miércoles, abril 24, 2013


Recensiti e recensori


Roma, ah, la capitale, che città anomala! Che anomalia cittadina e quotidiana! Che quotidiana lotta per la sopravvivenza urbana!

Roma, tu sei peggio del “ventre di Parigi”, sei un agglomerato mastodontico di vite vissute ai limiti dell’esaurimento nervoso… Sei spietata e nobile, sei assurda e romantica, sei tutto e il contrario di tutto, sei tu, sola nell’Universo, a farci sentì tutti un po’ più boni!
Ed è per questo con grande curiosità che aspetto il momento in cui mia sorella tornerà a chiedermi: “Andiamo al Verano?” (il cimitero più famoso e più grande della capitale; l’unico cimitero che io conosca in cui ci sono dei bus-navette che ti permettono di spostarti da un’ala all’altra del camposanto; il Verano, specchio fedele dell’enormità di Roma, della sua estensione per eccesso).
Ma dov’è sepolto Gramsci? Sorella, ricordamelo: dov’è che possiamo andare a contemplare le spoglie mortali di Antonio Gramsci? Il cimitero inglese? E dove si trova? Dov’è il posto?

Si da il caso che mia sorella stia per completare la sua tesi della laurea triennale su Pier Paolo Pasolini, o meglio, su “L’immagine di Roma in alcune opere di Pier Paolo Pasolini”. Tra queste mia sorella ha scelto di scrivere sulla famosa raccolta poetica Le ceneri di Gramsci. E visto che in questo periodo siamo tutti e due residenti a Roma, ha pensato bene d’invitarmi e di accompagnarla in questa scorribanda melancolica, in questa passeggiata o tuffo nel passato recente della storia politica (e lirica) d’Italia…

Le domande che sorgono spontanee sono tante: ad esempio, perché Pasolini amava tanto Gramsci? O meglio: cosa amava della sua figura? E perché, in una delle mie poesie preferite della famosa raccolta, quella che s’intitola “Il pianto della scavatrice”, dice quei versi che fanno… “Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto”?

Sono queste alcune delle domande che mi pongo mentre faccio a botte con i miei prossimi sulla metro; la linea B è un disastro, si ferma a ogni pie’ sospinto… E mi domando anche perché, nel mio lavoro, quando uno si azzarda a scrivere una recensione debba assumere un tono bonario o non troppo negativo nei confronti del recensito… Ma perché?

Si tratta di un saggio di critica letteraria; uno di quei libri che leggeranno solo gli specialisti. A chi diavolo può interessare la mia recensione se non a un pubblico molto, molto ristretto di specialisti? A chi diamine importa che io tratti male (si fa per dire) l’autrice di quel saggio? Quattro su cinque colleghi dicono che la recensione è ben scritta; tre su cinque dicono che sono troppo duro, spietato, saccente, spocchioso o, peggio, lezioso, quando mi metto ad elencare (nella pars destruens della stessa) uno ad uno tutti i difetti che riscontro nell’impianto del saggio…

Pasolini ha mai scritto recensioni? Credo proprio di sì. E le avrà mai lette le recensioni ai suoi primi romanzi importanti, ai suoi film, alle sue raccolte poetiche? Credo di nuovo proprio di sì. E poi, diciamocela tutta, cosa spinge il recensore a recensire il recensito? Qual è quella molla che scatta e che ti fa dire: “Ora gliene dico quattro, a questo qua, ora vediamo se la gente capisce che razza di spazzatura si pubblica oggigiorno!”. Oppure: “Ma no, ma non capisce nulla, questo qua, so io qual è la verità, qual è il nocciolo della questione!”.

Siamo tutti mortali, per fortuna. E se penso che, in futuro, sia io che la recensita non ci saremo più, se penso che anche noi, come Gramsci, come Pasolini, diventeremo “cenere”, beh, allora mi rassereno un po’, e smetto di farmi tante domande, e mi godo il Lungotevere, fuori dalla calca di metro e autobus, a contatto con la natura (piena di smog) e con la visione del fiume (pieno di cartacce), il povero e possente Tevere che scorre senza mai posa, senza mai fermarsi…

A proposito, sorella: quand’è che andiamo al cimitero?

miércoles, abril 17, 2013


Elena Ferrante ci afferra e ci trascina giù,
ne I giorni dell’abbandono



E’ difficile parlare di un romanzo quando questo romanzo ti colpisce, ti fa restare a bocca aperta, t’impedisce di vivere tranquillamente, ti obbliga a leggere fino a tarda ora nella notte, t’intrattiene nel senso meno piacevole del termine “intrattenimento” (nel senso, cioè, che ti trattiene a sé, come se si trattasse d’una strana calamita) come riesce a fare I giorni dell’abbandono, di Elena Ferrante (Roma, e/o, 2002).

