miércoles, enero 25, 2012


Qualcuno mi legge (e non sono le solite 3 o 4 lettrici di vecchia data)




Non sono un informatico, né un esperto di computer; se qualcuno mi chiede di preparare una presentazione in power point, vado in crisi e inizio a sudare freddo (è successo, in passato, anche per convegni e congressi in varie Università italiane e straniere); se qualcun altro mi chiede d’introdurre una piccola didascalia sotto a una foto inserita come immagine all’interno di un documento word, mi viene l’ansia e l’emicrania. Però mi piace smanettare, cercare di vedere come funziona il giocattolo (mi piace sfruttare le funzionalità che dà un profilo su YouTube, ho ceduto a Facebook, sto imparando ad usare Twitter, m’interessa Linkedin, etc. etc.)… E così, inavvertitamente, improvvisamente, m’accorgo che questo blog è dotato della funzione che permette di vedere in diretta quanti utenti hanno letto questo o quel post, quante pagine sono state visualizzate nell’arco della giornata, o della settimana, o del mese… “Statistiche” che rivelano matematicamente quante volte qualcuno ha letto qualcosa dentro il tuo blog… E la cosa mi ha lasciato di stucco, perché, se i calcoli automatici che fa “blogger” non sono errati, allora vuol dire che, da quando ho messo online questo “diario”, le pagine viste sono state 11.376, di cui 698 visitate nell’ultimo mese, 21 viste ieri, 18 viste oggi (fino a ora)…

Ma allora non mi leggono solo le 3 o 4 lettrici affezionate e amiche di vecchia data! Ma allora qui c’è gente che legge e che io non conosco! Ma allora è tutta un’altra storia!

Ora, la domanda è: può questo dato, può questa informazione, influenzarmi e modificare il mio modo di intendere questo blog? Può la coscienza d’avere un pubblico che non credevo affatto di avere influenzare il modo in cui scrivo? Certamente no. Però lo confesso: mi fa uno strano effetto vedere quanti individui passano di qui per leggere (o magari neanche leggono, magari s’incuriosiscono solo per il titolo del post in questione e poi smettono e vanno da un’altra parte). Curiosare: lo faccio anch’io, nei blog degli altri, perché sorprendersi, perché restare a bocca aperta? Forse solo perché pensavo davvero di essere in buona e piccola compagnia; m’illudevo davvero che ci fossero solo gli happy few, come si suol dire…E invece mi sa che siamo in un gruppetto o comitiva più folta. Ma va bene lo stesso. Sono democratico e liberale: chiunque voglia passare e leggere è liberissimo di farlo; anzi, è liberrimo, in questo “diario” di bordo di “borderline”…

P.S.: se faccio una rapida ricerca su Google trovo perfino qualcuna che mi cita in un forum in cui si parla di Arte e Psichiatria! E i post più letti e apprezzati sembrano essere quelli che ho scritto sui film visti al cinema o rivisti dopo anni su internet o in dvd…(e c’è pure qualche altro blogger che mi cita sotto forma di “recensione” – il post su Fiorello e lo show più bello, ad es.: “Per approfondire consulta la fonte: Diariodiborderline)…

lunes, enero 16, 2012


Siamo spiacenti, l’editore è morto 


Non ricordo se era Sandro Veronesi a raccontare che una volta suo fratello gli raccontò di una donna che, tentando il suicidio, si gettò dal terzo piano per atterrare sul cofano della macchina del povero Giovanni (il regista e fratello dello scrittore) e, quindi, distruggergli quasi l’auto senza farsi danni seri (l’aspirante suicida finì all’ospedale, ovviamente, ma se la cavò, dopo non so più quanti giorni di degenza).
O forse è solo un ricordo inventato (da me o da Sandro Veronesi o che io attribuisco – e, direi anche, mi ostino ad attribuire – a Sandro Veronesi quando invece, e nella realtà, non è mai accaduto un incidente simile né qualcosa che gli si possa anche lontanamente associare o somigliare). E comunque, checché se ne dica, la vita è piena di racconti strani, o meglio: di racconti di fatti strani, di eventi che non si spiegano o che, quando ce li raccontano, restiamo a bocca aperta, per poi esclamare: “Ma no! Non ci credo! Non è possibile!”.

