martes, diciembre 30, 2014

Il 2015?

E così, siamo giunti alla fine di questo Dicembre e, dunque, di quest'anno, 2014 (annus mirabilis, per quanto mi riguarda, per le molte e belle esperienze fatte e per due o tre eventi che mi hanno letteralmente cambiato la vita, anche grazie alla carica energetica della mia compagna di sventure...).

Certo, lo chiudo non nel migliori dei modi: dal 24 (la vigilia) a quasi ieri, un'influenza tremenda mi ha obbligato a stare a letto (senza forze, senza fiato, senza febbre, ma con un mal di ossa, di testa e di gola da schiantarsi sul letto e non resuscitare per almeno 2 giorni).

Nel corso di 2 giorni ho anche sperimentato cosa significa digiunare: ho perso 2 kili. Liquidi, dice mia cugina. Non so se ha ragione lei. Comunque, la mini-dieta veloce non è stato un brutto affare: ho potuto mangiare di più una volta che lo stomaco ha deciso che era ora di tornare a lavorare...

E così, come ogni fine d'anno, uno si sente quasi in diritto-dovere di fare dei bilanci. Vedere cosa è "in" e cosa è andato "out"; stabilire in modo matematico i "pro" e i "contra". 

Esercizio di stile abbastanza facile ma che quest'anno non voglio portare a termine. Mi ritengo già fortunato così, ad avere la salute (come dice mia nonna) e avere al mio fianco una donna che mi ama (e che amo). E poi...sono tornato vivo dalla Polonia, e questo (come dice la pubblicità) non ha prezzo (un'amica dall'Australia mi chiede: "Ma perché ti eri convinto che quello in Polonia sarebbe stato il tuo ultimo viaggio? Perché questa teoria così catastrofista?". Chi ha letto il post sulla Polonia sa a cosa mi riferisco; chi non l'ha letto, non fa nulla, non si tratta di nulla di trascendentale, è che - semplicemente - credevo davvero che quello verso Varsavia fosse il mio ultimo viaggio, l'ultimo della mia brevelunga vita).

Certo: avrei potuto fare di più. Scrivere di più; pubblicare di più; fare più ricerca (e un po' meno lezione); essere meno pigro; leggere di più. Ma nel complesso non posso lamentarmi e il bilancio finale è nettamente positivo.

E ora mi appresto a tornare in Spagna. Solo una settimana da italiano in Italia. E non saprei dire come mi sento. A volte mi è sembrato strano perfino ascoltare un intero telegiornale nella mia lingua (ma perché - cari giornalisti - parlate con tono così scattante al tg? Perché? Chi vi ha detto che dovete spiccicare le parole con quella tonalità che fa sembrare "grave" e "scioccante" e "terribile" anche la notizia più allegra? Perché tanto "melodramma"?). Magari, quando sarò di là, mi ricorderò di qua e di questa settimana scarsa passata (ahimè) quasi interamente a letto, mezzo morto o mezzo distrutto dall'influenza...

E mia madre: "La cucina italiana è una delle migliori del mondo". Sì, certo, d'accordo, ma perché non aprire la mente anche verso altre tradizioni culinarie? (Le ho mostrato la foto di un'amica che sta percorrendo a piedi parte della Muraglia Cinese: e lei: "E cosa mangia?" E io: "In Cina hanno un'ottima cucina!". E lei: "Ma stai scherzando?").

E sì, insomma, non mi lamento anche se...mi sarebbe piaciuto avere almeno la forza per aprire i 4 o 5 libri che mi sono autoregalato per Natale; eccoli:

1 - Sandro Veronesi, "Terre rare" (Milano, Bompiani, 2014);
2 - John Cheever, "I racconti" (Milano, Feltrinelli, 2014);
3 - Remo Bodei, "Immaginare altre vite" (Milano, Feltrinelli, 2013);
4 - Gaston Bachelard, "La dialettica della durata" (Milano, Bompiani, 2010);
5 - Michele Serra, "Gli sdraiati" (Milano, Feltrinelli, 2013).

Grande prevalenza degli italiani, come si vede, e strana preponderanza dei Feltrinelli, quest'anno, per quanto mi riguarda... E vediamo se ci riesce di leggerli tutti e con calma dall'altra parte, nella mia seconda patria...