E’ difficile e complicato parlare di un romanzo scritto in un italiano perfetto pur essendo questo italiano il frutto di un’attenta, precisa operazione “a incastro” tra l’idioletto personale dell’autrice (d’origini napoletane) e l’italiano apparentemente standard che possiamo captare dalla televisione e da un comune dialogo tra cittadini che s’incontrano per strada e si confessano i propri acciacchi comuni e quotidiani.

Qui l’acciacco è dei più tremendi e tristi e sconvolgenti (seppure si tratti di un fenomeno quotidiano e comune, che capita a tutti e che capita ogni minuto): Olga, moglie trentottenne e felice di Mario, ingegnere affermato e professore universitario, viene abbandonata da questi per un’altra (Carla, la figlia appena ventenne d’una loro comune amica).

A chi non sarà capitato di assistere al dolore di colei che viene lasciata? (o anche di colui, perché – da che mondo è mondo – non sono solo gli uomini a lasciare, ma pure le donne, diciamocelo). A chi non sarà capitato di provare il dolore che Olga s’impegna a mettere nero su bianco nelle pagine di un diario che poi, chissà, forse non è altro che il libro che stiamo leggendo?

Tutti sappiamo quello che si prova in certi momenti: spaesamento, vertigini, senso d’inutilità totale e d’impotenza assoluta. Senso di abbandono, appunto, dovuto al radicale cambiamento che imprime colui che se ne è andato e ha lasciato un vuoto fisico (a partire dal lato del letto matrimoniale che nessuno rimpiazzerà, almeno per il momento).

Elena Ferrante è in grado di farci sprofondare nella disperazione e nell’angoscia più cupe della protagonista con una narrazione che assume i tratti del racconto del terrore (o del racconto surreale e onirico). Nei capitoli centrali, il lettore vive letteralmente dentro l’incubo che prima blocca e immobilizza e poi scuote e sballotta la povera donna, alle prese con chiavi di casa che non girano (o che si perdono), con Otto, un cane lupo che sta morendo per un insetticida (o forse una polpetta avvelenata), e con Gianni e Ilaria, i due figli piccoli, rimasti insieme alla madre, quando il padre è fuggito dall’amante.

Sono molti i temi scottanti che tocca l’autrice in questo romanzo che, a tratti, assume l’andamento del racconto poliziesco (ed è incredibile come l’uso abbondante dell’imperfetto nei verbi non rallenti, ma anzi, acceleri l’azione nei punti nevralgici della trama). Ne cito uno su tutti: quello della presenza dei morti nella mente dei vivi. Olga è affascinata e, al contempo, alquanto angosciata dai ricordi di una vecchia signora che, nella Napoli della sua infanzia, era stata abbandonata dal marito. I vicini la compativano, la donna abbandonata era vista come una sorta di “malata”, una che non sarebbe mai più riuscita a rifarsi una vita. Olga la ricorda e, in alcune scene del libro, sembra che questo spettro del passato sia tornato in vita; Olga sente quasi la tentazione di parlarci, sembra parlare con lei, ma poi si ferma e riflette: “Ci portiamo nella testa fino alla morte i vivi e i morti. L’essenziale è imporsi una misura, per esempio mai parlare alle proprie parole” (id., p. 136). Che i morti ci accompagnino è un dato di fatto; così pure colui o colei che ci ha abbandonati. L’importante è non cedere al ricatto dei ricordi, non credere che il fantasma di chi non c’è più (perché ha smesso di amarci o se ne è andato con un’altra o con un altro) possa ancora parlarci. Non si può parlare con le proprie parole (quelle che lanciamo al vento o che mettiamo una dietro l’altra nelle pagine di un diario). Il rischio che si corre è quello di diventare matti. Eppure, sono proprio le parole “nostre”, quelle che diciamo spesso solo a noi stessi, quelle che ci salvano e ci curano, quelle che ci aiutano ad esorcizzare il passato (e a tenere a bada il fantasma della persona amata che non è più disposta a vivere accanto a noi).