A me è capitato qualcosa di simile qualche giorno fa, mentre ero intento a cercare disperatamente un editore che si degnasse di pubblicare il mio primo saggio di critica letteraria (il terzo libro che porta il mio nome e cognome reali in copertina, se includo nella lista le due traduzioni che pubblicai qualche tempo fa per un’importante casa editrice pisana). Il mondo dell’editoria sta male e non lo dico perché io meriti di essere pubblicato e gli altri no, né per partito preso, né per vittimismo, dunque. Ma insomma: c’è gente assurda che dà risposte assurde, tipo quella che mi scrive: “Ci dispiace, il suo saggio non ha abbastanza appeal e sarebbe difficilmente spendibile sul mercato”, come se un saggio dovesse avere le stesse doti di un prodotto come una pomata contro la cellulite o un telefonino, come se davvero la bontà di uno scritto di tipo critico si misurasse con lo stesso metro che serve per vendere dei vestiti firmati o delle auto di grossa cilindrata (il mercato: parola-chiave per capire che l’industria culturale non è un’entelechia, esiste ed è sempre stata un ossimoro, checché ne dicano gli umanisti più à la page o avanguardisti – ma l’avanguardia è solo apparente, temo).
E poi c’è l’editore onesto che ti scrive in prima persona personale e ti dice sinceramente che sì, il saggio è molto bello, è ben scritto, ci ha dato un’occhiata veloce, ma non rientra, purtroppo, nella loro linea editoriale (anche su questo sintagma ci sarebbe molto da dire, “linea editoriale”, come “linea autunno-inverno”, come “linea sportiva” o “linea per la notte”… o “per lui” o “per lei” e via discorrendo…).

E poi accade l’incredibile: una segretaria di una casa editrice minore della provincia di Salerno mi scrive con tono commosso e contrito spiegandomi la loro nuova situazione: “Siamo spiacenti, professore, ma in questo momento non possiamo sottoporre il suo libro all’attenzione del nostro caro editore: l’editore è morto, è venuto a mancare la scorsa settimana, siamo ancora tutti molto scossi, ci scusi tanto”. E uno rimane di sasso e non sa come rispondere e se è il caso di rispondere, a me non è mai capitata una cosa del genere e dubito che si possano dare le condoglianze via email, io nemmeno lo conoscevo questo signore, questo editore di una piccola casa editrice salernitana, che pubblica libri di viaggi, romanzi d’avventura e qualche dignitoso saggio di letteratura e filosofia (oltre che di storia delle letteratura e storia della filosofia). Chi era costui? Com’è morto? Ha senso dare le condoglianze, ora che ne sono venuto a conoscenza?

E allora smetto di cercare un editore per il mio primo saggio di critica letteraria e vado dal mio dermatologo, un tipo in gamba, un dottore molto gentile e disponibile, colto ed elegante, uno che ama leggere Dostoevskj e Tolstoj, uno che conosce perfino Walter Benjamin. E così parliamo del più e del meno e gli racconto dell’editore morto e della segretaria sconvolta dalla triste notizia che mi scrive quell’email con tono contrito. E allora il mio dermatologo ride e mi racconta un aneddoto simile, capitato a sua moglie, una donna sulla quarantina già laureata in Economia e Commercio e che, non contenta, ha voluto prendersi anche una seconda laurea, nella sua materia prediletta: Teologia (un bel salto, non c’è che dire). E insomma, sua moglie si mette d’impegno a scrivere una tesi sulla Chiesa e sulle ingiustizie commesse dalla Santa Inquisizione, sul concetto di libertà individuale e schiavitù sociale (o una roba del genere), trova anche il relatore, un giovane prete sulla trentina, una persona molto seria e studiosa, forse uno che fa ricerca, e insomma, si avvicina il momento di spedire la versione definitiva della tesi, il giovane sacerdote tergiversa, da Giugno la rimanda a Settembre, per effettuare le correzioni in tutta calma, e a Settembre la santa donna richiama l’Università e il presidente del corso di laurea in Teologia le dice che gli dispiace, il suo relatore, il giovane prete studioso, “non è più dei nostri”; ha smesso i panni da curato e ha abbondonato la retta via, rinunciando ai voti…