Buon viaggio e buon anno, "mon sembleble", miei cari lettori (anonimi e non), mie care tre o quattro lettrici fisse di questo blog...

miércoles, diciembre 17, 2014

LE VOCI E I RUMORI





“A volte la voce di un interlocutore ci colpisce più del contenuto del suo discorso e ci sorprendiamo ad ascoltare le modulazioni e le armonie di quella voce senza ascoltare ciò che ci sta dicendo. Questa dissociazione è, senza alcun dubbio, responsabile del sentimento di estraneità (quando non di antipatia) che tutti sperimentiamo ascoltando la nostra stessa voce: arrivandoci dopo aver attraversato le cavità e le masse della nostra anatomia, ci trasmette un’immagine deformata, come se ci guardassimo di profilo, con l’aiuto di un gioco di specchi”.

È il sempre geniale, erudito, chiaro anche quando complesso, Roland Barthes a parlare (in un saggio contenuto nella raccolta L’ovvio e l’ottuso) e a spiegarmi  perché mi suona “strana” o “diversa” la mia voce quando parlo in pubblico con un microfono (che distorce i fatti ancora di più di quando parliamo senza filtri tecnologici) o quando mi risento via Whatsapp, una volta mandato un messaggio vocale a mia madre (sì, ora anche mia madre ha scoperto questo strumento e ne approfitta per pregarmi di coprirmi bene, se in Italia fa freddo, o per chiedermi se ho mangiato, se teme che i miei ritmi lavorativi stiano diventando così folli e disumani da obbligarmi a chissà quale terribile dieta ferrea o squilibrata – ma non sa che qui, nella città spagnola in cui vivo, nella casa in cui abito, mi nutro molto, infinitamente meglio, di quanto non facessi quando pernottavo a Roma…).

Ma la riflessione del saggista e critico e intellettuale francese va oltre e ci spiega come noi, in quanto esseri umani, ci muoviamo e ci manteniamo in vita anche grazie alla traduzione sonora dei rumori che ci circondano; e qui Barthes fa un esempio chiarissimo: quello del bambino che riconosce ogni piccolo sussurro della sua cameretta e che, se spostato e messo dentro un altro ambiente, si sente smarrito, perso, abbandonato, proprio perché non riesce più a tradurre in modo corretto e istantaneo i tanti piccoli rumori che compongono quella che Barthes chiama “la sinfonia domestica” delle nostre famose e simboliche quattro pareti domestiche.

E poi va ancora oltre perché cita Franz Kafka, il quale, nei suoi Diari, ci parla di come la paura possa nascere improvisamente proprio dalla difficoltà di interpretare correttamente un cigolio della porte, un cadere di pentole in cucina, un sussurro inspiegabile da dietro una tenda, etc.

Tutte cose “intime” e “familiari”, certo, e che però diventano subito “strane” o “inquietanti” o “perturbanti” (per dirla con Freud) se il nostro udito non riesce a clasificarle in base ai suoi parametri razionali di sempre… (e mi vengono subito in mente mille scene da film tipico dell’orrore).


E poi il discorso si sposta proprio sulla psicanalisi e su Lacan e su Freud (una “scienza” tutta fondata sull’ascolto apparentemente “neutro” dello psichiatra nei confronti delle confessioni del paziente) e sull’inquinamento acustico della società contemporanea e sulla sfida di Ulisse nei confronti delle Sirene (il desiderio folle di voler ascoltare a tutti i costi il loro canto, pur sapendo che ciò implicherà la morte) e altri riferimenti che non sto qui ad elencare, anche perché non ho ancora finito di leggerlo, questo saggio, e però so già che mi piacerà, perché, diciamocela tutta, sono davvero pochi gli studiosi, i saggisti, i critici o gli intellettuali che sanno spiegare così bene le cose come fa Roland Barthes e uno si domanda anche che cos’altro avrebbe potuto scrivere e regalarci se la morte non se lo fosse portato via quel 25 Febbraio del 1980 quando, uscendo dall’Università, venne investito da un camion (o da un furgone) e finì all’ospedale e morì quasi un mese dopo, un 26 Marzo dello stesso anno…forse perché non riuscì a sentire o a tradurre correttamente il suono del clacson o della frenata dello stesso camion o furgone o quello che fosse che gli tolse la vita...

jueves, noviembre 20, 2014

Dormono i morti?


