martes, diciembre 27, 2011


Come ogni anno




Come ogni anno, anche quest’anno siamo giunti alla fine di Dicembre e, come di consueto, è tempo di bilanci. Si stilano elenchi, si fanno le liste: dei libri più letti, dei film più visti, dei cd più ascoltati o più scaricati da internet. Si fanno bilanci, insomma. E io non ho più voglia di farne. Nemmeno di fare il bilancio della mia vita oggi. Non sono più adolescente; non sono più quel ragazzo che conservava tutti i ritagli di giornale, tutte le recensioni dei film che più lo interessavano; non faccio più l’elenco dei libri non ancora letti (o dei film non ancora visti); non colleziono più poster o manifesti dei film preferiti, come ero solito fare intorno agli anni 90.

E così, come ogni anno, di questi tempi, stacco il telefono fisso, spengo il cellulare e smetto di frequentare amici e parenti; una volta finita la vigilia di Natale e portati a termine i rituali previsti per i mega-pranzi e le mega-cene comandate da calendario, mi rintano in casa, non vedo nessuno, e mi limito a guardare il mondo da una finestra (quella della mia cameretta, della stanza che mi ha visto crescere, nel tempo, fino a oggi, che ho 35 anni, ormai…). E mi limito a guardare filmacci horror splatter come Hostel: Part II (2007) di quel sadico col gusto del “gore” di Eli Roth o The Exorcism of Emily Rose (2005) del collega – altrettanto visionario e amante delle scene sanguinolente – Scott Derrickson… A volte approfitto delle feste natalizie per riguardare quei film che, quando li vidi la prima volta, mi lasciarono a bocca aperta o mi coinvolsero in modo anomalo, o stimolarono la mia attenzione, roba tipo Cléo de 5 à 7 (1961) di Angès Varda, con la deliziosa Corinne Marchand, o lo “spielberghiano” The Goonies (1985) di Richard Donner, o il sottilmente inquietante, oltreché elegante, Festen (1998) di Thomas Vinterberg…

Mi piace starmene da solo in casa, in questo periodo di spese folli e di parenti serpenti che si ritrovano allo stesso tavolo dopo mesi d’indifferenza o di semplice distacco educato. E ascoltare musica, che mi rilassa e mi tiene compagnia, mentre guardo gente impazzita correre a destra e a sinistra dalla finestra della mia cameretta… Da Nina Simone a Luigi Boccherini, con la sua arcinota e notevole Musica notturna per le strade di Madrid, dai Radiohead (“Karma Police” e “No surprises” in cima alla lista) agli Skunk Anansie (con la voce acuta e potente di Skin), da Mozart (i brani più allegretti dal Don Giovanni di Monsignor Da Ponte) agli Articolo 31, da Cole Porter (riscoperto grazie all’ultimo film di Woody Allen) a Lou Reed, quando cantava con i Velvet Underground, da Billy Idol a Elvis Presley, da Nora Jones (“Not too late” mi fa piangere) ai classici di De André, etc. etc.

E ogni tanto passeggio tra i boschi dei monti dei paesini abruzzesi che mi circondano, ripensando a quante cose sono capitate anche quest’anno, incontri fortuiti, che solo in seguito crediamo scritti dal destino, e amori incipienti mai nati o diventati solo storie d’una notte di passione consumate su divani dell’Ikea (“per favore, usiamo il preservativo, non ho voglia di avere figli ora”), volti di amiche note (tra cui alcune delle 3 o 4 lettrici fisse di questo blog) e di amici ritrovati dopo anni (“Ma dai! Ti sei addottorato e non mi hai detto niente? Eri a Praga, non ci siamo sentiti, sei sparito tu, non io”), di morti ammazzati e di suicidi collettivi, di strepitosi crolli in borsa e di nuovi pianeti scoperti ai confini dello spazio noto, di libri freschi di stampa (pensavo che mi avrebbe fatto molto più effetto vedere il mio nome stampigliato sul frontespizio di un libro) a traduzioni appena finite (e romanzi gelosamente custoditi nel cassetto – prima o poi lo troverò il coraggio di fartelo leggere, abbi pazienza, amore mio…), e catene di Sant’Antonio che ti fanno solo bestemmiare, sigarette fumate davanti a perfetti sconosciuti e dialoghi surreali in mezzo al vorticare del traffico di Napoli, pizze alla margherita da 30 e lode e bacio accademico, e lezioni preparate con precisione svizzera, cronometri di precisione e appuntamenti (per sempre) mancati…

Avevo iniziato questo post dicendo che odio fare elenchi, bilanci e liste e invece… l’intero post non è altro che questo: un elenco (un bilancio?) o una lista di cose, persone, titoli, fatti e oggetti che prima o poi ci aiuteranno (forse) a capire il senso (della vita?). Buon Natale a tutti… e felice anno nuovo…

jueves, diciembre 22, 2011


Midnight in Paris: le età dell’oro (e i sogni ad occhi aperti)




Un uomo e una donna camminano lungo la balaustra secolare di un ponte di Parigi, di notte, mentre piove. “Parigi è più bella quando piove”, dice la ragazza, che non ha paura di bagnarsi e che s’accorda, senza saperlo, allo stato d’animo e ai gusti del suo interlocutore (in sottofondo parte la musica di Cole Porter, la canzone che s’intitola “Let’s do it” e che, in parte, traduce in musica il senso del film, Midnight in Paris, l’ultimo di Woody Allen).

Il Nostro sembra Federico Fellini quando gioca con la “macchina-cinema” per dare libero sfogo all’immaginazione e farci attraversare (come Alice nel Paese delle Meraviglie) le soglie di mondi apparentemente distanti o contrapposti fra di loro: era già successo, in parte, nel geniale (a tratti onirico o fantascientifico) Zelig, del 1983, con il personaggio del povero ebreo che cambia personalità e tratti somatici a seconda di chi si trova davanti e, poco dopo, nel 1985, con La rosa purpurea del Cairo, quando Mia Farrow s’innamora dell’attore dei suoi sogni e finisce per indurlo ad “oltrepassare” lo schermo cinematografico per vivere una storia d’amore passionale proprio perché si sa già impossibile e destinata a fallire. Accade lo stesso in Midnight in Paris, in cui si raccontano le vicende di uno sceneggiatore frustrato che si guadagna da vivere scrivendo trame per film-spazzatura hollywoodiani e che, nel tempo libero, lavora al libro della sua vita, quello in cui tentare di esprimere tutte le sue doti letterarie. E’ in procinto del matrimonio con la sua fidanzata bella e superficiale, figlia di gente ricca, che Gil (questo il nome del protagonista) si ubriaca, perdendosi per le strade della sua amatissima Parigi e, a mezzanotte in punto - e a differenza di Cenerentola -, vive l’incantesimo di finire nella capitale degli anni 20. E’ qui che, dopo lo shock iniziale, entrerà in contatto con i suoi miti personali: da un rude e burbero Ernest Hemingway a un simpatico e gioviale Scott Fitzgerald (alle prese con le follie e la gelosia di Zelda); dall’intelligente e disponibile Gertrude Stein (che si presta addirittura a leggere e a dare consigli letterari all’incredulo scrittore in erba) al folle e mitomane Salvador Dalí; da Luis Buñuel (cui Gil suggerirà la trama del “futuro” L’angelo sterminatore) a Pablo Picasso. Un mondo meraviglioso, pieno di gente interessante, molto più affascinante e appassionante dei nostri primi anni 10 del XXI secolo…