Morale della favola: non sai mai quale assurdità ti può capitare, anche perché l’assurdità è ingrediente quotidiano di questo ammasso di fatti, persone e ricordi strambi che è la vita… 

domingo, enero 08, 2012


KARL SCHLÖGEL, LEGGERE IL TEMPO NELLO SPAZIO. SAGGI DI STORIA E GEOPOLITICA (2003), Milano, Bruno Mondadori, 2009






Ecco uno di quei saggi che si leggono con piacere e con trasporto, mai appesantiti da un eccesso d’erudizione e scritti con stile garbato verso il profano (il lettore che, ad es., e come me in questo caso, non sa un’acca di geopolitica)…

Che l’essere umano tenda – per convenzione, per abitudine secolare e per maggiore facilità di comprensione – a spazializzare il tempo è un dato di fatto che sappiamo sin dai tempi di Aristotele… Che lo spazio determini inevitabilmente e, a volte, “fatalmente”, il nostro destino è, invece, qualcosa che ho scoperto leggendo proprio Schlögel, studioso tedesco di geopolitica e storico del paesaggio (o dello spazio), come potremmo definirlo a lettura terminata di questo Leggere il tempo nello spazio. L’autore ci fa scoprire come, ad esempio e durante gli anni della guerra balcanica, moltissimi cittadini di Sarajevo (durante l’assedio della capitale iniziato nel 1992 e finito solo nel 96) diventarono esperti in “topografia urbana e ricognizione del territorio” (id., p. 40): dovevi saper individuare al volo i posti più sicuri, i bunker o le trincee più nascoste, se volevi salvare la pelle. Sottopassaggi, tunnel e nascondigli sia naturali che urbani divennero spazi strategici per buona parte della popolazione, se si voleva stare lontani dalle bombe e dalle mitragliatrici dei cecchini nemici…

Lo spazio determina la nostra vita (vivere è anche questo: abitare spazi, in modo costante e continuo, anche se non ce ne rendiamo conto). E’ quanto succede leggendo l’indirizzario (o elenco telefonico o Pagine Gialle attuali): in uno dei capitoli più affascinanti, Schlögel ci mostra come sia possibile ri-scrivere la storia della Germania moderna e contemporanea leggendo attentamente i vari indirizzari della Berlino degli anni 30 e 40: un conto era l’indirizzario del 1932, dove prevalevano determinate attività e professioni tra gli abitanti della capitale, e un conto molto diverso leggere l’elenco del 1933, quando Hitler è già salito al potere e il Nazismo si appresta a diventare l’unica religione di Stato. Dall’indirizzario del 1940, quando ormai ci si avvia verso la fine della guerra, non ci sono più gli ebrei o comunque, se non scompaiono del tutto, il loro numero e le loro attività commerciali si sono ridotte moltissimo; se prima prevalgono certe attività – birrai, macellai, calzolai – ora, dopo la guerra, prevalgono le attività di ricostruzione post-bellica – ricoveri, centri assistenza, centri per la ricostruzione, una mappa precisa della desolazione e del desiderio di ripartire verso un mondo migliore e una società più civile…

La situazione cambia di nuovo negli anni della Guerra Fredda e della contrapposizione tra i due blocchi (USA e Occidente da un lato, URSS e mondo “orientale” dall’altro). Come osserva acutamente e prontamente l’autore, la vita degli individui dipenderà dallo spazio in cui si nasce e si cresce: a seconda che si viva da un lato o dall’altro della linea divisoria che spartisce in due blocchi il mondo, la vita prenderà (o potrà prendere) un percorso ben preciso ed è per questo che: “L’indirizzo divenne un destino decisivo per le prospettive di vita, per gli studi, per quello che si sarebbe o non si sarebbe diventati” (p. 143). 

