martes, junio 25, 2013

La morte in faccia


Mentre io mi dilettavo di ricerche su James Joyce (e rileggevo a pezzi la monumentale “biografia” di Richard Ellman), mia nonna aveva un infarto senza nemmeno rendersene conto. Quando sono andata a prelevarla da casa sua per catapultarla al Pronto Soccorso mi ha solo detto che sì, che sentiva un leggero pizzicore all’altezza del cuore e che aveva come un capogiro.

Mio nonno ha mantenuto i nervi saldi e quando poi l’infermiere che ci ha accolti è uscito dalla sala dei medici e ci ha chiesto: “Da quando è in queste condizioni?”, ecco, solo allora ho capito la gravità di quello che era successo; in macchina no, perché in macchina mia nonna parlava e io le chiedevo se voleva bere dalla bottiglietta, se voleva che abbassassi il finestrino, se le dava fastidio la musica, se voleva che guidassi più piano…

Col senno di poi è normale (forse quasi “automatico”) tornare a quei secondi, a quei minuti, a quelle ore che hanno preceduto l’incidente che poteva risultare fatale. Uno si ferma e si domanda: cosa sarebbe successo se fossi arrivato con 10 minuti di ritardo? Cosa, se al Pronto Soccorso non avessero capito subito che si trattava di vita o di morte e hanno deciso immediatamente di trasferire mia nonna in elicottero in un ospedale il cui reparto di cardiologia è all’avanguardia, tra quelli esistenti nel Centro Italia…

E poi uno si ferma a riflettere anche su quelle domande, poste per gentilezza, e sugli oggetti o i fenomeni cui quelle domande si riferiscono: vuoi bere un po’ d’acqua? Vuoi un po’ più di aria dal finestrino? Ti da fastidio la musica? Che musica stavo ascoltando mentre mia nonna aveva appena avuto un infarto – senza nemmeno rendersene bene conto – e io correvo all’ospedale? Avrebbe potuto essere l’ultima cosa che mia nonna ascoltava in vita, se i medici non fossero stati bravi a capire che si trattava di un infarto e che poteva risuccedere di lì a poco (arterie ostruite: uno non ci pensa e cammina per strada, come se niente fosse, ma basta avere una sola arteria ostruita per rischiare di morire, il sangue che non arriva più al cuore, la pompa che fa marciare l’intera macchina umana, il cuore… i cui battiti ci accompagnano sin dall’istante in cui nasciamo e che notiamo solo quando ci poggiamo una mano sul petto, o quando appoggiamo la testa sul petto di un’altra persona, magari la persona amata, quella di cui siamo follemente innamorati e lei ci chiede, candida: “Senti come batte forte?”).

Ogni attimo, in realtà, potrebbe essere l’ultimo, quello che segna il passaggio dalla vita alla morte.

Ne ho parlato – con tatto, con calma, con ironia anche – con mia nonna, che ora, per fortuna, sta bene… E lei mi ha guardato seria e mi ha detto che comunque se lo sentiva che c’era qualcosa che non andava e che si è spaventata moltissimo. Mia nonna sapeva, anche se non era cosciente di sapere, che era stata vicina alla morte.

“Ha visto la morte in faccia”, si dice, in italiano, per indicare lo scampato pericolo. E mentre mia nonna parla, io ripenso alla musica, all’aria, all’acqua, a tutte quelle cose che ci circondano e a cui non diamo importanza più di tanto, perché ci sono, perché sono lì, sempre a nostra completa disposizione, e penso che mia nonna – mentre io correvo per portarla in ospedale – non si sarà soffermata su nessuna di quelle cose e, anche se non ne ho la certezza e questo ancora non gliel’ho mai chiesto, credo che in quel momento mia nonna fosse concentrata solo sulla vita, e sul fatto di non morire; aveva visto la morte in faccia, ma evidentemente ha avuto una gran voglia di scacciarla dalla sua vista; ha voluto vivere e continuare a respirare, malgrado le ostruzioni delle arterie. E penso anche che ha avuto un gran coraggio e una grandissima fermezza d’animo a non soccombere a quella paura, mentre io parlavo e domandavo e parlavo quasi per esorcizzare la paura che non ce la facesse.


“Ha visto la morte in faccia”. E non deve essere – per nessuno – un bello spettacolo.

sábado, junio 08, 2013

Roma vista dall’alto, ovvero: La grande bellezza, di Paolo Sorrentino



Come più volte ho scritto su questo blog o diario di bordo (di un “borderline”), Roma non è solo una città, è soprattutto uno “stato d’animo”. Ma se ci pensiamo bene, lo stesso può dirsi di Londra o di Berlino o di Madrid o di qualsiasi altra grande metropoli che ha secoli di storia alle spalle (o nel sottosuolo).

Non ricordo più se era Julio Cortázar a dire che “Parigi, in fondo, è una gran metafora”. E così, pure, Ginevra, o Mosca, o Napoli…

Nel suo ultimo film, Paolo Sorrentino trasforma Roma in una “grande metafora” e ci parla della “grande bellezza” che essa emana e continua ad emanare nonostante i mille problemi che la straziano giorno dopo giorno da tanti, troppi anni ormai (e non sono io né il primo né l’ultimo né l’unico a dire che Roma, ahinoi, è molto peggiorata da com’era dieci anni fa – o anche meno – e non solo per la delinquenza e la violenza di strada sempre più evidenti, ma anche per quanto riguarda l’immondizia, la sporcizia e le cartacce che la invadono ovunque, anche nel centro storico – per non parlare dei mezzi pubblici, che la fanno sembrare un paese del Terzo Mondo).