In realtà, non è tutto oro quello che luccica: dopo aver conosciuto la bellissima amante di Picasso, Gil capisce che tutti sogniamo di vivere in una Parigi che non esiste più perché ormai appartenente al passato; il relativismo temporale (e il sogno di vivere in un passato visto come “età dell’oro”) colpisce tutti, anche chi, come l’avvenente fanciulla, sogna di vivere nella Parigi della Belle Epoque, quella dei Gauguin e dei Toulouse-Lautrec… (e così loro: molto meglio il Rinascimento! Quando a dipingere c’erano mostri sacri come Michelangelo o Raffaello)…

Ognuno ha il presente che si merita; e sognare non costa nulla, anzi, a volte ci aiuta a capire meglio quello che abbiamo davanti (o sotto) ai nostri occhi. Lo impara anche Gil, che tornato al “suo” (e al “nostro”) presente decide di lasciare la futura moglie e di restare a Parigi per scrivere e dedicarsi a ciò che più lo appassiona; forse lo impareremo anche noi spettatori – anche se per un’oretta e mezza abbiamo avuto il lusso di assistere alle chiacchiere e ai discorsi di gente molto più interessante di quella con cui abbiamo a che fare quotidianamente: Picasso, Hemingway, T. S. Eliot, Scott Fitzgerald, che mondo meraviglioso quello del passato… e quant’è piccolo e insulso e prosaico e privo di magia, quello del presente…

P.S.: alla fine, quando il film è finito e i titoli di coda hanno cominciato a scorrere, ho pensato a come potrebbe essere il futuro senza più Woody Allen che, anno dopo anno, sforna film come fossero biscotti al burro. E mi sono subito consolato, al pensiero che, anche quando non ci sarà più lui, fisicamente presente e in carne ed ossa, ci resteranno sempre i suoi film, a ricordarci chi era, e quant’era bravo a farci ridere, sorridere, e sognare ad occhi aperti per un’oretta e mezza o poco più con le sue storie e i suoi personaggi sognanti, perennemente insoddisfatti e alla perenne ricerca della felicità o di qualcosa che non esiste o che è, semplicemente, irraggiungibile.

lunes, diciembre 12, 2011


1Q84 di Haruki Murakami: quando l’inverosimile fa perdere mordente



Dopo l’entusiasmo che mi hanno trasmesso i suoi racconti (cfr. post dedicato alla raccolta Tutti i figli di Dio danzano), mi sono accinto a leggere l’ultimo romanzo di Haruki Murakami: 1Q84 è un’opera-mondo (per dirla con Franco Moretti) ambientato nella Tokyo del 1984 e, al contempo, in una sorta di universo parallelo in cui il cielo ospita due lune, simili, eppure diverse, l’una dall’altra (una è più piccola e di colore verde, rispetto a quella grigia – o giallastra – che conosciamo tutti). Non si tratta di un romanzo distopico alla 1984 (e i riferimenti a George Orwell e al personaggio del Grande Fratello ci sono, anche se non sono quelli più decisivi); né di un romanzo fantascientifico (sebbene si citino il film Un viaggio allucinante e universi in cui, appunto, è possibile scorgere due lune in cielo) né di un’opera fantastica (sebbene Alice nel paese delle meraviglie, con lo specchio che fa scivolare in un’altra dimensione, e il cappellaio matto, insieme allo Stregatto, facciano anche loro una piccola, breve comparsa); si tratta, piuttosto, di un’opera eterodossa, ibrida, in cui si mescolano tutti questi elementi per trasportare il lettore in un mondo romanzesco in cui si smarriscono le coordinate spazio-temporali e i personaggi vivono esperienze al limite (della verosimiglianza, della moralità, della fede religiosa).

Non riassumerò la trama di un libro che, nella traduzione italiana per Einaudi, arriva a un totale di 718 pp. (e siamo solo al primo dei due volumi previsti! Nell’ed. giapponese, e a quanto leggo da due recensioni del New York Times, il testo è suddiviso in 3 volumoni per un totale di… chissà quante pagine – nessuno lo dice, ma quante sono?); sottolineo, invece, come proprio il mancato rispetto del principio di verosimiglianza, in alcuni brani, tolga credibilità al narratore (esterno, in terza persona, come nei buoni romanzi ottocenteschi, o come in un romanzo di Dickens – pure lui viene citato al volo, all’interno della trama); è proprio la mancanza di verosimiglianza di certe scene o brani a togliere a volte al lettore il piacere di farsi cullare da questo stesso narratore abilissimo a seguire (come se si trattasse di due diversi spartiti musicali) i destini dei due protagonisti.

Aomame (in giapponese il nome significa “pisello verde”) è una giovane fredda e determinata che, di giorno, fa l’insegnante di aerobica e stretching per clienti ricchi e facoltosi e, di notte, si trasforma in una spietata serial-killer che “manda all’altro mondo” uomini che odiano le donne, stupratori di bambine e odiosi mariti che si macchiano di sadismo nei confronti delle povere mogli.
Tengo, invece, è un trentenne calmo e tranquillo che conduce una vita regolare e fa il docente di matematica in una scuola privata che prepara ad entrare all’Università. Ogni Venerdì ospita nel suo umile appartamento una donna sposata di dieci anni più vecchia di lui. E nel tempo libero, Tengo coltiva la passione per la scrittura, anche se finora ha scritto solo racconti e non ha pubblicato mai nulla con il proprio nome.

1Q84 si sviluppa attraverso le trame dei due protagonisti per cui, ai capitoli dedicati ad Aomame si alternano quelli dedicati a Tengo. Fino a quando, in modo rocambolesco e con spiegazioni che lasciano alquanto di stucco, i destini dei due non si incroceranno (cosa che accade, per poco, nei capitoli finali di questo primo volume e che, spero, verrà narrato distesamente nell’altro tomo ancora non pubblicato in italiano).