Pensiamo poi a quelli che, di mestiere, faranno le spie: in quei casi, la missione impossibile consisterà proprio in questo: abitare spazi “altri”, mescolarsi con il nemico, fingendosi “indigeni” e persone del posto…

Bellissimo, in tal senso, il cap. intitolato “Biografia, curriculum vitae”: è qui che lo storico ci fa capire come il curriculum altro non sia che lo schema o riassunto sintetico di quali luoghi abbiamo abitato in quel determinato momento della nostra esistenza. Il curriculum segnala gli spazi via via occupati prima di arrivare ad occupare la posizione che abitiamo nel presente. E ci dice che la vita (umana) è fatta di frecce, percorsi, movimenti da una città all’altra, da un luogo ad un altro, in nome dei nostri desideri, dei sogni, delle predisposizioni, dei “mestieri” per i quali ci siamo sentiti pronti e portati… oltre che, ahinoi, di false partenze e falsi approdi, di spostamenti inconsulti e di fughe disperate (pensiamo, ancora una volta, a come dovettero percepire l’Europa gli esuli ebrei scampati ai campi di concentramento – Primo Levi docet – o tutti quegli altri cittadini obbligati a lasciare le proprie case per cercare di rifarsi una vita all’estero o, attraversando l’Oceano, in America…).

“ ‘Di regola’ la vita procede ‘su binari regolari’. In periodi di catastrofe la vita deraglia.” (p. 166). E’ vero, e queste stesse espressioni ci spiegano meglio di qualsiasi trattato filosofico di come la “spazializzazione del tempo” sia consustanziata al nostro modo di pensare e di ragionare (geometrizziamo l’esistenza, anche quando non ce ne rendiamo conto in maniera conscia – la vita è fatta di alti e bassi; si superano gli ostacoli; ci si rimette in moto; si corrono rischi; si arriva in porto).

Schlögel ha anche un altro dono (o merito), che non tutti gli studiosi hanno: quello della sintesi. Come in questa frase lapidaria, che spiega la differenza tra democrazia e dittatura sulla base dell’aspetto che assumono i marciapiedi o le strade delle città: “Le dittature hanno le strade pulite, le democrazie in genere no” (p. 183). 

Ecco, allora, come e perché leggere il tempo nello spazio aiuta a renderci più consapevoli: di chi siamo, di cosa abbiamo fatto in passato (la cosiddetta Storia), di cosa potremmo diventare in futuro (con internet e l’abbattimento delle distanze spaziali tramite le realtà virtuali messe in piedi dalla rete, con tutti quegli stravolgimenti che la cosiddetta globalizzazione sta creando poco a poco sotto i nostri stessi occhi).

viernes, enero 06, 2012


Gli esordi di Antonio Moresco: percorrere strade interrotte, chiuse, infinite o soltanto intraviste