"I morti. Dormono, i morti? Perché dovrebbero dormire, se noi non possiamo".

Questa è la domanda che si pone uno dei narratori "mobili" (e "cangianti") del già citato (e più sotto esaltato) Under the Volcano, di Malcom Lowry (romanzo che più vado avanti a leggere e più mi appassiona).

Se i morti non dormono cosa fanno? Parlano? E se parlano tra di loro quali saranno i loro argomenti preferiti di conversazione?

Nel romanzo Tu rostro mañana (Il tuo volto domani), uscito in 3 parti, tra il 2002 e il 2007 (la tr. it. è a cura del defunto e bravissimo Glauco Felici), Javier Marías immagina l'Ultimo Giorno, il Giorno del Gran Ballo (o quello del Giudizio Universale, come viene definito da Giovanni nell'Apocalisse) quando "tutti i vivi saranno ormai morti" e quando "tutti i morti saranno ormai morti e convocati davanti al cospetto dell'Essere Supremo".

In quel romanzo Marías immagina che Dio sarà stufo di ascoltare le recriminazioni, le discolpe, le giustificazioni che ogni morto addurrà per diferende la sua causa (o per farsi perdonare i propri peccati): l'Umanità viene descritta come un "pollaio universale" in cui tutti i morti parleranno davanti a Dio e fra di loro creando un caso generale assordante...

Anche per Shakespeare l'al di là, ovvero, "the undiscovered country from whose bourn no traveller returns" (Hamlet, atto III,scena 3, dal monologo di Amleto che comincia con le arcinote parole "To be or not to be", etc.), è un mondo in cui i morti parlano: ed è qui che l'autore - forse senza rendersene conto, forse senza volerlo - incappa in un bel paradosso: Amleto Junior viene a sapere del delitto di suo zio Claudio proprio grazie alle parole che Amleto Senior (suo padre) gli comunica di notte sotto le parvenze d'un fantasma - ma se l'al di là è "un mondo sconosciuto da cui mai nessun viaggiatore ritorna" allora perché lui, Amleto Senior, sì che ritorna? Contraddizione irrisolvibile, come mostra con la sua consueta eleganza ed erudizione il Prof. Piero Boitani nel saggio (citato ed elogiato anch'esso dentro questo blog) Il Vangelo secondo Shakespeare...

E anche un contemporaneo del Bardo credeva nell'esistenza del mondo dell'al di là in quanto mondo abitato da morti "parlanti": nel Prologo alla sua opera postuma (la meno letta di quante arrivò a pubblicare), ovvero a Los trabajos de Persiles y Sigismunda, Miguel de Cervantes (che, a quanto sostengono alcuni, morì il 23 Aprile 1616, ovvero, lo stesso giorno in cui esalò l'ultimo respiro pure William Shakespeare) ipotizza un mondo in cui ritroverà i suoi amici e familiari più cari, anzi, anticipa quel mondo e li saluta mentre è ancora vivo: "Adiós, amigos, adiós donaires, adiós regocijos", cito non verbatim e quindi sicuramente sbagliando, ma la sostanza è quella, e cioè: "Addio, amici, addio allegrie, addio divertimenti", e poi continua: "Vi rivedrò di là", come se "di là" fosse il luogo predisposto a riprendere i divertimenti della Terra, e lo spazio ideale in cui riannodare il filo delle conversazioni passate...

E se torniamo indietro nel tempo, ci accorgeremo che anche i greci e i romani credevano che "di là" i morti non dormissero affatto e fossero piuttosto pronti a parlare: è quanto succede nelle scene della catabasi o discesa agli Inferi (o all'Ade) presenti sia nell'Odissea di Omero che nell'Eneide di Virgilio... Nel primo caso Ulisse ritrova sua madre, prima di ascoltare la profezia di Tiresia (e tutti ricorderanno quella scena, piena di pathos e di lacrime e d'emozioni forti); nel secondo caso Enea ritrova Didone, amata e poi tradita e qui pronta a scaricare sull'eroe tutta la sua delusione amara e la sua rabbia di morta che ancora si sente legata alla vita...

