lunes, octubre 29, 2012




Guarda gli arlecchini!... e reinventa il mondo!



Immaginate... Immaginatevi di leggere l'autobiografia di uno scrittore famoso che sembra (ma non è) Vladimir Nabokov... Immaginate anche che questo scrittore finga di chiamarsi Vadim Vadimovic e che abbia alcune delle principali idiosincrasie dell'autore di Ada o ardore... E immaginate anche che il sunnominato Vadim Vadimovic scriva per tentare di esorcizzare una specie di malattia mentale (o tic nervoso) che assomiglia in modo preoccupante alla schizofrenia... Immaginate uno che non riesce a fare dietrofront – dopo aver percorso una strada da un punto A ad un punto B – perché ha seri problemi a concepire e percepire lo spazio in termini obiettivi, fisici, spaziali, appunto (confonde costantemente lo spazio con il tempo). Ecco... ci siamo quasi: siamo vicini alla trama (ma non ancora al nocciolo, all'essenza nascosta, al nodo essenziale) dell'incredibile Look at the Harlequins! (o anche: “Guarda gli arlecchini!”, tr. it. a cura di Franca Pece, Milano, Adelphi, 2012), romanzo tra i più sconcertanti e originali e lirici tra quelli pubblicati dal Nostro (la prima edizione uscì in America nel 1974 – dopo il successo planetario di Lolita – che, nel frattempo, nel 1962, era già diventata un film per la regia di Stanley Kubrick).

Da dove nasce il titolo? Da una frase che la balia-insegnante d'inglese soleva rivolgere al piccolo ancora in fasce (o in procinto di fare il suo ingresso nel mondo degli adolescenti):

Smettila di tenere il broncio!”, gridava: “Look at the arlequins! Guarda gli arlecchini!”.
Quali arlecchini? Dove?”.
Oh, dappertutto. Tutt'attorno a te. Gli alberi sono degli arlecchini, le parole sono degli arlecchini; anche le situazioni e le addizioni. Metti assieme due cose – due arguzie, due immagini – ed eccoti un arlecchino triplo. Avanti dunque! Gioca! Inventa il mondo! Inventa la realtà!” (id., pp. 22-23).

Ecco: è in questo imperativo categorico della balia che troviamo parte (non tutto!) dell'essenza della scrittura nabokoviana, qui portata all'ennesima potenza, sviluppata con mille capriole, mille arguzie, mille battute umoristiche e con quello stile prezioso, mai lezioso, elegante, sempre originale che è lo stile di Nabokov...

Guarda gli arlecchini! è il romanzo in cui Nabokov reinventa la sua stessa vita (fino al 1974) e reinventa la realtà, fingendo d'essere un pazzo furioso che ama le donne, si sposa tre volte, per tre volte le tradisce e coltiva la passione lussuriosa dell'amore per le ninfette... oltre alla passione smodata per la letteratura, la sua, quella che non rispetta le leggi della verosimiglianza (“la verosimiglianza è stata la rovina di molti correttori di bozze scrupolosi” commenta a un certo punto a p. 136 in una parentesi) e che tenta costantemente di guardare oltre la superficie, di coltivare il dettaglio (il “divino dettaglio”) e di stimolare costantemente l'intelligenza del lettore, al di là della trama, al di là della possibile, potenziale conclusione (Guarda gli arlecchini! non finisce col punto finale, ma ricomincia esattamente nel punto in cui sembra finire per sempre, obbligando il lettore curioso a ripercorrere daccapo la traversata appena conclusa).

Sono moltissime le scene che si potrebbero citare per avallare questa ipotesi; mi limito a citarne soltanto una, perché, a mio modesto giudizio, contiene gran parte di quella magia, di quell'erotismo, di quell'umorismo, di quell'ironia, di quella poesia che rendono unica la scrittura di Nabokov: Vadim è in riva al mare, sta per fare la sua dichiarazione di matrimonio all'ennesima amante, lei è giovane e bella, anche se un po' troppo timida. C'è molto sole, quel giorno, sulla spiaggia. E molta gente nei paraggi. Ecco i due piccioncini... nell'atto di comunicarsi il grande amore (e di farsi promesse che durano una vita):

