioco del cinema come "forma", totalmente "astratta" dalla pretesa (ingenua) della rappresentazione della realtà; se mai, l'immagine kubrickiana ha a che fare, da una parte con la mente e il cervello, le forme logiche e le dinamiche psicologiche più profonde e, dall'altra con le forme più arcaiche della narrazione, il mito e la fiaba. E' con questa duplice direzione che il rapporto tra Kubrick e Schnitzler si arricchisce di nuovi significati".

Daniele Dottorini, "Eyes Wide Shut. Il punto cieco del cinema", in AA.VV., Il doppio sogno di Stanley Kubrick, Milano, Il Castoro, 2007, pp. 156-57.

[E comunque, neppure in questa raccolta di articoli sono riuscito a trovare qualcuno che si sia accorto delle citazioni cinematografiche nascoste che Kubrick fa da The Apartment di Billy Wylder e dai vari Don Giovanni; che sia tutta una mia fissazione? Che veda un morto che ritorna anche lì dove c'è solo un sacco nero non ben identificabile?]

domingo, mayo 02, 2010

Oltre Gutenberg


By Enrique Vila-Matas[1]

Torno a casa dopo un giorno molto stressante durante il quale non ho fatto altro che rispondere e rispondere – sempre la stessa risposta, risposta imparata a memoria, detta in modo meccanico – alle domande dei giornalisti sul futuro del libro a stampa. Ben mi sta, visto che ho scritto un romanzo in cui parlo del passaggio da Gutenberg a Google. Nel corso della giornata mi sono domandato spesso che ne sarebbe stato di Kafka se avesse dovuto rispondere in mille interviste perché raccontò che un giorno Gregor Samsa si ritrovò nel proprio letto trasformato in un mostruoso insetto, con una schiena dura come un guscio e un ventre tondeggiante. Immagino Kafka mentre ascolta sempre la solita domanda:

- E’ lei quell’insetto?

- Come dice, scusi?

C’è stato un momento terribile durante il quale, sicuramente per colpa della stanchezza, mi è sembrato che, invece che chiedermi del destino del libro a stampa, si preoccupassero del futuro dell’insetto. Per fortuna che era l’ultima intervista.

- Per caso lei vede il futuro del libro a stampa come se ormai fosse solo un volgare insetto? – ho chiesto, preoccupato.

Ricordo che a partire da quel momento, contagiato dall’incredibile insistenza delle domande sullo stesso argomento – Gutenberg e Google, e una e un’altra volta, sempre lo stesso tema, partendo e tornando da Google a Gutenberg e da Gutenberg a Google – ho cominciato seriamente a vedere il libro a stampa come se fosse un volgare e ripugnante scarafaggio che finirà per interessare solo accumulatori di carta straccia e sporca, ovvero, gente malata e affetta da quell’orribile variante del mal di Diogene che consiste nell’avere librerie.

Sto tornando felicemente a casa, ormai. Sono a piedi e in questo momento cammino per una strada solitaria, scarsamente illuminata. Se non fosse per il fatto che è vicina a casa mia e che la conosco bene, penserei che è una strada pericolosa. Cammino a fatica e pensando ossessivamente a quanto ho risposto a tutti coloro che mi hanno intervistato: “Non c’è motivo di allarmarsi dell’irruzione del mondo digitale nella letteratura perché tra Gutenberg e Google non c’è rottura ma continuità. Allarmante sarebbe il fatto che sparisse il linguaggio, il pensiero, la narrazione”.

E’ stata particolarmente faticosa la disquisizione dell’ultimo intervistatore perché si è impegnato a farmi notare che non è affatto vero che non esista rottura tra Gutenberg e Google. Basta osservare, mi diceva, come risulti impossibile citare da un libro in formato digitale la pagina in cui si trova la frase che ci ha commosso. Si può, mi spiegava, citare la pagina se il libro è nel formato pdf che riproduce la paginazione del volume a stampa, ma se, al contrario, il testo può essere adattato in quanto a carattere e dimensione delle parole, allora le pagine smettono di esistere ed è tutto unitario, per cui non si può citare, a meno che non si dica: per uno schermo di tot pollici, e con tipo di carattere di tot grandezza e di tot formato, ma ciò sarebbe davvero assurdo…

Non so cosa sia successo, forse è stato quando si sono accumulati tutti i momenti del giorno durante i quali mi hanno chiesto di Gutenberg e Google, di sicuro è che queste parole mi hanno colpito la mente con una certa brutalità, e ora torno a casa non solo stanco, ma anche con la testa chiaramente scossa dalle parole dell’ultimo intervistatore e soprattutto da una di queste, dalla parola – ma non so se arriva a esserlo – pdf.

Pdf è una parola? Sto diventando pazzo? Questa è un’altra bella domanda. Non so se, una volta arrivato a casa, potrò prendere sonno. Mi gira tutto, come se le scosse provenissero da una trottola che fosse a tratti pungiglione e a tratti un mostruoso insetto e che, per di più, questo insetto fosse il futuro del libro. Qualcosa mi suggerisce qui dentro – nella testa, ripetutamente scossa e prossima ad esplodere -, che in realtà la produzione e distribuzione di libri emigrerà poco a poco verso il cyberspazio e che lo schermo rimpiazzerà la parola scritta su carta e che ci sarà rottura, per quanto io possa credere e dire il contrario. Sono sfatto. Mi sento – scusate la parola – molto pdf. Certo che ci sarà rottura. Potrebbe succedere questo. Ma la cosa peggiore è che ancora non sono arrivato a casa e ormai non vedo altro che scarafaggi che sembrano mediocri attori comici in un grande dramma molto serio. Il dramma è mio. E io sono lo scarafaggio principale.

- Perché dice di essere un mostruoso insetto, con la schiena dura come un guscio e un ventre tondeggiante? – immagino mi chieda uno sconosciuto prima di girare l’angolo che si trova vicino casa.

Sono in pericolo? Lo è a maggior ragione il libro a stampa? Ho paura di qualcosa?

- Crede che i libri a stampa scompariranno e andremo verso un mondo completamente digitale? – immagino mi chieda l’accompagnatore dello sconosciuto.

E’ come se fossero gli ultimi due intervistatori del giorno. Mi gira la testa. Se almeno avessi paura. Solo che adesso la strada mi sembra perfino illuminata. Sono morto per colpa del problema tra Gutenberg e Google? La strada mi sembra sempre più luminosa, come se fossi entrato in un altro mondo. Luce dell’al di là.

- Per oggi non rispondo ad altre domande – dico. - Come direbbe Shakespeare, Gutenberg è Gutenberg e Google è Google. Chiaro? E ora scusatemi, ma sono proprio pdf.

Giro l’angolo e mi lascio dietro gli intervistatori e, quando sto per entrare a casa, vedo che sulle mie chiavi è scritto il futuro del libro. E’ così terribile ciò che leggo sulle mie chiavi che non so se è meglio tacere. A partire da ora, se qualcun altro torna a chiedermi del futuro del libro a stampa, manterrò un pietoso silenzio, come un morto. Non è piacevole sapere che neppure Google sopravvivrà e che al di là dell’era digitale ci aspetta il terribile Eyjafjallajökull, il centro di Difuclyatd, lì dove si sente il costante e inconfondibile gluglù di uno scarico.


[1] Frammento letterario: “Más allá de Gutenberg”, di Enrique Vila-Matas, apparso su El País del 24/04/2010. La trad. è mia, la simpatica foto dell'autore proviene dal sito internet:www.enriquevilamatas.com

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...