miércoles, noviembre 24, 2010

Un manoscritto interrotto


Il lettore del Don Chisciotte non sa – ad un primo approccio al testo – che la storia che sta leggendo s'interromperà improvvisamente alla fine del cap. 8. E ci resterà male o si sorprenderà molto, perché il manoscritto in cui sembra essere narrata la vicenda del folle idalgo si ferma – bloccando i personaggi in una sorta di fermo-immagine cinematografico, come scrisse bene Vladimir Nabokov – proprio nel momento di massima tensione narrativa e di maggiore e più esplicita suspense, e cioè: proprio quando Don Chisciotte è sul punto di scagliare la sua ira contro lo scudiero biscaglino che lo ha spinto a singolar tenzone perché si rifiuta di giurare che Dulcinea è la dama più bella che ci sia nell'Universo...

I due personaggi sono in procinto di ammazzarsi a vicenda e lì il narratore interviene per dirci che, proprio in quel brano, il manoscritto si blocca; non solo: il “secondo autore” interviene in terza persona singolare per dirci che non è possibile che non esista una continuazione dell'opera; è impossibile che non esista qualche altro “autore” che non abbia narrato le vicende del nostro cavaliere errante in qualche altro “manoscritto perduto”... E infatti: il cap. 9 inizia con l'anonimo “secondo autore” che – stavolta in prima persona – ci narra come - grazie ad un incrocio di fortunosi avvenimenti e del volere del cielo e della sorte - sia riuscito proprio a scovare un secondo manoscritto originale che ri-narra le vicende di Don Chisciotte proprio a partire da quell'interruzione o cesura improvvisa in coincidenza della fine del cap. 8. Chi dice “io”, stavolta, è Cervantes e solo ora, soltanto in questo momento, il lettore attento può intuire perché Cervantes si presenti sin dal Prologo del romanzo come “padrino” (o “patrigno” - qui “segundo autor”) e non come “padre” di Don Chisciotte: lui è solo uno che ha ritrovato i vari manoscritti dell'opera; è solo una sorta di editore dell'opera – uno che rimette insieme i pezzi del puzzle; essendo il “primo autore” (o autore autentico) l'arabo Cide Hamete Benengeli, “historiador arábigo” (storico arabo), l'autore della Historia de Don Quijote de la Mancha...

L'autore reale (Cervantes) si sdoppia, inventandosi un autore fittizio (Cide Hamete Benengeli) che viene fatto passare per l'autore “vero” e “originale” del manoscritto “originale” che contiene la storia del folle idalgo interrotta nell'altro manoscritto all'altezza del cap. 8. Non solo: Cervantes scopre che l'opera del presunto “primo autore” è scritta in arabo, per cui immagina di farla tradurre da un altro arabo, un giovane traduttore che conosce bene lo spagnolo, e che, per portare a termine l'impresa, si trasferisce a casa del “secondo autore” (Cervantes) e là la traduce in un mese e mezzo. L'opera che leggiamo, dunque, è frutto della traduzione dall'arabo allo spagnolo di un'opera scritta in arabo e rinvenuta (grazie alla buona sorte) da Cervantes stesso in un mercato di Toledo in cui si trovava a passare per puro caso...

Oltre che di metafinzione, qui possiamo davvero parlare di “letteratura al quadrato” (o al cubo) in cui i giochi di specchi che si stabiliscono tra le varie voci narranti si complicano ulteriormente quando sembra che Cervantes non sia disposto a dare amplio credito a Cide Hamete Benengeli perché – dice – è arabo e, come tutti gli arabi (per gli spagnoli del tempo), è un “bugiardo” o tendenzialmente incline alla “menzogna”... E che dire del traduttore? Non solo anche lui è un arabo, ma, quando va a casa dell'autore reale (Cervantes) ricopre il ruolo del traduttore e si sa che tradurre è anche sempre un po' tradire il testo originale, il testo di partenza... (non conto i casi in cui è lo stesso Don Chisciotte a proiettare le sue avventure verso il piano del futuro e immagina – egli stesso – cosa scriverà il futuro scrittore, nonché autore, del romanzo che canterà le sue imprese cavalleresche)...