Perno attorno a cui ruotano sia Aomame che Tengo è la diciassettenne Fukada Eriko, autrice di un romanzo che s’intitola La crisalide d’aria e che, invece che una narrazione fittizia, sembra essere scritto come una “cronaca” di eventi realmente accaduti. Fukada Eriko, cresciuta all’interno di una sorta di setta religiosa con regole tutte sue, ha lasciato morire una capretta che le era stata lasciata in custodia; punita e lasciata sola all’interno di una stanza isolata e buia, di notte, la ragazza vede fuoriuscire dalla bocca dell’animale i cosiddetti Little People, degli esseri dalle sembianze umane, ma in miniatura, che, a quanto pare, si divertono a sbilanciare l’equilibrio tra bene e male all’interno del mondo parallelo di 1Q84… (non disdegnando nemmeno di cantare in coro un motivetto musicale che fa “ho ho”)…

Ecco: ci siamo; è qui, è proprio qui che trovo l’inghippo o l’intoppo. Il narratore è troppo, davvero troppo inventivo (e, ahinoi, anche troppo inverosimile) nel creare quest’altra Terra su cui agiscono e si muovono nell’oscurità questi cosiddetti Little People. La verosimiglianza è fondamentale, anche all’interno di un universo di finzione di stampo distopico (anche se, ripeto, qui Orwell c’entra poco; ci sono solo velati accenni alla contrapposizione tra comunismo e capitalismo, ma in quanto a una presa di posizione netta, dal punto di vista ideologico, il narratore resta sul vago).

Il problema aumenta, se pensiamo a come potrà finire la storia (d’amore) tra Tengo e Aomame (chiamati, forse per il tramite di Fukaeri – questo il nome d’arte della diciassettenne – a risolvere i problemi del mondo nell’eterna lotta tra bene e male).

Murakami è un maestro nell’arte di raccontare le vite minime, banali, piatte dei suoi anti-eroi e lo fa con uno stile peculiare che affascina e strega, ma sbaglia quando, seguendo la sua immaginazione, si lascia andare a soluzioni narrative che sfiorano il fumetto manga o il film di serie Z. Eppure… ho letto questo tomo in poco meno di due settimane, e ogni volta che smettevo di leggere, perché dovevo studiare o lavorare o uscire di casa, non vedevo l’ora di tornare ad aprire il libro per seguire le vicende di Aomame e Tengo… e chissà, a questo punto, come finirà la loro storia d’amore e che fine faranno quei brutti mostriciattoli detti Little People…

domingo, diciembre 04, 2011

Tra operetta e film noir

Esterno notte: una città di provincia, nel Sud Italia, completamente immersa nella nebbia. E' l'alba e mi sveglio con una strana sensazione di angoscia, come se un peso mi opprimesse il petto e facessi fatica a respirare. Sono le sei del mattino; fisso il soffitto vicino, a pochi centimetri dal mio volto (la mansarda si abbassa lungo la pendente del tetto e il letto è posizionato nel punto più basso): osservo delle macchie di cui non mi ero mai reso conto prima d'ora, macchie che sono come ombre sul soffitto, ombre che mimano forme strambe, come un topo, un serpente, forse un gufo dalle ali spiegate... Mi alzo e preparo tutto l'occorrente per fare una lauta colazione (tazza di latte e caffè, uno yogurt, delle fette biscottate imburrate, la marmellata, il cucchiaino e il cucchiaio più grande, lo zucchero e i corn-flakes, i biscotti al cioccolato e una banana). Accendo la tv e un giornalista dai capelli bianchi molto ricci ripassa le notizie principali a partire dalle prime pagine dei giornali. Fa freddo. Mangio in fretta. Mi rinchiudo nel bagno e mi lavo rapidamente la faccia e le ascelle. Preparo i libri e gli appunti per la lezione. Afferro le chiavi e indosso al volo il cappotto imbottito. Scendo le scale e mi preparo a vivere la mia giornata di lavoro quotidiano.

Esterno giorno: la nebbia è ancora folta; la prima persona che incontro, camminando a passi rapidi sul marciapiede, è un vecchietto stranissimo che indossa la tipica coppola e sostiene, nella mano sinistra, un bastone di legno tutto piegato e, nella destra, una motosega, luccicante, con i denti bene in vista, senza la copertura o la guaina di plastica d'ordinanza. Il vecchio cammina aiutandosi col bastone e mi domando come faccia a sostenere con tanta facilità una motosega all'apparenza pesante, lui che sembra magro come un chiodo...

Arrivo al piazzale da dove partono i pulllman. L'autista che guida quello che mi porterà all'Università indossa gli occhiali da sole. Accende il motore, accelera lasciando la marcia in folle, come per verificare che sia tutto in ordine, e poi parte, allegro, sorridente. Fortunatamente, solleva gli occhiali da sole sulla fronte; mi vedevo già in mezzo alle lamiere del pullman fumante e accartocciato contro qualche altra auto o contro il guard-rail della superstrada. Altri studenti intorno a me chiacchierano allegramente della giornata che li attende, tra lezioni, pranzi a mensa, riunioni con gli amici e organizzazione di feste in discoteca per la serata che verrà.

Interno giorno: ufficio. Sulla mia scrivania un caos di libri e appunti sparsi, fotocopie a colori e foto di vecchi poeti morti ormai tre o quattro secoli fa. Entra la donna delle pulizie, senza bussare: "Mi scusi, professore, non sapevo che fosse dentro". Le spiego che mi ha spaventato e che la prossima volta, prima di entrare, è pregata di bussare. La donna si scusa di nuovo e comincia a passare l'aspirapolvere. Il punto è che quello non è l'orario delle pulizie.

Ormai sono a lezione, nelll'aula 21, una delle più grandi e capienti dell'Università. Parlo di Shakespeare, sto spiegando la funzione del "meta-teatro" all'interno di The Tempest (Prospero, Miranda, Calibano... li cito come fossero persone reali, come se anche loro fossero presenti, presenze vere e in carne ed ossa, in aula, lì, insieme a noi, davanti a noi). Finché, nella parte finale, preso dall'entusiasmo e nel corso della spiegazione, tocco con il dorso della mano sinistra la bottiglietta d'acqua che uso sempre quando sono a corto di saliva... L'acqua si rovescia sulla cattedra; una parte dell'aula ride; altri studenti hanno il viso preoccupato; chiedo aiuto a qualcuno che possa darmi dei fazzoletti di carta: una ragazza in prima fila mi cede il suo pacchetto intero e, mentre continuo a parlare a voce alta e forte dal microfono, cerco di rimediare e di prosciugare il laghetto artificiale che si è creato, mio malgrado, mentre continuo a parlare di "meta-teatro".

Sono a pranzo e una collega che non conosco inizia a parlarmi di sé e dei suoi guai personali. Vorrei spiegarle che la nostra confidenza non è tale da permettere di simili confidenze (lei tradisce il marito, per ripicca e vendetta, perché ha scoperto che lui la tradisce da anni con un'altra), ma non c'è verso di intendersi, di capirsi, di comunicare alcunché, questa donna è pazza, e non smette, e parla e parla, aggiungendo dettagli intimi e sgradevoli che non ho nessuna intenzione di ascoltare, faccio finta di prestare attenzione, la guardo dritta negli occhi, ma in realtà, rivolgo il mio udito verso il dialogo che due professori anziani stanno avendo a pochi passi da noi, mentre sorbiscono una zuppa o minestrone vegetale.

Sono di nuovo sul pullman, lungo la via del ritorno: una studentessa mi sorride e mi mostra una cifra scritta a penna sul dorso della sua mano sinistra. E' un numero di telefono? E' per caso il suo numero di telefono? Le sorrido anch'io, per non essere scortese. E lei cambia all'improvviso espressione, diventa acida, arcigna, mi guarda come fossi un maniaco sessuale, come a dire: "Cosa cazzo hai da guardare?".