Ho adorato Lettere a nessuno (Torino, Einaudi, 2008); mi sono esaltato e sono rimasto scioccato dai Canti del caos (Milano, Mondadori, 2009); avevo proprio voglia di scoprire Gli esordi  (una prima versione apparve per Feltrinelli nel 1998; questa seconda versione è stata sottoposta a nuova revisione da parte dell’autore prima di venire pubblicata da Mondadori nel Settembre del 2011).  A primo impatto posso dire che Antonio Moresco non delude mai, soprattutto quei suoi lettori affezionati che, pur di seguirne gli andirivieni narrativi, le invenzioni più visionarie, le descrizioni più strambe, sono disposti a perdonargli qualche ripetizione di troppo, così come qualche neologismo che stona o suona male. Ma proviamo ad illustrare i contenuti di questo romanzo, diviso in 3 parti (o “scene”: si parte con quella “del silenzio”, si prosegue con quella “della storia”, per finire con quella “della festa”) e scritto con lo stile peculiare di Moresco per un totale di 647 pagine…

La “Scena del silenzio” ci presenta un narratore in prima persona intento a sviscerare lo strano mondo chiuso e, a tratti, claustrofobico di un convento. E’ questa la sezione in cui il narratore adotta con maggiore frequenza la tecnica dell’ellissi: taglia scene intere o sottace interi dialoghi, ci sottrare la verità per spingerci a farci detective o investigatori dell’oscura trama che sembra svilupparsi sotto gli occhi del giovane aspirante prete… Il convento diventa il micro-cosmo angosciante da cui osservare il macro-cosmo; il convento è una specie di buco nero in cui è finito (quasi senza esserne cosciente) un narratore che dice “io” e che cerca di capire fino in fondo chi è, chi sono gli altri e qual è la vera ragione per cui si trova lì dentro… La città (contemplata spesso di notte e vista come un mondo scintillante o luminoso) è percepita come il mondo degli altri, delle persone normali; il convento (con i suoi orari fissi e stabiliti dal succedersi delle preghiere da recitare in modo meccanico ad ogni determinato momento della giornata) è, invece, il mondo che non si riesce a fare proprio, un mondo freddo e pericoloso, pieno di gente strana, come il Gatto, un viscido e inquietante superiore che sottrare carta e penna al giovane narratore intento a scrivere ciò che gli  succede. Il Gatto: una delle invenzioni più perturbanti di Antonio Moresco (e che ritroveremo sia nella terza parte de Gli esordi – nelle nuove vesti di un editore – sia nei Canti del caos – dove, addirittura, si mette in testa di svendere il mondo e d’inventarsi all’uopo la pubblicità più efficace e grandiosa mai pensata prima).
Insieme al Gatto, faremo la conoscenza dello Ziò (un paralitico che passa il tempo a sparare o a sognare di sparare agli uccelli e ai conigli) e la Pesca (una specie di fata turchina affascinante).
E’ già da questa prima parte che l’autore dà mostra del suo stile indescrivibile: a volte fa pensare a Lucrezio, quando si concentra microscopicamente sull’osservazione di dettagli naturali piccolissimi e apparentemente insignificanti, ma che diventano enormi, giganteschi, paurosamente incalcolabili, se rapportati (come nell’esempio che cito qui) ai movimenti planetari della Terra nei confronti del Sole:

“Sul tronco di un grande albero borchiato migliaia di dischetti luminosi lanciavano riflessi tutt’intorno, parevano accendersi e spegnersi e pullulare in zone della corteccia sempre differenti, aumentavano e diminuivano d’intensità registrando ogni minima mutazione d’angolo dei raggi solari per la rotazione incessante della Terra nello spazio” (p. 75).

Più spesso l’attenzione è tutta concentrata verso tutto ciò che ci risulta brutto, macabro o ributtante. E’ in casi come questi che Moresco mostra una strana attrazione verso quello che potremmo definire come “gusto del grottesco”; un esempio tra tanti: il brano in cui un personaggio ferisce a morte un gatto e il narratore descrive come non si riesca a spezzare una zampetta dell’animale:

“La zampetta era stata spezzata quasi del tutto, ma un unico tendine la teneva ancora tenacemente attaccata al resto del corpo, come un filo.
Provai a tirare due o tre volte, ma il tendine sembrava allungarsi sempre più senza spezzarsi, scivolava e brillava come la corda lucente di un violino. Provai a sfregarlo contro la dentatura di una sega da legno, […]. Emetteva una nota stridente, prolungata, che si diffondeva piano piano attraverso tutto il parco” (p. 114).