Vengono subito in mente le riflessioni che fa Michel Foucault sul quadro Las meninas di Velázquez; ed è inevitabile ricordare qui la tecnica narrativa che sfrutta spesso Borges nei suoi racconti; così come è quasi impossibile non evocare tutta quella serie di opere “meta-letterarie” in cui l'autore usa la mise en abyme per creare una distanza tra sé e l'opera e per presentare l'opera letteraria stessa come frutto di una specie di “giochi di specchi” o di “racconti a scatola cinese” che potrebbero proseguire all'infinito...

Ma una cosa su cui non sempre si riflette è che, quando poi, finalmente, verso la fine del cap. 9, torniamo a leggere del duello tra Don Chisciotte e il biscaglino e scopriamo finalmente come finisce la storia, non possiamo non domandarci come sarebbe stato il manoscritto di Cide Hamete Benengeli – fosse esistito e Cervantes o chi per lui l'avesse rinvenuto – dal cap. 1 al cap. 8 del manoscritto stesso... Questo per dire che il Don Chisciotte e il biscaglino che stanno per ammazzarsi a suon di spade alla fine del cap. 8 del primo manoscritto anonimo ed edito da Cervantes (quello di cui non sappiamo chi sia l'autore reale) resteranno per sempre “altri” dal Don Chisciotte e dal biscaglino di cui vediamo la lotta sul finire del cap. 9 del manoscritto di Cide Hamete Benengeli... Ovvero: il Don Chisciotte e il biscaglino del primo manoscritto anonimo sono ancora là, con le spade levate in aria, e sono condannati a restare per sempre così, in quella scomoda posizione di ira trattenuta, pronta a scattare e ad esplodere con la forza che le braccia trasmettono alle rispettive spade. Le spade di quei due personaggi sono ancora levate in aria, nel punto di massima suspense e di maggiore tensione narrativa...

jueves, noviembre 18, 2010

La dolce vita, dopo 50 anni

Ieri ho approfittato della proiezione gratuita de La dolce vita per potermi godere la visione sul grande schermo del capolavoro di Fellini. Ho scoperto su internet che l'iniziativa è stata curata da Mediaset e Medusa (qualcosa di buono lo fanno anche loro, ogni tanto). E mi ha fatto effetto, mi ha impressionato rivedere questo film al cinema. 

La prima volta che l'ho visto non mi piacque molto; avevo 18 anni, e non avevo capito bene di cosa parlasse il film. Oggi che sono cresciuto e che ho potuto apprezzare tutta la brillantezza (e il sonoro ripulito) della versione restaurata del film ho capito alcune cose che voglio elencare per fare chiarezza a me stesso e non perdere il filo (del discorso sul film stesso):

a) nei film di Fellini (come pure in questo) c'è sempre un mucchio di gente che chiacchiera nelle lingue più diverse; La dolce vita è un film cosmopolita perché le persone (e i personaggi?) che lo popolano vengono dai posti più disparati e parlando (accavallandosi fra loro) ognuno la loro lingua (francese e inglese su tutte); lo spettatore finisce in mezzo a molteplici conversazioni che è letteralmente impossibile seguire in modo logico; la macchina da presa aleggia su queste persone e sulle loro chiacchiere come un ospite volante che tutto osserva e tutto ascolta;

b) i film di Federico Fellini sembrano opere circensi: ci sono sempre personaggi che si comportano come pagliacci; che fanno i pagliacci; o che ballano, si divertono e urlano come fossero al circo; in tal senso, il personaggio di Anita Ekberg è un vero spasso; è la fanciulla che balla e danza e canta e ride con tutti (fino a stregare Marcello Mastroianni dentro la Fontana di Trevi - una di quelle sequenze che conoscono tutti, anche quelli che non hanno mai visto La dolce vita).

c) La dolce vita non è affatto un film allegro (al di là del suo impianto circense): anzi, qui si parla molto di morte. E di morti. Non solo quella spirituale (quella metaforica che sembra colpire molti degli amici che frequenta Marcello - e Marcello stesso ne soffre; non riesce a cambiare vita, si sente morto dentro; partecipa alle festicciole dei ricchi, ma senza entusiasmo; si ubriaca e torna dalla fidanzata cui mette le corna, ma non l'ama; si invaghisce della Ekberg, ma è solo il flirt di una notte romana romantica; etc. etc.), ma anche quella fisica. L'amico musicista Steiner si suicida, dopo aver sparato ai due figli piccoli. E nell'episodio del "miracolo della Madonna" ci scappa il morto. Anche lì, anche in quella scena (tragicomica) in cui le persone si attaccano alla speranza, dando credito alle visioni mariane di due bambini che, forse, si sono inventati tutto...