Esterno notte: è ora di cena. Le strade sono deserte. La nebbia, però, è scomparsa. Il vecchietto con il bastone e la motosega, pure. Salgo le scale a due a due e mi rintano in casa. Non c'è più il frigorifero. Non riesco a credere ai miei occhi, ma il frigorifero che era in cucina è scomparso. Mi siedo sul divano, l'unico divano che ho, e mi guardo attorno, osservo la scrivania piena di libri e fotocopie, la libreria sul punto di crollare per il carico eccessivo di libri, il tavolino su cui mangio, e all'improvviso sento un rumore, il rumorino tipico del motore interno del frigorifero: viene dal bagno. Il frigo è finito in bagno; qualcuno ce l'ha portato e ha attaccato la spina al posto della lavatrice. La lavatrice c'è, anche se è lì dove non dovrebbe essere, e cioè, a pochi centimetri dalla vasca da bagno, staccata.

E' notte fonda, ormai. Le quattro del mattino. Non ho chiuso occhio e prevedo di starmene a occhi aperti fino a che non sorga il sole. Squilla il cellulare. E' mia madre. Mi chiede quand'è che mi decido ad andarla a trovare. Ci sono stato ieri (Domenica), come sempre. Ma lei non ricorda, mi chiede se mi sento bene. Le dico di sì. Come fa a non ricordarsene? Ci siamo visti ieri, a casa sua. Mia madre mi chiede se ho bevuto. Io le chiedo cosa ci fa alzata a quell'ora del mattino, Mia madre non risponde. E riattacca, dopo avermi augurato buon lavoro.

Verso mezzogiorno, vado a buttarmi sul letto, per disperazione, più che per stanchezza o sonno. Sul soffitto non ci sono più macchie o ombre strane. Solo bianco, un bianco luminoso, come se avessero riverniciato da poco le pareti della mansarda. Come se qualcuno fosse entrato mentre ero via e avesse dato una riverniciata alla casa...

sábado, noviembre 26, 2011

Dialoghi assurdi




 N.1

“Ma tu fumi?”
“Sì”.
“Vuoi una sigaretta?”
“No, grazie, ce le ho. E tu fumi?”.
“Sì”.
“Ne vuoi una?”.
“No”.

N.2

“Ma per caso tuo padre fa il dentista?”.
“No, perché?”.
“Hai denti così bianchi… Sono bellissimi”.

N.3

“Sai, in quanto a cinema c’azzecco sempre, riesco sempre a dare degli ottimi consigli…”.
“Sì, infatti, se io mi sono appassionata a Bergman lo devo a te”.
“Infatti… pensa che le mie ex ancora oggi si ricordano dei film che ho consigliato loro quando stavamo insieme, mi hanno confessato che mai avrebbero scoperto quel film o quel regista senza di me… Peccato poi che sposano gli altri e non me”.

N.4

“Stamattina, quando mi sono svegliata, ho guardato il soffitto per una decina di minuti, non capivo più dove mi trovavo e non avevo voglia di fare niente”.
“Io, invece, avevo voglia di farmi un caffè, ho riempito la macchinetta, ho messo la macchinetta sul gas e poi… la macchinetta è esplosa. Per fortuna che ero in bagno, sennò morivo. Le tracce di caffè sono arrivate fino al soffitto. Poteva essere una strage”.

N.5

“Sei una persona, come dire? Gradevole”.
“Accipicchia! E’ la prima volta che una ragazza mi definisce ‘gradevole’. Lo devo prendere come un complimento?”.
“Certo”.

N.6

“Prof., la prego, mi faccia un’altra domanda, la domanda di riserva”.
“Signorina, lei guarda troppa televisione, non siamo a ‘Chi vuol esser milionario’, o come si chiama, siamo all’Università… Cosa vuole: comprare una vocale? Girare la ruota? Dare la risposta? L’accendiamo?”.

N.7

“Cosa mi assicura del fatto che non ti stai prendendo gioco di me? Cosa mi dice che non mi tratti come un fenomeno da baraccone o come un cane?”.
“Tendenzialmente, considero le persone con cui parlo e cui do una certa confidenza come esseri umani, tali e quali a me, con le loro paure, le loro ansie, le loro idiosincrasie, i loro desideri confessabili e inconfessabili, le loro paranoie”.
“Ho capito”.
“Cosa?”.
“Niente”.

N.8

“Ciao maialone? Stai trombando?”
“Veramente no…anzi, sto studiando, un saggio filosofico, una palla infinita”.
“Ahahah!!! Scherzavo, lo so che non stai trombando. Ti piacerebbe, eh?”.
“Intendi: con te?”.
“Eh, sì, con chi sennò?”.
“Tu sei pazza”.
“E tu un porcello”.

N.9

“Mio Dio! Non ci posso credere, Marta, che cavolo ci fai qua?”.
“Mi hanno chiamata a testimoniare a un processo, devo presentarmi davanti al giudice entro l’una, ce la facciamo a prenderci un caffè al bar?”.
“Ma certo, io per te farei i salti mortali, lo sai, vengo giù in un secondo, aspettami all’ingresso del bar di Ingegneria!”
“Ma io sono già al bar!”.
“E tu aspettami lo stesso”.

N.10

“Mio Dio, quanto sei bella, ma come fai a essere così bella? Mangi saponette?”.
“Ahahah!!!! Tu sei tutto suonato! Ma davvero, sai?!”.

N.11

“Come dice Nanni Moretti: io credo nelle persone, solo che non credo nella maggioranza delle persone”.
“Ma hai la stessa voce di Nanni Moretti!!! Nooo!!! Io muoio! Mi fai troppo ridere!”.
“Ma guarda che lo stavo solo imitando… E’ che l’imitazione di Nanni mi viene particolarmente bene… Senti questa: ‘Cacare, non cagare, fica, non figa, Giulia, Marco, non la Giulia, il Marco, siamo a Roma, non a Milano’”.
“Sei identico! Sputato! Cazzo, sei uguale!”.

N.12

“Morire, partire…”
“Arrivare in ritardo…”.
“Perdere la valigia all’aeroporto…”
“E sperare che ti diano un buono per comprarti le mutande…”.
“E per fare una lieta colazione…”.
“Forse volevi dire lauta…”
“Lauta e lieta colazione…sì, dai”.

N.13

“L’altro giorno, nel bagno dei maschi, ho letto una frase fantastica, nel suo piccolo: ‘Ti amerò per sempre, se me la dai’. Forte, no?”.
“Rispecchia perfettamente i tempi moderni e la mentalità di certi maschi che nemmeno nella Preistoria…”.
“Io la trovo romantica, nel suo piccolo”.
“Tu hai un senso del romanticismo alquanto distorto, non ti sembra?”.
“No. Sono romantico…”
“…nel tuo piccolo”.

sábado, noviembre 19, 2011

Effetto Murakami



Non so cosa sia di preciso, non saprei definirlo in modo razionale e logico, chiaro e diretto, però, a mio modesto parere, esiste un effetto peculiare che si percepisce subito quando si legge Murakami, come una specie di aura che aleggia sui personaggi, le trame e lo stile, un’atmosfera che solo Murakami sa creare e ricreare a suo piacimento per il suo e il nostro godimento di lettori (è come l’ “effetto Lynch” al cinema: bastano un paio d’inquadrature per capire che quello che stai guardando è un film di David Lynch).