Di che parla La grande bellezza? Di Roma come metafora dell’Italia, certo; ma anche di Roma in quanto città vista dall’alto. Il protagonista del film, Geppi, uno scrittore che ha avuto la fama grazie al suo primo e, al momento, unico romanzo, abita in una casa di lusso posta all’altezza – nientedimeno che – del Colosseo. E molte scene del film ritraggono Roma dall’alto. E non solo: il film ci fa vedere come vivono e come trascorrono il tempo (come si divertono e cosa si raccontano) quelli “dell’alto”, ovvero, tutti coloro che appartengono alle sfere sociali più elevate e ricche e benestanti.

Geppi frequenta i salotti buoni della capitale, quelli dove si organizzano feste privatissime e, all’apparenza, molto trasgressive (ma è appunto tutta apparenza) e dove si decide cosa è “in” e cosa “out” in quanto a mode, gusti e stili del momento.
Lo spettatore, dunque, compie un viaggio dentro le ville più lussuose, i palazzi più grandi e nobiliari, le discoteche più alla moda della Roma dei giorni nostri. Inevitabile pensare a La dolce vita, ma di una cosa sono certo: Sorrentino avrà pure rivisto il capolavoro di Fellini, ma poi se ne è dimenticato e ha tentato di fare un’operazione diversa.

La grande bellezza, come qualcuno ha scritto sui giornali, è un film proustiano, in un certo modo, perché, oltre al fatto che Geppi e compagni non fanno altro che citare Proust, il regista ci ritrae i suoi personaggi nobili e imbellettati come fa Marcel coi suoi amici dell’alta società.

Faccio il primo esempio che mi viene in mente ripensando all’incipit (molto bello) del film: la telecamera ci fa ballare in una discoteca su una terrazza che si trova dalle parte di Piazza Barberini (sempre le terrazze, luoghi "alti" per eccellenza) e a un certo punto si ferma su Geppi, un ralenty ce lo mostra intento ad accendersi una sigaretta, mentre gli altri, tutti sudati, tutti suoi fedeli amici, si danno da fare a ballare e sbraitare al ritmo assordante della musica… e a questo punto la voce in off di Geppi inizia a fare le sue riflessioni su vita e morte, su amicizia e ricordi, sul tempo che passa…

Mi ha colpito molto l’età media dei personaggi: tutti oltre i 40 e molti vicini ai 70. E’ come se Sorrentino avesse voluto parlarci della bellezza di una città fuori dal tempo (perché vista come eterna) e della bruttezza di uomini e donne che sudano ballando e che si dilaniano a furia di cattiverie e pettegolezzi su terrazze di un lusso esagerato, oltre che a furia di botulino e rittocchi sulla pelle dal chirurgo estetico.

Ovviamente, Geppi non è né aspira ad essere Proust; si accontenta di quello che ha, dei soldi che gli permettono la bella vita e le belle donne, della fama che gli ha regalato il suo primo romanzo fortunato e tira a campare senza troppe illusioni per il futuro.

Dovrà essere l’intervento inatteso di una suora che tutti presentano come imminente santa per spingerlo a rispondere alla domanda scottante: “Perché non scrive più?”. Geppi risponde – davanti a uno stuolo di cicogne o pellicani, non ricordo più bene – con onestà: “Perché non sono mai riuscito a cogliere la grande bellezza”.

Risposta molto proustiana, ma anche molto furba. E’ un alibi e una scusa per continuare a fare una vita agiata, lontano dai problemi, anche da quelli che implica l’ispirazione letteraria. E’ facile fare lo spettatore neutro (o a tratti anche cinico) della vita degli altri quando si è guadagnato tanto e si gode di una casa con vista sul Colosseo. Sarà solo dopo una tarda presa di coscienza dei suoi limiti che Geppi tornerà a raccontare la realtà attraverso la scrittura.

E le immagini? Ecco: è qui che, a mio giudizio, Sorrentino pecca di “virtuosismo”. Le immagini de La grande bellezza sono così belle, a tratti, così cariche di simboli e così ben trovate che, a volte, sembrano artificiose. Perfino la gita in barca – leggera – sul Tevere, mentre scorrono i titoli di coda e i vari ponti che attraversano Roma sembra artefatta e fin troppo costruita. E questo è certamente uno dei limiti di un film ambizioso e che resterà certamente nella mente dello spettatore quando le luci si riaccenderanno e la musica si spegnerà (la colonna sonora è sempre ottima, come sempre nei film del Nostro).

P.S.1: Pasolini scrisse in qualche appunto che aveva in mente di girare un film su Roma a partire dai 21 ponti che la attraversano; Sorrentino gira un film dall’alto per farci vedere come vivono quelli dell’alto rispetto a quelli del basso. E attraverso la figura di Geppi ci fa riflettere sul fatto che spesso, ahinoi, la vita è quella cosa che succede mentre siamo intenti a guardare altro. E al di là del barocchismo di certi trucchi, diciamo che il regista riesce nel suo intento. Aiutato – questo sì – da un sempre notevole e trasformista Tony Servillo.


P.S.2: Una curiosità che commentavo con una mia amica: nel film si sentono spesso i gabbiani. Questa è una di quelle magie di Roma che non sono mai riuscito a spiegarmi. A Roma ci sono moltissimi gabbiani che solcano il cielo di giorno e di notte. E se si sta lontani dai rumori del traffico, il verso dei gabbiani si sente nitido e costante. Sorrentino ci trasmette questi suoni naturali che troppo spesso, a causa della fretta, dimentichiamo o non notiamo come si deve. E uno si domanda: ma quanto dista il mare da Piazza Venezia (una delle piazze romane col maggior numero di gabbiani in volo).

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...