d) La dolce vita è un film misterioso: è pieno zeppo di simboli o di immagini che sembrano assurgere al ruolo di simboli. Prendiamo anche solo la prima scena e l'ultima: all'inizio vediamo un Cristo (una statua) appeso con delle funi a un elicottero. "Dove lo portano?", chiedono delle fanciulle prosperose a Marcello, che si trova, insieme ad un altro suo collega giornalista, dentro l'elicottero... E prendiamo l'epilogo, quando Marcello e gli amici finiscono in riva al mare e vedono il "mostro", una sorta di pesce gigante, una specie di polpo enorme, che fissa coi suoi occhi ancora vivi la faccia di Marcello... E ancora: la ragazzina che Marcello ha incontrato in precedenza in un bar e che gli dice qualcosa che non riusciamo a sentire per colpa del rumore delle onde del mare... (e con le parole incomprensibili della ragazzina si chiude il film)...

e) La dolce vita è un film che spiazza. Dura quasi 3 ore; eppure...vorresti che non finisse mai.
E' pieno di eleganza, eppure... parla di cose "sporche" o che possono "avvelenare" l'animo dello spettatore. E' pieno di innocenza (e di leggerezza), ma ruota attorno a "eros" e "thanatos"...



 f) La dolce vita ha un titolo che è un ossimoro: perché la vita che fa Marcello e quella che conducono gli uomini e le donne che frequenta tutto è fuorché "dolce"... Vuota, apatica, superficiale, vana, ma non dolce... O dolce solo all'apparenza. Il film scava dietro quest'apparenza per vedere cosa si nasconde dietro... E lo fa fino in fondo e con un coraggio notevole.



martes, noviembre 16, 2010

Seneca e i classici

La scorsa settimana, parlando del concetto (e della definzione) di “classico” ho fatto ricorso a Italo Calvino. E' stato uno dei pochi a dare una risposta elegante (e valida) alla domanda: che cos'è un classico? Cito (da Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 13):

Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.

In quell'occasione parlavo del Don Quijote, ma, non so per quale strano motivo, il pensiero mi andava alle Lettere a Lucilio di Seneca... (un libro che Calvino non cita nel suo saggio, ma chissà, ne avrà parlato magari in un altro contesto o in un altro libro, non lo so e non ho voglia di andare a controllare su internet).

Le Lettere a Lucilio sono un'opera di una modernità sconvolgente. O almeno, così mi sembra, quando m'imbatto in frasi all'apparenza così “secche” e dirette e semplici come questa:

[...] pensa che tu sei mortale ed io son vecchio” (da Seneca, Lettere a Lucilio, Milano, BUR, 1994, vol. I, p. 100).

La frase va inquadrata nel contesto storico, oltre che autobiografico, in cui l'autore scrive: è prossimo alla morte, ha intenzione d'istruire nel migliore dei modi possibili il suo alunno-allievo-figlio Lucilio; e quindi lo sprona a rispondere subito alle lettere che lui gli manda; a riflettere in fretta sugli argomenti che lui sottopone alla sua attenzione; a non lasciarsi fuorviare dalle sirene della mondanità e a ragionare su come si vive su questa Terra e su come bisogna accettare (o affrontare serenemanete) la morte. E quindi: “fai in fretta, perché tu sei mortale, Lucilio, ed io sono vecchio”...

Una frase che fa paura e che suona come poesia: poche parole (esatte) per dire: non c'è niente di sicuro; la comunicazione potrà interrompersi al di là della nostra volontà di mantere il contatto (epistolare); potrebbe giungere la morte e mettere fine al nostro carteggio. Stai attento, e affrettati, ragiona bene e velocemente, perché tu sei “uomo mortale” (e quindi: sottoposto alla legge della natura) e io sono “vecchio” (ovvero: in procinto di affacciarmi al limite ultimo che la natura pone all'uomo: la morte, la fine della sua esistenza sulla Terra).

Queste parole mi riecheggiano nella mente anche quando esco dall'aula; quando, ormai, la lezione è finita (e quindi: andate in pace, siete liberi di farvi la vostra chiacchierata, di fumarvi la vostra sigaretta, di prendervi il vostro sacrosanto caffè)...

Ma ricordate, ragazzi: voi siete mortali e io sono vecchio...