Evidentemente, Dante (allievo di Virgilio per molti versi) si ricorderà di queste due famosissime scene e le terrà presenti nel corso di tutta la scrittura (e l'originalissima invenzione) del suo Inferno, un mondo in cui tutti i peccatori vogliono parlare o avvertono l'irresistibile desiderio di farsi conoscere dal Nostro affinché porti notizie ai parenti o ai conoscenti rimasti in vita sulla Terra.

Dopo la domanda iniziale che ho riportato integralmente, Lowry (attraverso il narratore) aggiunge (in corsivo e in francese nel testo): 

"Mais tout dort, et l'armée, et les vents, et Neptune", che tradotto letteralmente (più o meno) significa: "Ma tutto dorme - o tutti dormono - e l'armata - o l'esercito - e i venti e Nettuno"...

E uno si domanda: ma da dove li avrà pescati questi versi Malcom Lowry? E poi ancora: ma perché li cita in francese? E, infine, si dirà e penserà: forse è così, una volta morti tutti dormono, perfino gli eserciti, perfino i venti, perfino Nettuno.

martes, noviembre 11, 2014

FRANKENSTEIN IN QUANTO “PARLANTE IN FASCE”


Quando si leggono i “classici” si fanno delle scoperte sensazionali. Magari si tratta di libri letti tanti anni fa, quando ancora non avevamo la stessa “enciclpedia culturale”, quando eravamo ancora dei lettori in erba o dei giovani di buone speranze (o di Great Expectations, come direbbe il caro vecchio Charles Dickens). E il tempo, ovviamente, cambia le carte in tavola, modifica la percezione del “classico”.

È quanto ho sperimentato l’estate scorsa tornando a rileggere Frankenstein (or, The Modern Prometheus), di Mary Shelley, uno dei capostipiti del cosiddetto genere “gotico”, romanzo cult che ha fatto paura a infinità di lettori di ogni parte o latitudine del Mondo, pubblicato nel 1818 e tradotto al cinema un numero svariato di volte (essendo il “mostro” un personaggio perfetto per la settima arte: tutti i mostri lo sono, ma uno come Frankestein – che, è bene ricordarlo, non è il nome del “mostro” bensì quello del Dottore che lo crea – lo è ancor di più, essendo un cadavere che torna a vivere e quale attore non lo è una volta morto e una volta che torna in vita solo grazie alla visione del film da parte dello spettatore che lo vede “agire” in quanto “personaggio”… ma non divaghiamo…).

Ebbene, rileggendo il classico che la moglie del Poeta s’inventò in una tetra notte d’inverno e nel corso di una scommessa tra amici (“vediamo chi riesce a scrivere il racconto di terrore più pauroso”), mi sono accorto di un fenomeno stranissimo che coinvolge il personaggio: Frankenstein (chiamiamolo così, anche se non è il suo vero nome, perché, semplicemente, il “nuovo Prometeo” non ha un nome) non sa parlare la lingua degli esseri umani. È un mostro anche per questo motivo; non può utilizzare il linguaggio verbale che usano gli altri per poter comunicare tra di loro. È privo del dono della parola. Ed è per questo che il lettore assiste quasi affascinato, quasi esterrefatto, alla nascita del linguaggio in Frankenstein quando questi si avvicina alla casa dell’allegra famigliola nei cui pressi si rifugia dopo essere scappato dall’antro dello scienziato pazzo o mad doctor che lo ha creato. A forza di spiare, a furia di captare i suoni dei suoi vicini di casa, Frankenstein inizia a capire il significato delle parole che essi utilizzano quotidianamente per comunicare; Frankenstein impara letteralmente l’inglese grazie agli abitanti della casa nei cui pressi fissa la sua dimora. E come Adamo nel Paradiso terrestre, così Frankenstein, nel limbo in cui è costretto a muoversi –causa del suo aspetto mostruoso non può mostrarsi in pubblico, pena lo spavento e la fuga della persona che gli capita davanti – inizia a nominare le cose che lo circondano, a capire che il verso che fa la rondine che si posa sul ramo dell’albero ha un nome (cinguettare), che ogni cosa, ogni oggetto, ogni elemento che lo circonda può essere “nominato”, e la scoperta ha un che di straordinario, Frankenstein potrebbe imparare qualsiasi lingua, oltre all’inglese, e potrebbe perfino sperare di venire capito da quegli esseri umani che tanto lo temono.