Elena Ferrante ha il coraggio di mettere quelle parole una dietro l’altra, nelle pagine del diario della protagonista, per mostrarci fino a che punto si può arrivare quando sembra che la vita non ha più senso e che l’amore fa solo male; Elena Ferrante – un po’ come Antonio Moresco – ha il coraggio di spingersi fino ai limiti del baratro e di piegare l’italiano a fargli dire cose che non sapevamo di sapere. E I giorni dell’abbandono è in grado di afferrare il lettore, di trascinarlo giù e di farlo tremare proprio sul bordo dei tanti baratri che ci portiamo dentro.

jueves, abril 11, 2013


Philip Dick e le sue Confessioni di un artista di merda, ovvero: come si può scoprire uno scrittore di razza per puro caso



Confesso di non avere mai letto prima nemmeno una riga dell’autore di Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (romanzo da cui Ridley Scott ha tratto l’ormai classico Blade Runner). E confesso che, prima di leggerlo, ero titubante, anche perché, tra le altre cose, Dick viene spesso catalogato tra gli autori “di genere” e, di conseguenza, “minore” (come se l’appartenere ad un genere canonizzato – sia esso il giallo, il poliziesco, il rosa o il fantascientifico, come è il caso di Dick – fosse sinonimo di “autore di secondo livello” o “di categoria inferiore”; e vi basti pensare a Georges Simenon e ai suoi romanzi “di genere”, appunto, “poliziesco”). E confesso di avere scelto questo libro spronato più dal titolo che dal contenuto… E confesso pure che, a lettura finita, questo Confessioni di un artista di merda (Roma, Fanucci, 1998) mi è piaciuto, perché: a) mi ha scosso; b) mi ha fatto scoprire che Dick è un grande scrittore; c) mi ha riconfermato che non sempre “autore di genere” è sinonimo di “bassa o scarsa qualità”.

Philip Dick è un grande scrittore perché sa gestire la trama con maestria consumata; ogni capitolo è narrato in prima persona da uno dei quattro personaggi principali della storia; ogni capitolo è dunque l’incarnazione della verità così come essa è letta e interpretata dal singolo personaggio; inutile aggiungere che queste verità parziali s’incastrano con le altre cozzando su vari nodi centrali: chi ha ragione? Chi ha operato secondo il bene? E perché quell’altro ha operato facendo più male possibile agli altri tre? Ma chi ha ragione in fondo tra i quattro?

Philip Dick è uno scrittore di razza anche perché riesce a farci sentire il respiro di questi quattro personaggi: riesce a ricreare una determinata porzione dell’America degli anni 50 proprio a partire dalle vite singole di questi singoli individui, inquadrati da vicino, con primi piani di un realismo crudo che ti obbliga a prendere parte all’azione, a propendere per l’uno o per l’altro…

Charley Hume è l’imprenditore che si è fatto da solo e che, per amore di sua moglie, costruisce un’enorme casa in una tenuta in aperta campagna in un paesino sperduto dell’Illinois (o della California?). Sua moglie Fay è un’isterica che non riesce ad amare altri che se stessa; mamma apatica di due bambine, mal sopporta la convivenza forzata che si viene a creare nel momento in cui Charley accetta di accogliere in casa Jack, suo cognato, fratello alquanto pazzo di Fay (Jack raccoglie materiale scientifico sugli UFO e crede fermamente nell’imminente fine del mondo). Il trio viene ulteriormente messo alla prova dall’arrivo di una giovane coppia di freschi sposini, Nat e Gewn, due giovani di belle speranze che iniziano a frequentare la casa di Charley per poi sperimentare sulla propria pelle il tradimento, la disillusione e l’istinto suicida.

Philip Dick è bravissimo nel condurci all’interno della mente di Charley, Fay, Jack e, infine, Nat, fino alle scene catartiche finali, quelle scene che non ti aspetti e che ti fanno tremare e ti spingono a pensare, dopo aver chiuso il libro: “Ma che mostro è costui! Che mente è quella di uno scrittore che pensa queste cose!”.