Di Haruki Murakami mi parlò la prima volta Jesús Bregante, lettore inquieto e irrequieto, esempio sommo di docente che ha la passione per la Letteratura e sa trasmetterla ai suoi studenti senza infingimenti. In Spagna, già nei primi anni del 2000, lo scrittore giapponese era un idolo; di lui mi consigliarono due titoli, su tutti: Tokyo Blues e Dance dance dance.

In questi giorni di letture disordinate e onnivore, m’è capitato tra le mani la raccolta di racconti Tutti i figli di Dio danzano, un titolo apparso in Giappone proprio nel 2000 e arrivato in Italia nel 2005 (da Einaudi). Inutile dire che sono rimasto folgorato da questi racconti e da quello che, in mancanza di altre e più sensate e serie definizioni, chiamerei “effetto Murakami”.

Sia che si tratti dell’incontro inaspettato e fantastico tra un Ranocchio gigante e un umile impiegato di assicurazione chiamato a salvare Tokyo da un tremendo e devastante terremoto, sia che si tratti di una giovane dottoressa che, dopo un divorzio lampo, decide di prendersi una vacanza e si fa scorrazzare in macchina da un autista d’altri tempi; sia che si parli di tre amici e delle loro alterne vicende sentimentali dai tempi dell’Università fino all’età adulta, o di un trio di amici che si riunisce in riva al mare per accendere falò in pieno inverno e a notte fonda, Murakami riesce a dare verosimiglianza alle storie che racconta e a coinvolgerci con tutti e cinque i sensi, come solo i grandi scrittori sanno fare.

Si ascolta molta musica nei racconti di questo autore; e mi riferisco sia ai brani musicali citati nella trama perché ascoltati in quel particolare momento dai vari personaggi, sia alla ritmicità, alla musicalità che crea lo stile di Murakami (in tal senso è davvero degno di nota constatare la perfezione della traduzione; non conosco il giapponese, purtroppo, ma posso riconoscere quando il traduttore riesce a dare vita a un’opera che “suona” benissimo nella nostra lingua; Giorgio Amitrano, è questo il nome del traduttore italiano di tutti i libri di Murakami, è davvero un grande musicista, in tal senso).

E si dà molta importanza anche al tatto: i personaggi si toccano, si carezzano, si sfiorano, si annusano, perlustrano i rispettivi corpi coinvolgendo il lettore in modo molto diretto, e quasi malizioso (il lettore si sente quasi testimone oculare e intimo delle vite dei personaggi e si percepisce nell’atto di spiarli, seguirli, contemplarli da vicino).

E poi ci sono le “epifanie”, da intendersi in senso joyciano. Murakami è abilissimo nell’arte del racconto, sa bene che il racconto è il fermo-immagine di un evento che colpisce per la sua potenza, immediatezza, anormalità. Sa bene che chi racconta compie un’operazione simile al fotografo che scatta e tenta di catturare il momento clou di una scena o l’angolo privilegiato del volto di chi ha davanti. E così, quando si arriva alla fine del racconto, il lettore è diventato implicitamente anche lui testimone di questo evento o “epifania” che colpisce perché si presenta proprio come “rivelazione”, o “apparizione improvvisa” (di una verità, o della verità che si indovina dietro uno sguardo, un gesto, una parola, un movimento sottile).

“Effetto Murakami”: leggi sapendo benissimo di stare leggendo finzione; ma mentre leggi non riesci più a staccarti, a guardare quella finzione come tale, ti ritrovi avvolto e avvinghiato, coinvolto e affascinato da un insieme di sensazioni che non sai definire e che, solo quando arrivi all’epilogo, riesci a contemplare dalla distanza. Ma ormai è tardi, è troppo tardi; ormai ogni razionalizzazione è superflua (ogni spiegazione logica, allegorica, simbolica, psicanalitica, sociologica del racconto è inutile): Murkami ti ha già catturato, e tu sei finito dentro la finzione dell’autore e vorresti continuare ad ascoltarne la voce indefinitamente. Come se ogni pagina potesse svelarci l’ennesima “epifania”, come se il miracolo debba ripetersi all’infinito.

lunes, noviembre 14, 2011

Dio e il sesso (annessi e connessi)


Che poi questa storia del "sesso" e del senso del "peccato" ad essa annessa se la si considera e analizza dal punto di vista ortodosso del cristiano cattolico e credente è piuttosto curiosa... Ne parlavo (animatamente) con una mia collega di Pisa, una brava ricercatrice che si dedica alla poesia contemporanea (rara avis, quindi), e le facevo notare come, in realtà, se uno ci pensa e ci riflette un po' su, doveva essere molto ingegnoso e anche dotato d'un certo senso della perversione quel Dio che ci creò a sua immagine e somiglianza, dotandoci di organi sessuali così ricettivi, se stimolati in un certo modo, e così lesti ad essere stimolati e stuzzicati nelle posizioni e nei modi più svariati e variegati...


Voglio dire: un Essere Superiore che ci ha dotati, maschi e femmine, di tutti questi simpatici attributi e ci consente, tramite il nostro corpo, di fantasticare così tanto e di variare in modo così bizzarro i mille e uno modi di arrivare all'orgasmo (quando e se ci si arriva, che non è mica detto o scontato), dovette per forza di cose ingegnarsi parecchio e divertirsi assai nell'assemblaggio delle parti (yin e yang, il maschile e il femminile, ognuno predisposto in modo tale da combaciare plasticamente, oserei anche dire: musicalmente, con l'altro - e non affronto qui il tema dell'omosessualità - che la Chiesa giudica ancora oggi una "malattia", quando poi, all'interno della Chiesa si sono verificati casi di pedofilia omosessuale piuttosto eclatanti - e il tema, sottinteso, della perfetta armonia o del combaciare armonico tra due corpi dello stesso sesso; l'argomento ci porterebbe ad aprire una parentesi grossa come una casa e mi sembra opportuno chiuderla qua, per ora, sta benedetta parentesi)... sì, insomma, anche Lui, l'Ente Sommo, dovette divertirsi parecchio quando ci creò e ci dotò di tutti quegli attributi che ci consentono di divertirci nei modi più svariati (e non entro qui nell'ambito di cos'è che è considerato "norma" e cosa "anormale", cosa è "perverso" e cosa non è visto o percepito come tale, de gustibus...lo sappiamo, ognuno la vede come gli pare e non si può sindacare su chi ha gusti sessuali diversi dai nostri, l'importante è - credo - giocare rispettando le regole del gioco che, via via, si stabiliscono con l'altro - perché io, a differenza di alcune coetanee, non mi dimentico mai dell'aspetto "ludico" del sesso, che c'è e va rispettato e, anzi, coltivato e promosso, ogniqualvolta se ne trovi l'occasione, con la persona giusta e se è quella di cui ci si innamora, beh, allora ancora meglio, allora si può davvero "toccare il cielo con un dito" o sentire in Terra quello che chiamiamo volgarmente "il Paradiso" - anche se nessuno sa com'è fatto, anche se c'è chi ci crede e spera d'arrivarci, un giorno - nel futuro più remoto possibile - per goderne per sempre, ovvero, e in latino: per secula seculorum - a Dio piacendo).