Iris, devo farti una confessione che riguarda la mia salute mentale”.
Aspetta un momento. Devo abbassare quest'antipatica... fin dove... fin dove la decenza lo consente”.
Eravamo distesi sul pontile, io supino e lei prona. Si era strappata via la cuffia e lottava con le spalline del costume da bagno umido per abbassarle ed esporre al sole l'intera schiena nuda; una lotta supplementare si stava svolgendo sul lato sinistro, in prossimità dell'ascella tenebrosa, nel vano tentativo di non mostrare il candore di un piccolo seno là dov'era la delicata giunzione con le costole. Non appena ebbe raggiunto, a forza di contorsioni, uno stato di decoro soddisfacente, si sollevò a mezzo busto trattenendo contro il busto il corpetto nero, mentre con l'altra mano frugava nella borsa con quell'agilità deliziosa, simile alle grattatine fra scimmie, tipica delle ragazze quando cercano qualcosa a tastoni [...]” (id., p. 54).

Ecco. Immaginate il biancore di quel piccolo seno; immaginate il movimento flessuoso del corpo di quella ragazza in riva al mare. E immaginate l'amore, la passione, l'eros che sprizza dagli occhi del ragazzo che le è accanto e che, tra poco, le chiederà se vuole sposarlo... a dispetto delle malelingue, e della malattia mentale che non gli permette di avere un buon rapporto con lo spazio... Immaginatevi la scena... E' facile, si può fare, quando a scrivere è uno come Nabokov...

Guardate gli arlecchini! è un romanzo sulla possibilità che abbiamo tutti di reinventarci la realtà attraverso la scrittura e la letteratura; è un romanzo su chi ancora si stupisce a collegare due o più parole anche distanti anni luce tra di loro e che, attraverso questo collegamento casuale, riesce a scoprire la bellezza dietro la bruttezza o la piattezza della vita di tutti i giorni; è un romanzo sulla tragicità della vita umana (“la morte è stupida, la morte è degradante” si dice a p. 264, verso la conclusione del libro) e sulla comicità insita nel nostro tentativo costante di renderla meno brutta... E' un romanzo che ci fa immergere completamente nel mondo pieno di arlecchini di quel burattinaio folle che fu Vladimir Nabokov... Ed è un romanzo che, una volta letto, spinge alla rilettura, perché si è vagamente coscienti del fatto che qualcosa di prezioso, di decisivo, ci è sfuggito, che dobbiamo stare attenti, e aprire bene gli occhi, se vogliano riconoscere i mille arlecchini che ci danzano attorno... Insomma, è un altro grande capolavoro targato V.N....

miércoles, octubre 03, 2012


L’amore molesto, di Elena Ferrante: l’amore è (sempre) molesto, quando non si fanno i conti col passato



Ma che bel romanzo, questo romanzo! Ma che libro coinvolgente, che scrittura cristallina si respira ne L’amore molesto della misteriosa (perché forse pseudonimo dietro cui si celerebbe un autore maschile e perché di “lei” non si hanno foto) Elena Ferrante, esordiente dalle doti già ben evidenti sin da questa prima prova letteraria (Roma, e/o, 1996 – ma la prima ed. risale addirittura al 1992).
L’amore molesto ci parla di un tema antico come il mondo (greco-romano, da cui deriviamo): il contrasto, la lotta sotterranea e a volte esplicita, la competizione subdola e a volte implicita, le molteplici e assurde incomprensioni, la guerra giornaliera tra una madre (Amalia) e una figlia (Delia). L’una (Delia) viene a sapere della morte dell’altra (Amalia): Amalia è affogata mentre faceva un bagno nuda (o semi-nuda – è stata ritrovata con addosso soltanto il reggiseno), di notte, in un tratto di mare poco lontano da Minturno, in un luogo che si chiama poeticamente “Spaccavento”. Delia decide di tornare a Napoli, di abbandonare temporaneamente Roma, per andare a parlare coi pochi parenti che le sono rimasti (lo zio Filippo, la vicina di casa e amica della madre la signora De Riso, un vecchio amante e forse complice di Amalia che risponde al nome di Caserta) e toccare con mano quel passato che, invano, ha tentato di reprimere o di ignorare fino a quel momento della sua vita di adulta.

