sábado, noviembre 26, 2011

Dialoghi assurdi




 N.1

“Ma tu fumi?”
“Sì”.
“Vuoi una sigaretta?”
“No, grazie, ce le ho. E tu fumi?”.
“Sì”.
“Ne vuoi una?”.
“No”.

N.2

“Ma per caso tuo padre fa il dentista?”.
“No, perché?”.
“Hai denti così bianchi… Sono bellissimi”.

N.3

“Sai, in quanto a cinema c’azzecco sempre, riesco sempre a dare degli ottimi consigli…”.
“Sì, infatti, se io mi sono appassionata a Bergman lo devo a te”.
“Infatti… pensa che le mie ex ancora oggi si ricordano dei film che ho consigliato loro quando stavamo insieme, mi hanno confessato che mai avrebbero scoperto quel film o quel regista senza di me… Peccato poi che sposano gli altri e non me”.

N.4

“Stamattina, quando mi sono svegliata, ho guardato il soffitto per una decina di minuti, non capivo più dove mi trovavo e non avevo voglia di fare niente”.
“Io, invece, avevo voglia di farmi un caffè, ho riempito la macchinetta, ho messo la macchinetta sul gas e poi… la macchinetta è esplosa. Per fortuna che ero in bagno, sennò morivo. Le tracce di caffè sono arrivate fino al soffitto. Poteva essere una strage”.

N.5

“Sei una persona, come dire? Gradevole”.
“Accipicchia! E’ la prima volta che una ragazza mi definisce ‘gradevole’. Lo devo prendere come un complimento?”.
“Certo”.

N.6

“Prof., la prego, mi faccia un’altra domanda, la domanda di riserva”.
“Signorina, lei guarda troppa televisione, non siamo a ‘Chi vuol esser milionario’, o come si chiama, siamo all’Università… Cosa vuole: comprare una vocale? Girare la ruota? Dare la risposta? L’accendiamo?”.

N.7

“Cosa mi assicura del fatto che non ti stai prendendo gioco di me? Cosa mi dice che non mi tratti come un fenomeno da baraccone o come un cane?”.
“Tendenzialmente, considero le persone con cui parlo e cui do una certa confidenza come esseri umani, tali e quali a me, con le loro paure, le loro ansie, le loro idiosincrasie, i loro desideri confessabili e inconfessabili, le loro paranoie”.
“Ho capito”.
“Cosa?”.
“Niente”.

N.8

“Ciao maialone? Stai trombando?”
“Veramente no…anzi, sto studiando, un saggio filosofico, una palla infinita”.
“Ahahah!!! Scherzavo, lo so che non stai trombando. Ti piacerebbe, eh?”.
“Intendi: con te?”.
“Eh, sì, con chi sennò?”.
“Tu sei pazza”.
“E tu un porcello”.

N.9

“Mio Dio! Non ci posso credere, Marta, che cavolo ci fai qua?”.
“Mi hanno chiamata a testimoniare a un processo, devo presentarmi davanti al giudice entro l’una, ce la facciamo a prenderci un caffè al bar?”.
“Ma certo, io per te farei i salti mortali, lo sai, vengo giù in un secondo, aspettami all’ingresso del bar di Ingegneria!”
“Ma io sono già al bar!”.
“E tu aspettami lo stesso”.

N.10

“Mio Dio, quanto sei bella, ma come fai a essere così bella? Mangi saponette?”.
“Ahahah!!!! Tu sei tutto suonato! Ma davvero, sai?!”.

N.11

“Come dice Nanni Moretti: io credo nelle persone, solo che non credo nella maggioranza delle persone”.
“Ma hai la stessa voce di Nanni Moretti!!! Nooo!!! Io muoio! Mi fai troppo ridere!”.
“Ma guarda che lo stavo solo imitando… E’ che l’imitazione di Nanni mi viene particolarmente bene… Senti questa: ‘Cacare, non cagare, fica, non figa, Giulia, Marco, non la Giulia, il Marco, siamo a Roma, non a Milano’”.
“Sei identico! Sputato! Cazzo, sei uguale!”.

N.12

“Morire, partire…”
“Arrivare in ritardo…”.
“Perdere la valigia all’aeroporto…”
“E sperare che ti diano un buono per comprarti le mutande…”.
“E per fare una lieta colazione…”.
“Forse volevi dire lauta…”
“Lauta e lieta colazione…sì, dai”.