La scena forse più crudele e apocalittica è quella della strage degli animali della fattoria di Charley: appena ripresosi da un infarto che lo ha obbligato a una pausa forzata in ospedale e subito dopo aver appreso da Jack che sua moglie lo ha tradito con Nat, l’imprenditore torna a casa e spara all’impazzata alle anatre, ai cavalli, ai maiali, ai cani e ai gatti che popolavano la sua tenuta. Per odio verso Fay. Per ripicca verso Nat, che crede di essere davvero innamorato di una donna molto più matura (e sadica) di lui…

Non è sempre proficuo accostare la vita dell’autore a quella che questi attribuisce ai suoi personaggi: però non può non essere un caso che Philip Dick cadde in depressione e passò molti guai per i vari matrimoni sbagliati contratti con varie mogli (si dice che qualcuna tra loro spinse Dick all’alcolismo e, poi, all’uso massiccio di droghe pesanti).

Quello che viene fuori da questo libro è un duplice quadro realistico: quello dell’America di quel periodo (immediatamente anteriore alla Guerra Fredda); e quello dell’istituto del matrimonio, una vera gabbia, o un vero manicomio, per chi, come Charley, si trova a viverlo come condanna.

E ogni tanto capita pure d’imbattersi in frasi dall’accento shakespeariano, frasi come questa: “Siamo ombre che fluttuano nell’aria, dirette verso il nulla”. Tra Amleto e Macbeth, Dick si diverte a dipingere l’orrore e a farci sperimentare l’inferno sulla terra.

sábado, abril 06, 2013


CONFERENZIERI

Ho dato corsi monografici in diverse Università italiane (da Pisa a Roma, da Napoli a Trento, passando per Padova e Catania); ho partecipato a congressi e convegni sparsi per l’Europa (dalla Francia alla Spagna, dalla Germania al Portogallo); ho parlato davanti a migliaia di studenti, nel corso della mia piccola povera carriera accademica o pseudo-tale, eppure… ogni volta è come la prima volta, ogni volta un’emozione diversa, quando il prof. del posto ti presenta alla platea e tu ti schiarisci la voce e ti appresti ad avvicinarti al microfono per dare la tua lectio quasi mai magistralis… L’ansia da prestazione, sì, è di quello che si tratta (e di questo parlano alcuni capitoli strepitosi e pieni d’auto-ironia di quel folle di Enrique Vila-Matas – spesso i suoi romanzi iniziano come una lezione o una conferenza impartita da qualche scrittore in erba – o in pensione – o da qualche critico letterario in crisi – o editore sull’orlo del fallimento – e allora tu, lettore, ti accingi a seguire gli andirivieni, il zigzagare complicato della mente del conferenziere e, nel mentre, ti chiedi: “Ma dove vuole andare a parare questo tizio che mi parla della “crisi del romanzo nell’era contemporanea” – per dirne una, ma potrebbe anche trattarsi della “forma del diario nella letteratura del Novecento” – e, nel frattempo, la conferenza cambia e diventa confessione personale del conferenziere per cui, dopo un po’, ti rendi conto che quello che stai leggendo è l’autobiografia fittizia – o pseudo-autobiografia – del personaggio del conferenziere perché, te ne accorgerai immediatamente, basta leggere il secondo capitolo e capire che qualcosa sta per accadere, che il conferenziere parlava di letteratura quando, invece, è lui stesso il soggetto oggetto del romanzo e che sì, insomma, quello che stai leggendo è un romanzo, anzi, come è normale e ormai solito  che sia in Enrique Vila-Matas, è un romanzo al quadrato o romanzo metaletterario”…).

Chi parla ha davanti a sé una massa indistinta di persone e non sa (né può assolutamente prevedere) quale sarà l’effetto delle sue parole sul pubblico; chi parla lo fa senza poter calcolare né l’interesse reale né la formazione iniziale di tutti quegli studenti (o colleghi o addetti ai lavori o semplici aficionados) che stanno seduti lì proprio per ascoltarlo.