Stessa cosa per i conigli (e qui rasentiamo il “pulp”):

“Vedevo da lontano i loro corpicini scuoiati, i loro stivaletti di pelliccia ancora infilati alle zampette” (p. 154).

Questa attenzione agli animali (o tendenza a descrivere grottescamente l’animalità insita nell’essere umano) è presente anche in brani più filosofici o dal carattere aforistico (c’è da dire che a tratti Moresco pecca di retoricismo, o eccesso di retorica, come qui):

“Non più parlare e neppure essere parlati, ma scorrere semplicemente altrove, ma in un altrove che non si possa neanche più chiamare altrove, e lasciare dietro di sé un nulla che a qualcuno possa apparire come la coda della lucertola che fugge…” (p. 191).

E’ anche questa la sezione del romanzo più dura nei confronti del tema della fede e della religione. Il narratore legge la Bibbia o sembra ricordare eventi legati a Gesù, ma lo fa a modo suo, rileggendo i brani del Vangelo, come in queste battute (che pur non suonando blasfeme, turbano alquanto):

“Pensavo ad altri mondi…” disse Gesù, che si guardava attorno come assente.
Il suo corpo emanava ancora il profumo di aloe e di mirra della sepoltura.
“Ma che cos’è un sogno di Dio?” provò a chiedere ancora dopo un po’.
L’angelo si era adesso arrestato sul bordo del sepolcro, non si riusciva a distinguere quasi la sua voce.
“Signore, non capisco” sussurrò” (p. 205).
Questa prima sezione si chiude, non a caso, con una domanda: il cap. 17 (e ultimo) s’intitola, di fatti: “Che sia questa la Grazia?”. L’interrogativo resta tale; il convento e i preti che lo gestiscono e che si curano dell’educazione spirituale dei loro seminaristi sembrano piuttosto assumere i tratti del mondo post-apocalittico (o in attesa dell’Apocalisse giovannea).

La seconda sezione, “La scena della storia”, sposta la nostra attenzione su quello che sembra essere lo stesso protagonista e narratore in prima persona, ma in un’epoca diversa della propria vita: ora è un militante (di estrema sinistra?), che fa volantinaggio e comizi per preparare la rivolta collettiva (la Rivoluzione?). Come per il convento, così per la sezione di partito: il narratore si ritrova in uno spazio (un luogo che è anche un simbolo di lotta ideologica) che non riconosce come proprio, dove non vive a proprio agio. E a proposito di luoghi, l’intero secondo capitolo si svolgerà quasi integralmente all’interno di una “macchinina gialla”, un’auto scassata in cui il narratore si ritroverà a guidare insieme agli altri compagni di lotta: l’uomo senza volto, Sonnolenza (che dorme sempre e che fa addormentare gli altri perché noioso e lento), il Gagà, che ha tatuati sul petto la falce e il martello e che va in giro a derubare le mogli dei poveri operai o le vedove rimaste sole in casa. E’ attraverso il Gagà che la Storia con la maiuscola entra all’interno della trama romanzesca: è questo personaggio ambiguo e antipatico, strampalato e stralunato, a citare le sue passate scorribande per la Spagna (dice di avere conosciuto Durruti – il leader degli Anarchici spagnoli – e Rosa Luxemburg, oltre a Lenin stesso).

Ecco un nuovo (ennesimo) esempio di grottesco (stavolta “sonoro”) tipico di Moresco; descrive come il Gagà si taglia le unghie e l’effetto che tale operazione provoca nella stanza in cui riposa:

“Si cominciava a tagliare le unghie dei piedi, schizzavano via calcificate attraverso la stanza, andavano a colpire fragorosamente le pareti, lo specchio, facevano risuonare per qualche istante gli elementi del calorifero prima di piombare sul pavimento” (p. 442).