Poi mi torna in mente un'altra frase, più lunga:

Ciò che può capitare in qualsiasi momento può capitare oggi” (id., p. 177).

Un'altra di quelle frasi (quasi sibilline, misteriose) con cui Seneca ti apre un mondo e ti riduce in poltiglia (perché ti fa capire immediatamente quanto sei “mortale”, e quindi: fragile, mentre cammini su questo pianeta, credendoti a volte il padrone di tutte le cose create e generate – t'illudi - per il tuo benessere o interesse personale).

E mi fermo a rifletterci, davanti a un caffè: “quello che può capitare in qualsiasi momento può capitare anche oggi”. Potrei morire anche ora. Potrei innamorarmi svoltando l'angolo. Potrei... Le infinite (o apparentemente tali) possibilità che ci offre la vita per il solo fatto di vivere... Le infinite minacce che potrebbero mettere fine alla vita di ognuno di noi viventi per il solo fatto di esistere...

Forse, però, Seneca intendeva dire qui un'altra cosa: voleva dirci, forse, di non stare con le mani in mano; sii padrone del tuo destino; non aspettare che le cose accadano; “quello che puoi fare o senti di poter fare in qualsiasi momento, fallo oggi”... Una sorta di richiamo all'azione: oltre che una sorta di presa di coscienza del fatto che in un minuto (come diceva T. S. Eliot) c'è il tempo per prendere decisioni o revisioni che un minuto può cambiare (e stravolgere, magari contro la nosta stessa volontà).

Sì, domani lo cito, domani lo dico: la letteratura mondiale è piena di classici, ragazzi. Noi qui studiamo (e leggiamo e proviamo a capire) il primo romanzo moderno, ma leggetevi anche Seneca, leggete le Lettere a Lucilio e vi si aprirà un mondo...