sábado, noviembre 12, 2011

Abitare case

Oggi, dopo la lezione, mi sono chiesto, osservando allibito il nuovo eco-mostro che stanno costruendo a pochi passi dalla Facoltà: ma quante case si possono abitare in una vita? Quante case può cambiare, nel corso della sua esistenza, un essere umano?
Mi vengono in mente i nomi di vari scrittori che hanno fatto del trasloco (volenti o nolenti) la loro filosofia di vita: basti pensare a Bruce Chatwin (viaggiatore instancabile tra Africa e Europa e autore di un libro con uno dei titoli più belli di tutti i tempi: Che ci faccio qui?), o a Rafael Alberti, il poeta della cosiddetta “Generación del 27” (che, insieme alla moglie – amata e tradita, María Teresa de León –, ha cambiato mille case, dopo l’esilio dalla Spagna, tra Roma, Argentina, New York, etc. etc.), o a James Joyce (che scrisse il suo Ulysses – come esplicita lui stesso, in calce all’ultima pagina del suo capolavoro – tra Dublino, Parigi e Trieste)…

Penso e rifletto a quante case ho già cambiato nel corso dei miei (attuali) 34 anni di vita vissuta… Eccezion fatta per la casa dei miei (quella del piccolo paese ridente sui monti abruzzesi citato anche a destra, sulla colonna del profilo), la casa, cioè, dove i miei hanno scelto di vivere insieme per nutrirmi, e farmi crescere, ed educarmi, ho cambiato almeno 10 diverse case, alcune abitate e cambiate all’interno della stessa città (3 a Firenze, ad es., e 4 a Madrid): ho vissuto a Roma, vicino alla Stazione Termini; a Pisa, vicino all’aeroporto “Galileo Galilei”, e poi, in un’altra casa, più grande e confortevole, a due passi dalla stazione; a Firenze (vicino allo stadio, la prima, poi a Via de’ Serragli, in pieno centro e dietro i Giardini di Boboli, la seconda; la terza e ultima, invece, si trovava nei pressi delle Cascine); a Madrid (una vicino alla stazione dei treni di Atocha – quella, per intenderci, degli attentati terroristici –, e una nei pressi di Ortega y Gasset, in zona residenziale; un’altra ancora nel quartiere più periferico di Legazpi e l’ultima, bellissima e spaziosa, nel quartiere di Chamberí). Ora vivo nel sud, in una piccola cittadina a due passi da Salerno. La casa in cui sto – temporaneamente, che è come ormai mi sono abituato ad abitare nelle case – è una piccola mansarda, un attico, una specie di sotto-tetto. E’ piccola, ma c’è tutto: una grande stanza che funge da salone e da camera da letto, con letto a due piazze comodissimo (comprato, ovviamente, all’Ikea); c’è anche un tavolino con 2 sedie per mangiare e studiare; e un piano di lavoro più grosso e ampio su cui lasciare i libri e gli appunti, le fotocopie e i documenti vari che mi porto dietro da anni, oltre alla radio e al computer; e poi, sulla destra, c’è un cucinino, con mattonelle in vista colorate e molto chic; e infine, un bagno, con lo spazio sufficiente ad ospitare una lavatrice e con la porta a soffietto, in perfetto stile da film western, mentre la doccia è a sinistra, appena si apre la porta, nella sala grande e nel punto in cui il tetto è più alto (la casa tende a scendere, ad abbassarsi, in corrispondenza matematica e geometrica con la linea del tetto).
L’unico neo è che è poco luminosa. Ci sono solo due finestre, costruite o ricavate direttamente dal tetto, per cui la luce passa, ma non in grandi quantità; se mi affaccio, la mia testa finisce direttamente sul tetto; da lì potrei vedere cosa combinano i vicini, quelli che hanno il balcone o la terrazza agli ultimissimi piani, o beccarmi la cacata volante di qualche piccione in missione tra le nubi.
Non oso immaginare come diventerà la casa d’estate: se ora ci si sta bene e un po’ come in un frigorifero a grandezza naturale, e a misura d’uomo, d’estate, col caldo, questa soffitta deve trasformarsi in una sauna. Ma non mi lamento. Qui ho tutto quello che mi serve: pace, silenzio, tranquillità, e libri, i miei libri, i tanti libri che mi hanno seguito fedeli nel corso degli anni e dei vari, molteplici traslochi…

E’ chiaro che quassù non viene nessuno da giù: fino al quarto piano sì, c’è un avvocato che sale le scale e a volte rincasa con le amiche e fa un po’ di rumore; ma dal quarto piano in su, ci sono soltanto le scale che portano alle altre mansarde; io sono il solo a viverci in pianta stabile… mentre per le capatine volanti, beh, sì, purtroppo qualcuno c’è: sono due ragazzetti che fanno i deejay e che approfittano del loro attico – proprio dirimpetto al mio – per fare le prove, e divertirsi col loro mixer mandando la musica dance e underground a tutto volume…

Non mi danno fastidio, quando non studio o non lavoro o non sto dormendo o non sono da solo (e in dolce compagnia). E le volte che hanno sbagliato orario, ho loro fatto gentilmente notare che sarebbe stato meglio abbassare un po’ il volume. Però io amo la musica da discoteca; a volte, mi sembra di essere in pista, anche mentre mi sto facendo la doccia o sto cuocendo due uova alla coque. Certe volte mi tremano i piatti, per la potenza dei watt. Ma sono giovani e li capisco. E me ne sto chiuso dentro casa a ballare al ritmo della loro musica.


Tornando a bomba: quante case possiamo abitare nel corso di una vita? E quale sarà quella definitiva? Cos’è che la renderà tale, cioè, che renderà ultima l’ultima casa che abiteremo? Chi ci sarà con noi dentro quella futura casa? In quanti staremo? Ci saranno anche dei figli? E ci saranno anche animali domestici, come gatti o cani? Ci sarà l’acquaio per i pesciolini rossi? O saremo solo noi? Noi e i nostri libri e le nostre cose più preziose e le nostre foto delle persone più care? Quante case posso ancora abitare?

jueves, octubre 27, 2011

Desirée


Oggi ho conosciuto Desirée, una studentessa di Lingue che non segue i miei corsi e che mi ha intrattenuto, mentre ero in coda all'ufficio prestiti della Biblioteca Centrale dell'Università in cui lavoro (da precario, come ormai da tanti anni), illustrandomi i suoi progetti per il futuro (immediato).

