miércoles, diciembre 26, 2012


STORIA DI NESSUNO, OVVERO: PERCHE’ DYLAN DOG E’ UN CLASSICO


Un vecchio con la barba incolta e i capelli arruffati, vestito di stracci, e intirizzito dal freddo, cammina lentamente sotto una placida nevicata. Arrivato di fronte a un cancello, lo apre: è l’ingresso di un cimitero. Il vecchio, per tentare di scaldarsi, si inoltra lungo il sentiero che lo porta a una cappella. Si siede per terra, davanti ad una cassa da morto. E qui succede l’imprevisto, nella realtà del vecchio subentra ciò che Freud definirebbe come “il perturbante”: il coperchio della bara si solleva lentamente, è Nessuno (il protagonista della storia) a tornare in vita dal mondo dei morti e che, con il suo ritorno, provoca l’infarto del vecchio barbone.

E’ così che si apre uno degli albi “storici” (e “mitici”) di Dylan Dog, il n. 43, ovvero “Storia di Nessuno” (con la maiuscola), perché Nessuno è tutti noi e tutti noi possiamo riconoscerci (o rispecchiarci) nelle ansie, nelle paure, nei dubbi e nelle speranze di quest’uomo qualunque talmente “qualunque” da avere il nome che Ulisse adottò per sventare alle grinfie di Polifemo, Nessuno, appunto (e già qui c’è un tacito rimando al Pirandello di Uno, nessuno e centomila). Ecco, questo è uno dei motivi per cui sono ancora affascinato da Dylan Dog, un fumetto citazionista (come pochi altri in Italia) le cui storie vanno avanti a forza di citazioni (ed è per lo stesso motivo che Umberto Eco, in una storica – e anch’essa “mitica” – intervista con il creatore dell’ “indagatore dell’incubo”, Tiziano Sclavi, lo definì come “opera smontabile”, proprio perché costruita su più livelli di lettura e perché  “aperta” alle più disparate contaminazioni – in gergo tecnico, per Dylan Dog si può certamente parlare di “intertestualità” di stampo “postmodernista”).

Ma torniamo al nostro amico Nessuno. Non ricorda da dove viene e non sa dove deve andare. Fino a quando non ripete (come in un mantra) una specie di filastrocca: “Sono nato, mi sono laureato, ho trovato un lavoro, mi sono sposato, sono morto, e poi?” (da notare bene: la filastrocca verrà ripetuta anche alla fine, ma con i verbi al futuro: “Nascerò, mi laureerò, troverò un lavoro, mi sposerò, morirò, e poi?” – cito non verbatim, ma la sostanza è questa). E ripetendosi queste frasi si trova a bussare al portone di quella che era la sua casa: la moglie, spaventatissima, ci resta malissimo, non sa che farsene di un marito redivivo, anche perché, la brava donna non ha perso tempo (e si è rifatta una vita con il suo amante “storico”, oltre che miglior amico del defunto).



Cosa fare se tornassero dall’al di là i nostri cari? Dove potremmo sistemarli? Come influenzerebbero la nostra vita quotidiana? Sono queste le domande che suscitano le vignette in cui vediamo la moglie di Nessuno alle prese con chi è davvero (ontologicamente) “nessuno” (ovvero, con chi è diventato un cadavere e un nome stampato su una lapide del cimitero). Qui Sclavi potrebbe stare strizzando l’occhio a Balzac e al suo racconto lungo (o romanzo breve) Le colonel Chabert (in cui si narra di un ufficiale dell’esercito napoleonico dato per morto in battaglia e che, invece, riesce a farla franca: peccato che, quando tornerà “alla vita”, ancora innamorato di sua moglie, troverà questa tra le braccia di un altro, un conte, un uomo della nobiltà dal quale ha avuto già due figli), oppure al già citato Luigi Pirandello (e all’altro suo romanzo di “de-formazione”, Il Fu Mattia Pascal – quando tutti ti credono morto, diventi letteralmente “uno, nessuno e centomila”, o puoi adottare il nome di un altro – o auto-nominarti “Nessuno”).

Ecco, è in queste scene, quando interviene perfino l’amante, che consiglia al “ritornante” o “morto vivente” di andarsene al cimitero, di tornare lì da dove è venuto, che il lettore si commuove e parteggia per lui. Sta in queste scene la potenza della scrittura (e dell’immaginazione malinconica) di Tiziano Sclavi. E sta in queste pagine la motivazione della mia passione indefessa per un personaggio come Dylan Dog, l’eterno adolescente (“old boy” lo definisce l’ispettore Bloch) che si ferma spesso a riflettere e a mettere per iscritto, sulla scrivania del suo studiolo, accanto al famoso modellino del galeone infinito, su Vita e Morte (Eros e Thanatos), sul significato ultimo dell’esistenza, sui limiti della conoscenza umana, sui perché fondamentali…

E “Storia di Nessuno” è un capolavoro, in tal senso, perché spinge fino alle estreme conseguenze le teorie più moderne, come quella (spiegata in modo anche troppo didascalico dal “cattivo” per eccellenza, il mad doctor Xabaras – forse padre dello stesso Dylan) degli “universi paralleli” per cui: non c’è un solo Nessuno, ma esistono tanti Nessuno quanti sono i mondi che la mente di un altro può sognare o plasmare; non c’è un solo Dylan, astemio, che non fuma, che vive a Londra, a Craven Road, e suona il clarinetto, e non riesce mai a finire il galeone, e vive insieme all’assistente Groucho – sparabattute che in questo albo si supera – ma anche un Dylan dedito al whiskey, che fuma e suona il sax e ha già finito quel benedetto modellino…