N.13

“L’altro giorno, nel bagno dei maschi, ho letto una frase fantastica, nel suo piccolo: ‘Ti amerò per sempre, se me la dai’. Forte, no?”.
“Rispecchia perfettamente i tempi moderni e la mentalità di certi maschi che nemmeno nella Preistoria…”.
“Io la trovo romantica, nel suo piccolo”.
“Tu hai un senso del romanticismo alquanto distorto, non ti sembra?”.
“No. Sono romantico…”
“…nel tuo piccolo”.

sábado, noviembre 19, 2011

Effetto Murakami



Non so cosa sia di preciso, non saprei definirlo in modo razionale e logico, chiaro e diretto, però, a mio modesto parere, esiste un effetto peculiare che si percepisce subito quando si legge Murakami, come una specie di aura che aleggia sui personaggi, le trame e lo stile, un’atmosfera che solo Murakami sa creare e ricreare a suo piacimento per il suo e il nostro godimento di lettori (è come l’ “effetto Lynch” al cinema: bastano un paio d’inquadrature per capire che quello che stai guardando è un film di David Lynch).

Di Haruki Murakami mi parlò la prima volta Jesús Bregante, lettore inquieto e irrequieto, esempio sommo di docente che ha la passione per la Letteratura e sa trasmetterla ai suoi studenti senza infingimenti. In Spagna, già nei primi anni del 2000, lo scrittore giapponese era un idolo; di lui mi consigliarono due titoli, su tutti: Tokyo Blues e Dance dance dance.

In questi giorni di letture disordinate e onnivore, m’è capitato tra le mani la raccolta di racconti Tutti i figli di Dio danzano, un titolo apparso in Giappone proprio nel 2000 e arrivato in Italia nel 2005 (da Einaudi). Inutile dire che sono rimasto folgorato da questi racconti e da quello che, in mancanza di altre e più sensate e serie definizioni, chiamerei “effetto Murakami”.

Sia che si tratti dell’incontro inaspettato e fantastico tra un Ranocchio gigante e un umile impiegato di assicurazione chiamato a salvare Tokyo da un tremendo e devastante terremoto, sia che si tratti di una giovane dottoressa che, dopo un divorzio lampo, decide di prendersi una vacanza e si fa scorrazzare in macchina da un autista d’altri tempi; sia che si parli di tre amici e delle loro alterne vicende sentimentali dai tempi dell’Università fino all’età adulta, o di un trio di amici che si riunisce in riva al mare per accendere falò in pieno inverno e a notte fonda, Murakami riesce a dare verosimiglianza alle storie che racconta e a coinvolgerci con tutti e cinque i sensi, come solo i grandi scrittori sanno fare.

Si ascolta molta musica nei racconti di questo autore; e mi riferisco sia ai brani musicali citati nella trama perché ascoltati in quel particolare momento dai vari personaggi, sia alla ritmicità, alla musicalità che crea lo stile di Murakami (in tal senso è davvero degno di nota constatare la perfezione della traduzione; non conosco il giapponese, purtroppo, ma posso riconoscere quando il traduttore riesce a dare vita a un’opera che “suona” benissimo nella nostra lingua; Giorgio Amitrano, è questo il nome del traduttore italiano di tutti i libri di Murakami, è davvero un grande musicista, in tal senso).

E si dà molta importanza anche al tatto: i personaggi si toccano, si carezzano, si sfiorano, si annusano, perlustrano i rispettivi corpi coinvolgendo il lettore in modo molto diretto, e quasi malizioso (il lettore si sente quasi testimone oculare e intimo delle vite dei personaggi e si percepisce nell’atto di spiarli, seguirli, contemplarli da vicino).

E poi ci sono le “epifanie”, da intendersi in senso joyciano. Murakami è abilissimo nell’arte del racconto, sa bene che il racconto è il fermo-immagine di un evento che colpisce per la sua potenza, immediatezza, anormalità. Sa bene che chi racconta compie un’operazione simile al fotografo che scatta e tenta di catturare il momento clou di una scena o l’angolo privilegiato del volto di chi ha davanti. E così, quando si arriva alla fine del racconto, il lettore è diventato implicitamente anche lui testimone di questo evento o “epifania” che colpisce perché si presenta proprio come “rivelazione”, o “apparizione improvvisa” (di una verità, o della verità che si indovina dietro uno sguardo, un gesto, una parola, un movimento sottile).