L’effetto sonoro viene descritto sinestesicamente anche in questo brano (all’apparenza inutile o insulso – in realtà, serve a descriverci bene il senso di solitudine che inizia a provare il protagonista quando si accorge che i suoi compagni sono scomparsi, che non c’è più un piano d’azione ribelle, che non esiste più la sede centrale del partito):

“Sentivo uno di quei lievi rumori che fanno le mentine quando vanno a sbattere infinitamente sottili contro i denti” (p. 502).

La terza sezione, ovvero, “La scena della festa”, è quella che personalmente ho apprezzato di più e ci narra la terza fase della vita di questo ex-prete che non ha mai preso i voti ed ex-militante che non ha mai fatto la rivoluzione… Ci spostiamo a Milano e iniziamo a vivere la vita appartata, nascosta, disperata di questo narratore che ha scritto un romanzo (lo stesso che stiamo  ancora leggendo?) e che aspetta con ansia che l’editore gli dia una risposta e, possibilmente, gli permetta di pubblicare. E’ la sezione più polemica, più critica e più satirica del romanzo: anche quella più pericolosa per la tenuta narrativa del romanzo stesso, perché Moresco rischia di pontificare o di usare la voce narrante del suo personaggio per spiegare in modo fin troppo retorico che quello che sta scrivendo è opera originale, di rottura, libro che farà il vuoto attorno a sé, che cerca di rompere il conformismo in cui annaspa la cosiddetta “industria culturale”.
E’ qui che torna il Gatto, come già ricordato, in veste di editore che lascia sulle spine il povero esordiente (vive da solo in un monolocale nella periferia più triste e squallida della città e passa il tempo al telefono, a parlare con la segretaria dell’editore che è sempre in viaggio, e a contemplare la varia umanità del vicinato).

“Vuoi diventare per caso, come suol dirsi, un caso? Ma c’è già tutto un proletariato di casi, sono tutti già in fila col loro cartellino!” (p. 591) esclama il Gatto rivolgendosi al suo povero scrittore in erba e ancora inedito…

Ecco, è qui, è in casi come questi, è quando riesce anche ad adottare l’ironia (oltre che l’auto-ironia) che Moresco riesce ad evitare il rischio di cadere nella retorica (o nelle frasi smaccatamente costruite ad arte); è quando riesce a non prendersi troppo sul serio che ci cattura… E il finale di questa terza “scena” sarà davvero degno delle aspettative del lettore che, pazientemente, avrà avuto la forza, il coraggio e la volontà di seguirlo fino alla fine (non svelerò qui questo finale; posso anticipare che il lettore si ritroverà davanti gente come Bartleby lo scrivano, Cervantes o Pascal, per non dire di altri… reali e fittizi insieme… tutti mescolati in una festa grandiosa).

Antonio Moresco ci spiega  (in una nota apposta alla nuova edizione: “Come sono nati Gli esordi") che non ha una “visione geometrica” né della letteratura né della vita; questo romanzo lo dimostra ampliamente. A mio modesto parere, Gli esordi sono un tentativo: quello di cercare di ri-scrivere la propria vita in prima persona attraverso il filtro della letteratura (quella migliore e che più azzarda o rischia) e, al contempo, quello di cercare di vedere cosa succede quando si adotta l’imperfetto dell’indicativo per raccontare porzioni anche molto ampie e grosse e complicate della propria esperienza. In definitiva (e in sintesi): con questo romanzo Moresco tenta di usare la letteratura come una sonda per scoprire quello che non credevamo di sapere e sapevamo già, per illustrare e descrivere strade chiuse, interrotte, infinite o solo intraviste (la geometria aiuta, in questi casi, ma non risolve - come solo la letteratura sa fare - tutti i problemi legati alla nostra personale e sempre soggettiva “quadratura del cerchio”).

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