viernes, noviembre 12, 2010

XY, di Sandro Veronesi: un romanzo sul Male

Da sempre la letteratura ci parla del Male: l'Iliade narra della guerra (dei morti e delle sofferenze, dei lutti e dei dolori assoluti che può causare una guerra); le tragedie greche (penso soprattutto a quelle di Sofocle) sono storie di persone che, per incomprensioni varie e per vari scherzi del destino, si ammazzano, si distruggono a vicenda, violentano e impiccano, sgozzano e vendicano, senza requie; Dostoevskij, sul Male (che commette l'uomo sulla Terra ai suoi simili o che Dio sparge su di noi dall'alto della sua divina imperscrutabilità), ci ha costruito un'intero ciclo di romanzi divenuti poi “classici” (penso, soprattutto, a Memorie dal sottosuolo e a I fratelli Karamazov – penso a quell'allucinante radiografia del Male che è “La leggenda del Grande Inquisitore”); ma anche Faulkner, anche Proust, anche Beckett (che Veronesi cita sempre ad epigrafe dei suoi libri, sin da Venite, venite B-52) hanno parlato del Male, in quanto tema ossessivo o che, ossessivamente, si ripresenta all'attenzione dello scrittore e, parallelamente, del lettore.
Ebbene, XY (fatte le dovute “distanze”), l'ultimo romanzo di Sandro Veronesi (Roma, Fandango, 2010), ci parla del Male e dell'inspiegabilità di certi eventi a esso legati. La trama è molto semplice: in un'immaginario paesino di montagna del Trentino, una comunità di 47 anime assiste, impotente e spaventata, all'improvvisa apparizione del Male sotto forma di una strage (di 11 degli abitanti) avvenuta nello stesso luogo e alla stessa ora. Si tratta di morti assurde e “spettacolari” in quanto a violenza e, appunto, “inspiegabilità” (la più assurda di tutte essendo quella di una donna azzannata da uno...squalo).
Non solo: dal momento della strage, gli abitanti superstiti sembrano andare incontro a un irrefrenabile processo di “follia collettiva” senza precedenti, per cui: c'è chi piange la scomparsa di un parente (morto 7 anni prima); chi ricomincia a soffrire per le fitte di dolore causate da una gamba amputata; chi offende il vicino di casa fino a spingerlo al suicidio.
E' un romanzo “crudo”, questo di Sandro Veronesi, perché non ci risparmia nulla di quanto possiamo immaginare o pensare o ipotizzare intorno al grande enigma del Male (perché c'è; come si può fermare; perché se Dio c'è non prevale il Bene, su questa Terra; come si fa a vivere e ad andare avanti dopo un lutto in famiglia).
Gli unici due personaggi che tentano di fare chiarezza e di non perdere il contatto con la realtà sono un prete e una giovane psichiatra: entrambi lottano per cercare la verità e fare in modo che Borgo San Giuda (questo il nome del paesino) non scompaia per sempre sotto i colpi della paura e della follia.
Il capitolo senza dubbio migliore è proprio quello che da il titolo al romanzo, quello in cui questi due personaggi si fermano a fare colazione (alle 2 di notte, in canonica) e si fermano a riflettere su quanto hanno visto, dal vivo (come il prete) o a distanza e attraverso le carte della Questura e le immagini propagate dai media (come la psichiatra).
Ecco: secondo me è qui che l'autore fa centro. Quando, con tono anche ironico, oltre che molto vivace, mette a confronto (e fa “scontrare”) queste due diverse visioni o punti di vista sul mondo. Come spiegare l'inspiegabile? Con la fede, come vuole il prete (che, credendo in Dio, deve per forza di cose accettare anche l'esistenza e la presenza maligna di Satana), o con la scienza, come vuole la psichiatra (che, consultando i saggi dei colleghi più esperti, cerca la proverbiale “quadratura del cerchio”)? E se il mistero fosse qualcosa che ci appartiene, anche quando non vogliamo vederlo, anche quando ci sforziamo di ignorarlo? Se fosse parte del destino dell'uomo (di ogni uomo) non capire sempre e comunque tutto quanto ci circonda? E se proprio dall'accettazione dei limiti del nostro ragionare sul mistero potesse derivare la serenità, la pace, la calma necessari a vivere, nonostante il Male, a sopravvivere al Male, nonostante gli efferati omicidi di cui la televisione ci riempie le giornate, all'ora di pranzo e a quella di cena?
Non il migliore dei suoi romanzi, a mio parere (essendo ancora il migliore La forza del passato, del 2000), XY conferma comunque la bravura (direi molto artigianale) di Sandro Veronesi in qualità di narratore. Un narratore che sa mantenere alta la suspense del lettore; che sa scavare dentro la psicologia dei personaggi, rendendoli molto vicini al lettore; e che si pone dubbi, spingedo il lettore a riflettere sui confini tra scienza e fede, tra ciò che è razionale e ciò che è parte inscindibile del mistero (e, implicitamente, su etica e scrittura). Con una consolazione che viene dai manuali di psichiatria:
L'indeterminatezza non può essere solo motivo di frustrazione: se così fosse sarebbe un bel guaio, dato che la maggior parte delle cose che ci governano sono indeterminate” (id., p. 316).

P.S.: un piccolo dubbio riguardo l'inclusione del racconto di Arrigo Boito, “L'alfiere nero”? Che c'azzecca con il romanzo? O meglio: perché accluderlo in qualità di “Extra”? Che poi uno le spiegazioni le trova; ma a me pare comunque alquanto scollegato al resto... E tra l'altro: ma quanto è bravo Boito? Quant'è affascinante, pregnante e incisivo questo suo racconto? (E tralascio la campagna “virale” su internet tramite Facebook e YouTube...come se i libri avessero davvero bisogno della pubblicità sulla rete, quando invece, basta (ed è sempre bastato) il famoso “passaparola” per decretare il successo anche presso il pubblico lettore meno “specialista” dei libri che meritano davvero la nostra attenzione...).