Desirée è una bella ragazza con gli occhiali spessi alla Woody Allen (sono tornati di moda, pare) ed è una tipa socievole, piuttosto espansiva, dotata di parlantina e di voglia di fare. Indossa un lungo cappotto scuro tutto sgualcito; ha i capelli lunghi neri e mossi e gli occhi verdi; una maglietta colorata (d'un verde o rosa o fucsia quasi fluorescente) e un paio di pantaloni strappati all'altezza delle ginocchia. Ai piedi, un paio di Converse rosse (anche queste piuttosto usate, di persona che cammina molto).

Desirée studia Inglese e Francese, si occupa di letteratura femminile (sarà anche femminista?) e di gender studies; ma un giorno - mi confessa - lesse Goethe, il suo Viaggio in Italia, e ne rimase folgorata. Le sono piaciuti, in particolare, i brani che lo scrittore dedica ai paesi e paeselli che ha trovato lungo il cammino da Napoli a Salerno (o viceversa); e Desirée è rimasta a bocca aperta pensando alla differenza abissale, ai cambiamenti inesorabili e in peggio che quei paesi hanno assunto oggi, nel trascorrere del tempo e a distanza di tanti anni (più di un secolo fa - il libro di Goethe uscì nel 1829, anche se il viaggio lo fece quando aveva 37 anni, nel 1786).

Desirée si è messa in testa di fare un documentario sui "paesi nascosti", sugli scempi che la camorra o lo Stato (o entrambi, insieme, e allo stesso tempo) hanno lasciato su questo territorio ben circoscritto e sul fatto che bisogna recuperarli e prendere coscienza di quanto non si fa e di quanto si potrebbe fare per migliorare il paesaggio, e l'Italia intera, forse.

A tratti, mentre l'ascolto infervorarsi contro chi ci governa, mi fa venire in mente Roberto Saviano. Altre, mi fa ridere (Desirée è una tipa anche molto "teatrale", gesticola molto, si muove, quando parla, ed ha una faccia davvero espressiva).

E rimango a bocca aperta quando mi racconta che, in alcuni di questi paesi a rischio, la gente (giovani come lei o anche persone anziane e con una certa esperienza dei pericoli locali) le consigliava caldamente di smetterla di fare foto, che lei è una ragazza, cosa ci fa una ragazza così carina e giovane in un posto simile? 

Desirée mi ha raccontato che se provi a domandare come si fa a raggiungere quel particolare paese, o quella determinata contrada di quel paese, la gente abbassa la voce e ti consiglia di riprendere armi e bagagli, di riprendere il trenino o l'autobus che ti ha portato fin là, e di tornare a casa... Ci sono posti che è bene non frequentare né fotografare...

Desirée, però, è anche una tipa "tosta", una testarda, che non si dà per vinta: ha già fatto diverse foto, ha accumulato un bel po' di materiale - anche se ha rischiato, in uno dei suoi tanti incontri "strani" o con gente "poco raccomandabile" - e ora è quasi pronta per scrivere (commenti alle foto e le sue riflessioni su quanto mostra, sull'Italia "nascosta" che vuol mostrare perché tanto si sa, i tg non ne parlano) e per montare il tutto (parole e immagini) e pubblicarlo su YouTube.

Desirée è l'esempio concreto, vivente, di quell'Italia che non si riconosce in chi la governa e la umilia. E' l'esempio di quella minoranza di ragazzi e ragazze che amano studiare, sono curiosi, non si limitano a leggere libri, ma cercano anche di capire toccando con mano ciò di cui si parla (o ciò di cui - volutamente - nessuno parla, perché sono argomenti scomodi o che vanno a toccare nodi irrisolti - come "a munnezza", la camorra, gli "ecomostri").

Ci scambiamo l'email; voglio proprio vedere come sarà il suo documentario. E Desirée usa subito la mia email per dirmi che si scusa se mi ha trattenuto così a lungo su certi temi. Le rispondo subito che non mi è affatto dispiaciuto: non erano chiacchiere da bar. La esorto a continuare, a non darsi per vinta, a non ascoltare chi la prende per pazza o "idealista". E penso: Desirée è "donchisciottesca" nel senso buono del termine: non una squilibrata che lotta contro i mulini a vento; ma una che, avendo ben presente la durezza e la pesantezza della realtà, cerca di staccarsene per dire la sua e farci vedere quella stessa realtà da nuovi punti di vista. Poi le consiglio il libro di un altro Don Chisciotte contemporaneo, il "paesologo" Franco Arminio (il libro, appena uscito da Mondadori s'intitola Terracarne), uno che ha perlustrato e continua a perlustrare l'Italia fatta di paesi e paesetti, villaggi e contrade che tendiamo a dimenticare o a evitare come luoghi poco interessanti o poco ospitali... quando forse è lì che si trova l'Italia più vera e sincera.

martes, octubre 25, 2011

This must be the place di Paolo Sorrentino: un film irrisolto


Premessa: non svelerò il finale di un film che, non sempre coerente o costante nei suoi risultati artistici, mi è comunque piaciuto – anche per il suo finale spiazzante o poco prevedibile (forse inverosimile?).
This must be the place, come Il divo e come Le conseguenze dell’amore, rispecchia alla perfezione alcuni dei temi centrali del cinema di Paolo Sorrentino: la solitudine come condizione esistenziale di alcuni essere umani che fuggono (dalla legge, dalla realtà, dal contatto con il prossimo – sto pensando anche al protagonista dell’unico romanzo scritto, ad oggi, dal regista, quell' Hanno tutti ragione, in cui un cantante melodico di successo si ritrova a vivere una seconda vita nel “buen retiro” di un villaggio tempestato dagli scarafaggi in mezzo all’Amazzonia; ma penso anche al Giulio Andreotti nervoso e insonne che cammina, anzi, corre quasi spasmodicamente da una stanza all’altra del proprio appartamento perché preda di ansia, o incubi, o cattiva coscienza del film succitato); la ricerca della verità dietro i veli delle apparenze (ancora una volta, il dialogo “impossibile” tra Andreotti e Moro è un esempio calzante); il presentarsi improvviso e inaspettato dell’occasione che può cambiare per sempre il senso di una vita… E con quest’ultimo tema mi avvicino all’ultimo lavoro di Sorrentino: un’ex-rockstar degli anni 80 (superbamente interpretata dal – come sempre – bravissimo Sean Penn, con tanto di chioma indomabile che tanto ricorda il cantante dei The Cure) riceve una telefonata che lo poterà lontano da casa e dalla moglie: suo padre sta morendo, deve lasciare l’Irlanda per tornare in America e portare l’estremo saluto.
Ora, bisogna dire una cosa: se la prima parte del film, quella meno “cinematografica” o “romanzesca”, è estremamente interessante per il modo in cui il regista riesce a creare un personaggio così sui generis con poche inquadrature perfette, con dialoghi essenziali e precisi, con una musica che rende la colonna sonora un tocco di bravura e di sensibilità sopraffina, la seconda parte, invece, quella che avrebbe potuto far sbizzarrire il regista, risulta meno ricca di pathos o di suspense o di “azione”; Sean Penn vaga per un’America che ricorda molto da vicino quella che abbiamo già visto in Paris, Texas  di Wim Wenders e, invece che andare alla ricerca di Natassja Kinski, segue le orme del criminale nazista che ha umiliato il padre fino a spingerlo a una sete di vendetta che non si è mai placata, nemmeno in procinto della morte.
Sean Penn incontra personaggi uno più strambo dell’altro; si limita ad ascoltare, eppure, anche lui cambia a contatto con gente del genere. Quando poi scopre dove vive il nazista (ormai ultraottantenne), il film subisce un’altra svolta, di cui però, come detto sopra, non dirò.
L’impressione è che Sorrentino abbia voluto dire tante cose e tutte insieme; che si sia divertito molto a girare in America con grandi mezzi (un budget milionario) e un grandissimo attore come Sean Penn; che sia riuscito a infondere ritmo e poesia alle immagini, ma non come c’era riuscito negli altri suoi precedenti film. Che, insomma, qualcosa stona, in un film in cui la musica diventa importante tanto quanto i personaggi che vengono messi al centro di questa storia di “scoperta di sé” e “vendette rimandate all’infinito”.
E’ come se il regista non riuscisse a seguire fino in fondo il percorso di ricerca che avvia il suo anti-eroe strambo e strampalato… e, quindi, come se un po’ anche lui si perdesse dietro i vaneggiamenti, le ironie, le prese di posizione sarcastiche o perennemente anti-conformiste del protagonista.
Qualche emozione, qualche brivido, lo trasmette (come nella scena in cui il figlio della cameriera chiede al vecchio cantante di suonargli “This must be the place”, il pezzo dei Talking Heads che dà titolo al film)… ma manca l’orchestrazione compatta, coinvolgente, avvolgente de Il divo o L’amico di famiglia o L'uomo in più o Le conseguenze dell’amore.