La scena in cui Frankenstein tenta di entrare in contatto con i suoi vicini è memorabile e mitica proprio per questo: perché noi lettori assistiamo al disperato tentativo di un “bambino” del linguaggio verbale, di un “parlante in fasce”, di un poppante della lingua inglese che cerca di balbettare un messaggio di senso compiuto e, nel fare ciò, si dimentica per un attimo dell’ostacolo più grosso che si frappone tra lui e il resto dell’umanità, ovvero, si dimentica di quell’aspetto mostruoso, di essere deforme e gigantesco, fatto di pezzi di cadaveri rattoppati sotto un’unico cervello pensante e senziente, che tanto panico provoca nel prossimo. In questa scena Frankenstein fa letteralmente pena: perché le sue intenzioni sono nobili, ma il suo aspetto è terribile e provoca rigetto. Entra nella casa e non riesce a parlare e a spiccicare bene le parole e la reazione dei vicini è quella di sempre: grida, schifo, terrore.

È anche questa impossibilità di comunicare con gli altri ad aggravare la situazione; il mostro diverrà più “mostro” anche per questo motivo. E giurerà eterna vendetta al Dottore che l’ha creato senza uno strumento così importante come la capacità di sapersi esprimere a parole. Se Frankenstein parlerà sarà per spargere odio e terrore; per lasciare tracce del suo passaggio da animale braccato, per gridare ai quattro venti che non l’ha voluto lui, che non è stata colpa sua, se qualcuno ha deciso di “metterlo al mondo” in quel modo, con quelle fattezze e senza quella lingua che ci rende umani.

È stata una lettura estiva fatta sotto il sole. Ma è stato bello anche così: leggere di brume, nebbie, inseguimenti e rapimenti, coccolato dalla brezza marina e dal rumore (sempre ipnotico) delle onde del mare in bonaccia.

miércoles, noviembre 05, 2014

POLONIA




Tra poco meno di un mese dovrò andare in Polonia per motivi di lavoro; parteciperò a un congresso in cui avrò modo di rivedere e riabbracciare vecchi colleghi e cari amici. Eppure… da quando ho accettato l’invito e ho pagato la mia quota d’iscrizione; da quando mi hanno dato risposta affermativa e mi hanno mandato il programma provvisorio del congresso stesso; da quando ho fatto i biglietti aerei e del treno che mi porteranno da Madrid a Varsavia… mi è venuta una strana paura, un timore reverenziale, una sorta d’inesplicabile senso d’angoscia nei confronti della Polonia e di Varsavia…

Non so perché, non c'è nulla di razionale in questa mia angoscia, però è così: ho come la sensazione che questo viaggio andrà male; ho il vago sentore che durante questo viaggio potrei rimetterci la pelle. Può cadere l’aereo; il treno potrebbe deragliare; così,  pure, la metro di Madrid (che è all’avanguardia e una delle metro migliori del mondo, ma il guasto tecnico, oltre che umano, può sempre scapparci); a Varsavia potrebbero scipparmi, o potrei perdermi e non ritrovare mai più la giusta direzione; potrei imbattermi in qualche delinquente pronto a tirare fuori un coltello per sgozzarmi, potrebbe cadermi addosso un ramo d’albero sulla strada pubblica (è successo a Madrid, sono già svariati i morti per “crollo di ramo d’albero”, che razza di morte assurda...). 
Insomma, non so perché ma ho come l’impressione che io morirò in terra polacca. E la cosa, ovviamente, non mi fa per niente piacere. Né mi fa ridere. Anzi, tutto il contrario.

Ho cominciato a parlare con la mia compagna di sventure (che avrebbe tanto voluto, ma che non può, partecipare a questa spedizione accademica); e poi con mia madre, che si è giustamente spaventata (quando si è trattato di viaggiare, ho sempre cercato di rasserenarla e rassicurarla, mia madre è un tipo ansioso, ho sempre tentato di risparmiarle qualche spavento di troppo, come se fossi un esperto nomade, un navigato globe-trotter). E avrei voglia di confidarmi con mia sorella, ma anche lei si agita facilmente, meglio evitare (e lei odia viaggiare, a differenza mia). O con mio fratello, più disponibile agli spostamenti rispetto a mia sorella, ma ho paura che mi prenda per matto o per scemo o per tutte e due le cose.