viernes, noviembre 05, 2010


Biblioteca Nazionale di Firenze


E' tutto molto bello quello che dice Mauro Guerrini in questo articolo:
Però basta andare a fare un giro nei pressi delle stanze della Biblioteca Nazionale di Firenze per vedere che, in realtà, le cose non stanno sempre così. 
Mi danno in consultazione un libro spaginato; la responsabile del servizio di prestito e consultazione m'invita a leggerlo nella "Sala Informazioni" perché il libro potrebbe spaginarsi ancora di più e bisogna stare attenti. Eseguo gli ordini e, attento a non far cadere nemmeno una pagina, entro nella "Sala Informazioni": tre o quattro dipendenti (addetti a non so cosa...alle informazioni? Sarà...) chiacchierano allegramente del più e del meno (qualcuno paventa lo sciopero, qualcun'altro si lamenta perché sono "sotto con l'organico").
Torno di là e restituisco il libro (è difficile studiare mentre tre o quattro persone adulte chiacchierano come se io non ci fossi o fossi solo un fastidioso fantasma con un libro in mano) e chiedo alla signorina del banco se posso lasciare tranquillo il pc sul posto senza rischio che me lo rubino, nel caso dovessi andare in bagno o a alla macchinetta automatica del caffè. La signorina sorridente mi fa: "Non glielo posso garantire, noi siamo addetti anche al controllo in sala lettura, ma siamo pochi, siamo sotto con l'organico e non possiamo andare in giro a controllare tutti i pc degli altri". Sicché, se devo andare al bagno, o, più semplicemente, se voglio andare a prendere un caffè prima di accasciarmi sui libri, o me la rischio (e lascio il pc alla portata del primo ladro senza scrupoli) o me la tengo (facendo ingrossare la vescica fino alla restituzione dei libri e all'uscita dalla sala lettura).
Ormai sono fatti di cronaca da diversi anni: la Biblioteca Nazionale di Firenze (come pure le altre di Roma e Napoli, come tutti gli istituti pubblici che si preoccupano di diffondere un minimo di cultura) è sotto organico e senza più i fondi di una volta; rischia di crollare a pezzi o di venire meno al suo ruolo storico (basta, ripeto, aprire una qualsiasi pagina de La Repubblica in edizione fiorentina); un piccolo progresso, però, c'è e l'ho notato subito: se si inseriscono i dati della tessera personale, si può navigare in internet col wireless gratuitamente. E' lento, ma magari è colpa del mio computer. E comunque: era ora!

martes, noviembre 02, 2010

La noche de los tiempos di Antonio Muñoz Molina (Seix Barral, 2009): un romanzo sull'amore ai tempi della Guerra Civile (con qualche pecca e qualche lungaggine di troppo)