Delia torna a Napoli per fare i conti con il passato che ritorna e con quello strano sentimento d’amore e odio che l’ha (da sempre) legata ad Amalia. E il lettore ne segue i ragionamenti oscillanti, le passeggiate inquisitive, gli incubi ricorrenti con empatia e interesse… L’amore molesto potrebbe essere scambiato anche per un romanzo giallo, di fatto, qui sì che c’è (o ci potrebbe essere?) un colpevole (o un assassino?) e un testimone che sa e che potrebbe fare luce su quell’incidente (o morte) per acqua…

Due sono le cose che colpiscono di più: a) la descrizione di Napoli, città magica e spettrale, una specie di Macondo pericolosa e piena di minacce, trasfigurata e disegnata come se fosse un acquarello sbiadito di tanti anni fa, o inquadrata come se si trattasse del set di un film iperrealistico (e non è un caso che uno come Mario Martone decise a suo tempo di trarne l’omonimo film con una splendida Licia Maglietta nel ruolo di Amalia da giovane e una bravissima Anna Bonaiuto in quello della protagonista – il film è del 1995, se non erro, ed io lo vidi quando ancora esisteva “Tele+”); b) lo stile peculiare, sinuoso, fascinoso, a tratti surrealista, che adotta l’autrice (diamo per buono che sia una donna – sul mistero legato ad Elena Ferrante cfr. anche Domenico Starnone, Autobiografia erotica di Aristide Gambìa, Torino, Einaudi, 2011 – di cui ho parlato in queste stesse pagine di diario di bordo).

Mi soffermo sul punto b) perché su Napoli sarebbero davvero tante, troppe, le cose da dire. Lo stile della Ferrante, dunque… Uno stile che è fatto di precisione millimetrica nel rappresentare gli oggetti della realtà quotidiana e di andamento lirico, quasi “proustiano”, nella rievocazione di quella realtà… Come quando Delia entra in casa della madre e pensa che il fantasma della stessa aleggi ancora nell’aria, tra le mura e le lenzuola delle stanze che sanno di chiuso… E si accorge che cola acqua dal rubinetto, una goccia (lenta) dopo l’altra… E si ricorda di quanto Amalia ci tenesse a risparmiare su tutto, sul pane (che non si butta mai) e sull’acqua (che non si può sprecare):

 “Usava l’acqua con una parsimonia che si era trasformata in riflesso del gesto, dell’orecchio, della voce. Se da ragazza lasciavo anche solo un silenzioso filo d’acqua, teso verso il fondo del lavandino come un ferro da calza, un attimo dopo mi gridava senza rimprovero: “Dalia, il rubinetto”. Mi sentii inquieta: aveva sprecato più acqua con quella distrazione delle ultime ore di vita, che in tutta la sua esistenza” (id., p. 28).

E già qui uno si alza in piedi e farebbe un applauso all’autrice. Ma il periodo continua con la frase seguente:

“La vidi galleggiare a faccia in giù, sospesa al centro della cucina, sullo sfondo delle maioliche azzurre”.

E qui uno si risiede, mezzo tramortito, e pensa che la Ferrante si meriterà tutta la nostra attenzione fino al finale (si spera) risolutore…

Il romanzo è attraversato in lungo e in largo (dalla prima all’ultimissima riga) da una costante oscillazione armonica tra passato e presente; potrei citare le mille immagini che evocano nel pensiero di Delia i tessuti che Amalia confezionava per i vestiti di clienti più o meno facoltosi e più o meno attratti sessualmente da lei…

Il romanzo è “proustiano” proprio perché s’impegna (e s’ingegna) a riflettere su questo enigma insolubile che è il tempo (insolubile perché – finché siamo in vita – ci siamo immersi – come Amalia nell’acqua di Spaccavento).

Il romanzo fa riflettere sul tempo perché ci colpisce con frasi come queste:

“Quante cose attraversano il tempo staccandosi fortunosamente dai corpi e dalle voci delle persone” (id., p. 93)

“L’infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all’imperfetto” (p. 165)

“Dire è incatenare tempi e spazi perduti” (p. 169).

E a uno non può non venire in mente Marcel Proust, che col suo “dire” non solo riesce a incatenare tempi e spazi perduti, ma anche a resuscitare il tempo (passato) che fu, con la memoria involontaria (anche se l’oblio ha una funzione altrettanto importante, rispetto al “ricordare”).

E uno allora capisce anche questo: che Elena Ferrante ci insegna che l’amore è (sarà sempre) molesto, fino a quando non si fanno i conti con il passato, fino a quando non ci si riappacifica con quello che siamo stati e con quello che abbiamo fatto…

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...