“Effetto Murakami”: leggi sapendo benissimo di stare leggendo finzione; ma mentre leggi non riesci più a staccarti, a guardare quella finzione come tale, ti ritrovi avvolto e avvinghiato, coinvolto e affascinato da un insieme di sensazioni che non sai definire e che, solo quando arrivi all’epilogo, riesci a contemplare dalla distanza. Ma ormai è tardi, è troppo tardi; ormai ogni razionalizzazione è superflua (ogni spiegazione logica, allegorica, simbolica, psicanalitica, sociologica del racconto è inutile): Murkami ti ha già catturato, e tu sei finito dentro la finzione dell’autore e vorresti continuare ad ascoltarne la voce indefinitamente. Come se ogni pagina potesse svelarci l’ennesima “epifania”, come se il miracolo debba ripetersi all’infinito.

lunes, noviembre 14, 2011

Dio e il sesso (annessi e connessi)


Che poi questa storia del "sesso" e del senso del "peccato" ad essa annessa se la si considera e analizza dal punto di vista ortodosso del cristiano cattolico e credente è piuttosto curiosa... Ne parlavo (animatamente) con una mia collega di Pisa, una brava ricercatrice che si dedica alla poesia contemporanea (rara avis, quindi), e le facevo notare come, in realtà, se uno ci pensa e ci riflette un po' su, doveva essere molto ingegnoso e anche dotato d'un certo senso della perversione quel Dio che ci creò a sua immagine e somiglianza, dotandoci di organi sessuali così ricettivi, se stimolati in un certo modo, e così lesti ad essere stimolati e stuzzicati nelle posizioni e nei modi più svariati e variegati...


Voglio dire: un Essere Superiore che ci ha dotati, maschi e femmine, di tutti questi simpatici attributi e ci consente, tramite il nostro corpo, di fantasticare così tanto e di variare in modo così bizzarro i mille e uno modi di arrivare all'orgasmo (quando e se ci si arriva, che non è mica detto o scontato), dovette per forza di cose ingegnarsi parecchio e divertirsi assai nell'assemblaggio delle parti (yin e yang, il maschile e il femminile, ognuno predisposto in modo tale da combaciare plasticamente, oserei anche dire: musicalmente, con l'altro - e non affronto qui il tema dell'omosessualità - che la Chiesa giudica ancora oggi una "malattia", quando poi, all'interno della Chiesa si sono verificati casi di pedofilia omosessuale piuttosto eclatanti - e il tema, sottinteso, della perfetta armonia o del combaciare armonico tra due corpi dello stesso sesso; l'argomento ci porterebbe ad aprire una parentesi grossa come una casa e mi sembra opportuno chiuderla qua, per ora, sta benedetta parentesi)... sì, insomma, anche Lui, l'Ente Sommo, dovette divertirsi parecchio quando ci creò e ci dotò di tutti quegli attributi che ci consentono di divertirci nei modi più svariati (e non entro qui nell'ambito di cos'è che è considerato "norma" e cosa "anormale", cosa è "perverso" e cosa non è visto o percepito come tale, de gustibus...lo sappiamo, ognuno la vede come gli pare e non si può sindacare su chi ha gusti sessuali diversi dai nostri, l'importante è - credo - giocare rispettando le regole del gioco che, via via, si stabiliscono con l'altro - perché io, a differenza di alcune coetanee, non mi dimentico mai dell'aspetto "ludico" del sesso, che c'è e va rispettato e, anzi, coltivato e promosso, ogniqualvolta se ne trovi l'occasione, con la persona giusta e se è quella di cui ci si innamora, beh, allora ancora meglio, allora si può davvero "toccare il cielo con un dito" o sentire in Terra quello che chiamiamo volgarmente "il Paradiso" - anche se nessuno sa com'è fatto, anche se c'è chi ci crede e spera d'arrivarci, un giorno - nel futuro più remoto possibile - per goderne per sempre, ovvero, e in latino: per secula seculorum - a Dio piacendo).

sábado, noviembre 12, 2011

Abitare case

Oggi, dopo la lezione, mi sono chiesto, osservando allibito il nuovo eco-mostro che stanno costruendo a pochi passi dalla Facoltà: ma quante case si possono abitare in una vita? Quante case può cambiare, nel corso della sua esistenza, un essere umano?
Mi vengono in mente i nomi di vari scrittori che hanno fatto del trasloco (volenti o nolenti) la loro filosofia di vita: basti pensare a Bruce Chatwin (viaggiatore instancabile tra Africa e Europa e autore di un libro con uno dei titoli più belli di tutti i tempi: Che ci faccio qui?), o a Rafael Alberti, il poeta della cosiddetta “Generación del 27” (che, insieme alla moglie – amata e tradita, María Teresa de León –, ha cambiato mille case, dopo l’esilio dalla Spagna, tra Roma, Argentina, New York, etc. etc.), o a James Joyce (che scrisse il suo Ulysses – come esplicita lui stesso, in calce all’ultima pagina del suo capolavoro – tra Dublino, Parigi e Trieste)…