Ennesimo romanzo spagnolo sulla Guerra Civile (una ferita che ha determinato la storia recente di tutto un paese e su cui ancora ci si interroga, cercando di individuare le vere vittime e i veri carnefici – cfr. la cosiddetta “ley de la memoria histórica”, approvata dall'attuale governo di Zapatero), La noche de los tiempos di Antonio Muñoz Molina ruota intorno a una trama piuttosto banale nel suo essere fin troppo “romanzesca” (e già vista – sia al cinema che in letteratura): Ignacio Abel, architetto di fama dalle umili origini, s'innamora di una giovane studentessa americana, Judith Biely, arrivata a Madrid nel 1935, quando ancora nessuno sa o sospetta cosa accadrà di lì a poco. Ecco: io credo che sia proprio questa trama a determinare le lungaggini e le pecche più evidenti di un romanzo che, quando ci narra i primi attimi, le prime giornate dello scoppio del conflitto, ha il grande merito di farci rivivere il passato (storico) attraverso l'immaginazione (romanzesca) dell'autore. Gli intoppi peggiori nascono proprio dalla prevedibilità di una simile storia d'amore; dalla sua ripetibilità; dal suo essere già stata letta o vista dal lettore/spettatore; dal suo essere narrata come scusa per poter “spiare” o “guardare da vicino” gli spagnoli che si apprestano a massacrarsi in nome di una Guerra Civile che, come è stato giustamente osservato dagli storici di professione, fu soprattutto una follia collettiva, oltre che una prova, una sorta d'allenamento, un'esame propedeutico alla Seconda Guerra Mondiale (con la complicità o la connivenza di tutti, dalla Francia all'Italia, dalla Germania all'allora Unione Sovietica). “Io autore ti racconto una storia d'amore contrastata e drammatica (oltre che scontatissima) per farti camminare insieme a me per le strade insanguinate della Madrid dell'estate del 1936”... Se non ho nulla da ridere riguardo alla seconda parte del progetto, sono assolutamente in disaccordo per quanto concerne la prima parte (premetto un'ovvietà: non sono nessuno per giudicare Muñoz Molina; anzi, non sono nessuno per giudicare nessuno, però...c'è un “però”: ho letto un numero abbastanza elevato di romanzi da saper riconoscere una trama avvicente e originale da una lenta e vuota o trita e ritrita). E allora, concentriamoci sulla seconda parte dell'eventuale intentio auctoris: è in questi frammenti (in questi brani descrittivi molto realistici e anche crudi) che Muñoz Molina riesce a fare centro. A raggiungere lo scopo. A centrare l'obiettivo. L'autore (che interviene direttamente e in prima persona all'interno della trama – qualcosa di abbastanza insolito, nei romanzi contemporanei, perché se la narrazione è in terza persona, allora, l'autore tende a nascondersi dietro la maschera del narratore esterno, mentre, se la stessa è in prima persona, allora, l'autore tende a coincidere con lo stesso narratore e questi con il protagonista, per cui autore-narratore-protagonista coincidono – un po' come succede nel primo romanzo veramente moderno, ossia: la finta autobiografia intitolata Lazarillo de Tormes e un po' come accade – ma in modo del tutto innovativo, e anche un po' ambiguo – in Au recherche du temps perdu di Proust), l'autore, dicevo, interviene per accompagnarci “in diretta” e mostrarci “in loco” gli scenari del conflitto (di qui l'uso ripetuto – e mai ripetivivo – del verbo “vedere” e dell'anafora “veo” - “vedo”, come se l'autore fosse uno sciamano in grado, appunto, di vedere come si svolsero realmente i fatti). E le cose che vede, non ci sono dubbi, sono atroci, scioccanti, ci scuotono dal torpore in cui viviamo e in cui ci troviamo in questo momento; in un'era agitata, ok, ma non in guerra, come la Spagna del triennio 1936-39; non l'Italia del 2010.
Se intenzione moraleggiante c'è, nel romanzo, va ricercata proprio in questa narrazione realistica e in presa diretta delle crudeltà e delle violenze commesse da entrambi gli schieramenti in lotta tra loro (comunisti, anarchici, socialisti dalla parte del cosiddetto “Frente Popular” - coloro che vogliono difendere la Repubblica – e fascisti, falangisti, monarchici, rappresentanti della Chiesa cattolica e dell'Esercito dall'altra – quella capeggiata da Francisco Franco).
Non si tratta, ovviamente, come potrebbe pensare qualche lettore superificiale o troppo “simplista”, di “equiparare” gli orrori (e gli errori); non si tratta di promuovere pericolosi revisionismi storici (come, d'altro canto, qualcuno ha fatto o tentato di fare anche da noi, mandando in libreria titoli “de cuyo nombre no quiero acordarme”); ma di “evidenziare”, appunto, come la follia colpì sia gli spagnoli della sinistra che quelli della destra (una volta che la destra ha tentato, con un golpe di stato, di rovesciare i risultati delle elezioni democratiche del 1931 e di abbattere la Repubblica spagnola guidata da Manuel Azaña e difesa dai partiti della sinistra).
E' in queste scene crude e crudeli che l'autore riesce a trasmetterci tutta l'irrazionalità e l'instabilità croniche che la guerra crea immediatamente in chi si ritrova a viverla in prima persona: quando scoppia una guerra, non sai più se riuscirai a tornare a casa; non sai più chi sei, e non potrai mai prevedere quando diventerai, anche tu, carne morta (come quella dei tuoi simili sparsi per terra per le strade del centro).
Quando si è in guerra, anche le parole scritte nel passaporto e la foto che dovrebbe “identificarci” diventano pure chimere che chiunque può bruciarle o spazzare via con un colpo di fucile (e quanti fucili fatti male, o antiquati e obsoleti, o maneggiati con scarsa abilità, da parte dei giovani del Frente Popular; quanta disorganizzazione, dalla parte dell'esercito dei “milicianos”).
In tal senso, La noche de los tiempos è un libro esemplare e che può servire da guida “narrativa” anche per il pubblico dei lettori più giovani; ci sono interi capitoli, in cui Ignacio Abel vaga alla ricerca di Judith per la Madrid sconquassata dalle mitragliatrici dei fascisti italiani e dalle bombe degli aerei tedeschi, che si presentano come vere e proprie “passeggiate narrative” (per dirla con Eco) nel corso delle quali siamo tutti invitati a partecipare attivamente e a vedere coi nostri occhi (per prendere coscienza di quello che successe in quel frangente in quegli angoli, in quelle vie, in quelle determinate strade del centro della città).
Ma per il resto, ripeto: il libro è banale, scontato, troppo lungo (958 pagine) tanto che uno pensa a quanto avrebbe guadagnato in pregnanza se l'autore avesse puntato di meno sulla storia d'amore e di più sugli effetti e le cause e le circostanze di quella guerra, che sembra così lontana nel tempo, e che, invece, è (sempre) così vicina...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...