P.S.: la scena in cui David Byrne, leader dei Talking Heads, canta lo stesso brano, beh, quella sì che rimane impressa nella mente dello spettatore (anche per la soluzione scenografica adottata).

lunes, octubre 17, 2011

LUIS GOYTISOLO DOCET (sulla "relazione erotica")



Oggi vorrei riflettere su queste parole di uno dei miei scrittori spagnoli preferiti in assoluto, e cioè: Luis Goytisolo (autore poco letto in patria e pochissimo noto in Italia – la Biblioteca Nazionale di Firenze, ad es., ha solo una copia de “I sobborghi” (Torino, Einaudi, 1961), più che decennale traduzione italiana del suo fortunato “Las afueras” (il romanzo vinse il primo “Premio Biblioteca Breve” indetto da Seix Barral, se non vado errato). Ecco le sue parole:

La relación erótica es tanto más perfecta cuanto en mayor número estén presentes los elementos que la componen, de acuerdo con una gradación semejante a la del espectro solar: afecto, amistad, amor, deseo, lascivia, perversión, exceso. La serie es abierta, en el sentido de que puede dar comienzo con uno cualquiera de los elementos enumerados y, a partir de ahí, seguir adelante hasta completar el circuito”

parole che potremmo volgere in italiano così:

La relazione erotica è tanto più prossima alla perfezione quando in maggior numero siano presenti gli elementi che la compongono, in base ad una gradazione simile a quella dello spettro solare: affetto, amicizia, amore, desiderio, lascivia, perversione, eccesso. La serie è aperta, nel senso che può avere inizio da uno qualsiasi degli elementi enumerati e, a partire da lì, proseguire in avanti fino a completare il circuito”.

Sono parole belle e che fanno riflettere, tratte da un romanzo che s'intitola Diario de 360° (Barcelona, Seix Barral, 2000, p. 137). Si tratta, in realtà, di un finto diario, scritto nell'arco di un anno (e a ridosso del 2000), in cui l'autore mescola abilmente piccoli pezzi di autobiografia, brani brevi di un lirismo intenso, alternandoli ad altri di narrativa pura: racconti surreali, incipit di romanzi tutti da scrivere, sogni, incubi e narrazioni perturbanti varie.

Rifletto, in particolare, su quelli che l'autore ci presenta come gli ingredienti della relazione erotica (si badi bene: “erotica”, non “amorosa” o “sentimentale”):affetto, amicizia, amore, desiderio, lascivia, perversione, eccesso.

Per deformazione professionale, io qui ci noto un climax ascendente. Poi penso alla metafora (se di metafora si può parlare) della relazione erotica come “spettro solare”: cos'è, in realtà, lo “spettro solare”? E' quel mix di onde o radiazioni elettromagnetiche che il Sole ci invia sotto forma di luce (sia visibile sia invisibile – dai raggi X, ai raggi ultravioletti; dai raggi gamma alle onde radio – grazie Wikipedia, grazie di esistere!). Insomma, l'Eros è qualcosa che nasce da un miscuglio di tutte queste diverse “emozioni” o “sentimenti” o “onde”: dall'affetto (che si può provare per un amico, un fratello, un cane) all'eccesso (che esce o fuori-esce dalla norma, in senso etimologico) passando per la lascivia (peccato che Dante condanna attraverso la narrazione straordinaria di Paolo e Francesca) e la perversione (che è campo quanto mai minato – fino a che punto qualcosa – una pratica, un abitudine sessuale, un gusto in fatto di sesso – è “perversione”? Chi stabilisce i confini? Chi fissa i paletti? Nessuno; o meglio, e a parer mio, i limiti, i confini, i paletti li fissano le due persone coinvolte nella pratica o relazione erotica).

Il bello (o l'aspetto curioso) è che, a detta di Goytisolo, questi ingredienti possono presentarsi in grado diverso tra loro e non tutti insieme; il massimo è quando coesistono e convivono e permettono di raggiungere il massimo del piacere e della soddisfazione o soddisfacimento personali.

Ripenso alle mie vecchie storie d'amore e alle relazioni erotiche che le hanno accompagnate; ripenso alle mie ex; ripenso a quanta perversione le altre hanno visto o intra-visto nel mio modo di intendere il sesso e l'eros; ripenso a tutte queste cose e mi piglia la tristezza, perché, a pensarci bene (appunto) a me è capitato soltanto una volta d'avere (di vivere fino in fondo) una relazione erotica di cui sopra (in cui, cioè, s'amalgamassero in modo costante nel tempo e in maniera armoniosa tutti – ma proprio tutti – gli elementi che Luis Goytisolo enumera).

Sola una volta nella vita...

Poteva andarmi peggio; avrei potuto avere meno fortuna e non vivere mai nemmeno quella singola storia d'amore e sesso così travolgente da sfiorare (se non raggiungere) la perfezione... Ma si sa che l'uomo è animale razionale e imperfetto. Forse, a dirla tutta, la perfezione su questa Terra non esiste. E lo “spettro solare” continua a mandarci raggi e onde senza che noi riusciamo nemmeno a percepirle.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...