Penso e rifletto a quante case ho già cambiato nel corso dei miei (attuali) 34 anni di vita vissuta… Eccezion fatta per la casa dei miei (quella del piccolo paese ridente sui monti abruzzesi citato anche a destra, sulla colonna del profilo), la casa, cioè, dove i miei hanno scelto di vivere insieme per nutrirmi, e farmi crescere, ed educarmi, ho cambiato almeno 10 diverse case, alcune abitate e cambiate all’interno della stessa città (3 a Firenze, ad es., e 4 a Madrid): ho vissuto a Roma, vicino alla Stazione Termini; a Pisa, vicino all’aeroporto “Galileo Galilei”, e poi, in un’altra casa, più grande e confortevole, a due passi dalla stazione; a Firenze (vicino allo stadio, la prima, poi a Via de’ Serragli, in pieno centro e dietro i Giardini di Boboli, la seconda; la terza e ultima, invece, si trovava nei pressi delle Cascine); a Madrid (una vicino alla stazione dei treni di Atocha – quella, per intenderci, degli attentati terroristici –, e una nei pressi di Ortega y Gasset, in zona residenziale; un’altra ancora nel quartiere più periferico di Legazpi e l’ultima, bellissima e spaziosa, nel quartiere di Chamberí). Ora vivo nel sud, in una piccola cittadina a due passi da Salerno. La casa in cui sto – temporaneamente, che è come ormai mi sono abituato ad abitare nelle case – è una piccola mansarda, un attico, una specie di sotto-tetto. E’ piccola, ma c’è tutto: una grande stanza che funge da salone e da camera da letto, con letto a due piazze comodissimo (comprato, ovviamente, all’Ikea); c’è anche un tavolino con 2 sedie per mangiare e studiare; e un piano di lavoro più grosso e ampio su cui lasciare i libri e gli appunti, le fotocopie e i documenti vari che mi porto dietro da anni, oltre alla radio e al computer; e poi, sulla destra, c’è un cucinino, con mattonelle in vista colorate e molto chic; e infine, un bagno, con lo spazio sufficiente ad ospitare una lavatrice e con la porta a soffietto, in perfetto stile da film western, mentre la doccia è a sinistra, appena si apre la porta, nella sala grande e nel punto in cui il tetto è più alto (la casa tende a scendere, ad abbassarsi, in corrispondenza matematica e geometrica con la linea del tetto).
L’unico neo è che è poco luminosa. Ci sono solo due finestre, costruite o ricavate direttamente dal tetto, per cui la luce passa, ma non in grandi quantità; se mi affaccio, la mia testa finisce direttamente sul tetto; da lì potrei vedere cosa combinano i vicini, quelli che hanno il balcone o la terrazza agli ultimissimi piani, o beccarmi la cacata volante di qualche piccione in missione tra le nubi.
Non oso immaginare come diventerà la casa d’estate: se ora ci si sta bene e un po’ come in un frigorifero a grandezza naturale, e a misura d’uomo, d’estate, col caldo, questa soffitta deve trasformarsi in una sauna. Ma non mi lamento. Qui ho tutto quello che mi serve: pace, silenzio, tranquillità, e libri, i miei libri, i tanti libri che mi hanno seguito fedeli nel corso degli anni e dei vari, molteplici traslochi…

E’ chiaro che quassù non viene nessuno da giù: fino al quarto piano sì, c’è un avvocato che sale le scale e a volte rincasa con le amiche e fa un po’ di rumore; ma dal quarto piano in su, ci sono soltanto le scale che portano alle altre mansarde; io sono il solo a viverci in pianta stabile… mentre per le capatine volanti, beh, sì, purtroppo qualcuno c’è: sono due ragazzetti che fanno i deejay e che approfittano del loro attico – proprio dirimpetto al mio – per fare le prove, e divertirsi col loro mixer mandando la musica dance e underground a tutto volume…

Non mi danno fastidio, quando non studio o non lavoro o non sto dormendo o non sono da solo (e in dolce compagnia). E le volte che hanno sbagliato orario, ho loro fatto gentilmente notare che sarebbe stato meglio abbassare un po’ il volume. Però io amo la musica da discoteca; a volte, mi sembra di essere in pista, anche mentre mi sto facendo la doccia o sto cuocendo due uova alla coque. Certe volte mi tremano i piatti, per la potenza dei watt. Ma sono giovani e li capisco. E me ne sto chiuso dentro casa a ballare al ritmo della loro musica.


Tornando a bomba: quante case possiamo abitare nel corso di una vita? E quale sarà quella definitiva? Cos’è che la renderà tale, cioè, che renderà ultima l’ultima casa che abiteremo? Chi ci sarà con noi dentro quella futura casa? In quanti staremo? Ci saranno anche dei figli? E ci saranno anche animali domestici, come gatti o cani? Ci sarà l’acquaio per i pesciolini rossi? O saremo solo noi? Noi e i nostri libri e le nostre cose più preziose e le nostre foto delle persone più care? Quante case posso ancora abitare?

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...