Chi parla sa già che seguirà più o meno una scaletta, ha previamente redatto una specie di sceneggiatura per quanto andrà sviluppando nel corso dell’oretta o oretta e mezza che durerà la sua lezione falsamente magistrale. E il fattore tempo è decisivo (lo sanno tutti quelli che fanno questo mestiere: se ti concedono 20 minuti, beh, allora, non c’è scampo, puoi “leggere” a volte alta o “ragione” in pubblico su un massimo di 7 pagine; 7 e mezza e già sei fuori tempo massimo).

Chi parla sa già che arriverà il momento cruciale in cui rischierà d’incartarsi e di andare fuori tema e sa già che dovrà sforzarsi di non aprire troppe parentesi che poi non chiuderà; di non fare troppi riferimenti alla situazione politica attuale; di non essere troppo ironico né di fare troppo il serioso perché allora sì che il pubblico potrebbe annoiarsi e abbandonarlo a se stesso e alle sue vane parole.

Chi parla sa che prima o poi arriverà quell’altro momento cruciale e decisivo e critico, quello in cui si sentirà la gola secca e la bocca asciutta, quello in cui la saliva, come per arte di magia, svanirà dalla sua bocca e sarà costretto a chiedere umilmente al collega che lo ha invitato di passargli la bottiglietta dell’acqua (e se non è aperta, il conferenziere sa bene che il solo atto di aprire la bottiglietta e di versarsi l’acqua nel bicchiere creerà una certa suspense nel pubblico, magari concentrato e pronto a seguire il filo del discorso, magari talmente interessato all’argomento da indovinare quale sarà la frase successiva che pronuncerà il conferenziere subito dopo aver bevuto il suo meritato e sacrosanto sorso d’acqua).

Chi parla sa tutte queste cose; sa pure che, tra il pubblico, ci sarà la studentessa affascinante e ritrosa (o chiaramente scontrosa) che non avrà nessunissima voglia di seguire il discorso del conferenziere e ne approfitterà – per così dire – per aggiornare il suo profilo su Facebook – o per spiare quello degli amici più stretti – attraverso il touchscreen del suo Iphone; chi parla sa bene che, tra tutte quelle teste pensanti, ci sarà pure colui che letteralmente “staccherà la spina” per pensare ai fatti suoi (o alla fidanzata che l’ha appena mollato, o al motorino che l’ha lasciato a piedi la mattina stessa, o all’affitto da pagare a un padrone di casa di cui non conosce ancora nemmeno il volto). E quindi chi parla lo farà con la coscienza di stare gettando metaforicamente una bottiglia in mare, un messaggio collocato all’interno di una bottiglia che non si sa se arriverà mai a toccare terra e a interessare l’attenzione di un eventuale futuro lettore o spettatore.

Chi parla sa della natura debole delle parole lanciate al vento (anche se oggi, grazie alla tecnologia, anche questo tipo di parole al vento “perme” intatto grazie ai registratori incorporati in qualsiasi smartphone che si rispetti e oggi d’uso presso le nuove generazioni). Eppure chi parla sa pure della natura forte delle parole; del fatto che possono servire a cambiare il mondo o, almeno, il modo di pensare e di ragionare delle persone che ha davanti e che – si suppone – sono sedute là davanti proprio per ascoltarlo.

Ed è con questa speranza (nell’illusione di dare un senso “forte” alle parole che pronuncia in pubblico) che chi parla, nel corso di una lezione o di una conferenza o di un congresso, parla al pubblico con tutto l’entusiasmo e la forza e la bravura che può. Il conferenziere sa che si sta giocando il tutto per tutto, per l’intero arco temporale in cui si svolgerà la sua performance. Ed infine, chi parla, quando poi torna a casa o, più in generale nell’hotel della città in cui è stato invitato a dare la sua performance, si rende conto che è proprio questo: il giocarsi il tutto per tutto, a dare quella strana e affascinante adrenalina che lo ha accompagnato dal momento in cui è suonata la sveglia e si è alzato dal letto al momento in cui, a fatti ormai compiuti e parole ormai pronunciate, a spettacolo concluso, se ne torna su quello stesso letto per riposarsi e staccare letteralmente la spina. Che lavoro il lavoro di chi, per campare, usa le parole e invita gli altri a riflettere sulle parole (quelle che gli altri ci hanno lasciato e quelle che noi possiamo lasciare agli altri).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...