Si sa, però, che un fumetto – per quanto “filosofico” voglia essere – deve basarsi sulle immagini; i fumetti sono come film muti e il disegno gioca il ruolo principale. In “Storia di Nessuno” troviamo all’opera Angelo Stano che, a mio modesto parere, è uno dei disegnatori più bravi della serie (oltre che l’autore di tutte le copertine ultime di Dylan Dog). E a proposito dei disegni, è davvero notevole la capacità che ha il fumettista di trasportarci in un’altra dimensione; oltre che di “spostarci” da un mondo all’altro, nel giro di un paio di tavole. La teoria della relatività einsteniana e quella dei “multiversi” viene qui resa visivamente con una serie di salti spaziali e temporali che possono certamente disorientare, ma che riescono anche ad affascinare il lettore, catapultato in una serie di abissi, o voragini, di cui non si riesce a vedere la fine…

In una bella intervista reperibile su YouTube, Tiziano Sclavi dice che “Storia di Nessuno” è un albo folle, che non saprebbe riscriverlo nello stesso modo e che, ancora oggi, non sa bene cosa avesse voluto dirci con questa storia…

Io sostengo che se Dylan Dog rimarrà nella storia del fumetto italiano (ed europeo) è anche grazie a storie come questa, in cui perdersi è un piacere, per gli occhi e per la mente.

P.S.: in questo albo, e a proposito di vertigini visive, c'è uno degli "zoom" all'indietro più vasti della storia del fumetto (credo): dalla stanza in cui chiacchierano Xabaras e Dylan Dog, a Londra, alla visuale panoramica dall'alto dell'Europa, per poi allargarsi ancora di più, salire ancora più alto, fino a contemplare il sistema solare e la Via Lattea... (nemmeno Stanley Kubrick ha osato tanto in 2001: A Space Odissey).

sábado, diciembre 22, 2012

E' Natale e siamo tutti più buoni... (io non direi)




E così, senza quasi accorgercene, non solo il mondo non è finito, come invece prevedeva la famosa profezia dei Maya, ma tutti insieme siamo arrivati alle soglie di un altro Natale, e lo si sa, ormai, è una sorta di ritornello, a Natale siamo tutti più buoni.

Se c'è però una cosa che mi urta i nervi è proprio il buonismo e l'ipocrita atmosfera da "volemose bene" legati a questa festività. Io personalmente mi dissocio e ne approfitto sempre per peccare il più possibile, per trattare male i familiari, per andare, un minimo, in controtendenza (forse ha ragione quella cara amica - e collega - che sostiene che io sia "anarchico dentro").

E così, anche quest'anno, in questi ultimi giorni dell'anno, approfitterò delle meritate vacanze natalizie per isolarmi dal mondo esterno, prendere a parolacce tutti i consenguinei che si azzarderanno ad invitarmi a giocare a carte o a tombola a casa loro, per peccare di lussuria nei modi più strambi e arzigogolati possibili, per spegnere la tv ogni volta che vi farà la sua apparizione Benedetto XVI e per riguardarmi i migliori film horror, gore, splatter e porno della stagione (Annette Schwartz, oh, Annette Schwartz, che mattacchiona che è questa attrice-regista tedesca che ne sa davvero una più del diavolo; vorrei scrivere un racconto su Annette, ma come si fa? Bisognerebbe avere la stessa fervida immaginazione di James Joyce quando inviava le sue lettere "erotiche" a sua moglie, povera Nora Barnacle, cosa ha dovuto sopportare in vita, quella porella...).

E non me ne frega niente dei regali. Non ne farò né mi farà piacere riceverli. Tanto, a che servono? Solo a occupare spazio (a meno che uno non si fa furbo e li ricicla al volo).

Gli unici parenti che andrò a visitare saranno i miei nonni; sono perfetti se uno vuole suicidarsi o pensare al peggio, hanno il dono di trasmetterti l'ansia, la paura e l'angoscia esistenziale, sono dei maestri in quanto a pessimismo cosmico ("non c'è nemmeno una notizia buona da darti, caro mio", questo fu il prologo del discorso di mio nonno il Natale scorso - e mia nonna, giusto per rincarare la dose: "Io quando mangio penso sempre a voi, voi ce la fate a mangiare? Ci arrivate a fine mese con quel poco che guadagnate? Ah, che sacrifici! Ah!").

E poi spegnerò la luce e resterò a lume di candele fino a notte fonda a leggermi i diari di John Cheever (Una specie di solitudine - Milano, Feltrinelli, 2012 - contiene pagine memorabili, notevoli, sorprendenti, davvero liriche su chi siamo, su Roma, su come ci percepiscono gli americani, sul matrimonio, sui rapporti sentimentali in generale, sui figli, sull'amore, sulla follia, sull'alcolismo, sulla bellezza) e a domandarmi anch'io, con lui, se la solitudine non sia, in fondo, l'unica condizione che ci permette di ascoltarci, e di capire chi siamo, e di trarne le dovute conclusioni: nasciamo soli, moriamo soli.

E' Natale, sì, e siamo tutti più buoni... certo, come no...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...