E il bello è che ormai non solo ho già pagato quanto dovevo pagare; non solo il mio nome e cognome reali appaiono nel programma (a quella data ora e in quel dato giorno); non solo ho già quasi fatto la valigia, ma…ho già scritto anche il mio intervento sul tema del congresso che, guarda un po’ la casualità, ruota attorno al concetto di “paura” (le immagini della paura nelle letterature europee)…

Forse è solo una mia paranoia temporanea. Forse è perché ultimamente vedo troppi film horror. Forse è solo un po’ di stress. Una cosa è certa: io della Polonia non so quasi nulla; a Varsavia non ci ho mai messo piede; non so cosa mangiano lì, né ricordo come si chiama la moneta corrente nazionale; vorrei tanto che non diventasse il luogo in cui morirò. Non so se m'imbatterò in un lupo mannaro (i vampiri, no, quelli vivono in Romania).

Polonia: ufficialmente “Repubblica di Polonia”; fa più di 38 milioni di abitanti (noi italiani siamo quasi il doppio); fu invasa da Hitler nel 1939 e da tale invasione derivò lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale; fu poi annessa all’URSS di Stalin, diventando, di fatto, uno stato satellite della Russia; poi ci fu la cosiddetta Solidarnosc, un movimento sindacale contrario al regime totalitario comunista. Poi non so com’è finita questa storia.

Polonia: scrittori famosi che conosco: nessuno.


Polonia: registi famosi che conosco: Krizystov Kieslowski (quello del Decalogo e dei Tre film sui colori della bandiera francese, oltre che dello stranissimo La doppia vita di Veronica). E basta. Quanta ignoranza. Quante cose ancora da scoprire. Speriamo solo di non lasciarci la pelle. E di non imbattermi in fantasmi o lupi mannari o vampiri assetati di sangue...

martes, noviembre 04, 2014

Under the volcano, di Malcom Lowry (1947): la discesa agli Inferi di un’antieroe dei nostri tempi



Ci sono romanzi che lasciano il segno, sin dalle prime righe, sin dal prologo. E ci sono romanzi che, oltre a lasciare il segno, ti rendono subito partecipi delle ansie, delle angosce, delle paure e dei traumi dei loro protagonisti. È questo il caso di un classico della letteratura del Novecento, Under the volcano, di Malcom Lowry, un romanzo rifiutato dagli editori, scritto e riscritto dall’autore, e alla fine assurto alla categoria di “classico”, quando forse nemmeno Lowry ci sperava più…

Mix perfetto di sentimentalismo non sdolcinato e di romanticismo triste, il romanzo narra la discesa agli Inferi di un console che finisce col lavorare in un paese del Messico perduto in mezzo ad una foresta di stampo amazzonico e sito alle falde di due vulcani a riposo. Laurelle è il testimone oculare dell’autodistruzione del console, Geoffry, un uomo buono, uno qualunque, che si ritrova a vivere un dramma moderno quale è il divorzio da Yvonne, sua moglie, giovane e paziente, tornata a Quauhnahuac (così si chiama il paesino di cui sopra) per tentare di salvarlo dall’alcolismo (essendo diventato il whiskey l’arma che Geoffry usa contro se stesso, quasi per morire in vita, o per sotterrarsi con le sue stesse mani).

C’è anche un altro personaggio a occupare il primo piano: il giornaliste free-lance (si direbbe oggi) Hugh, uno che è stato in Spagna allo scoppio della Guerra Civile, un americano che – come tanti all’epoca – ha subito il fascino della lotta repubblicana contro i franchisti e ha quasi finito con l’arruolarsi tra i soldati volontari delle Brigate Internazionali (ma l’intero romanzo è punteggiato dai ricordi di questa fase della storia recente; oltre che da molti ammiccamenti a Don Chiosciotte, personaggio letterario evocato spesso dal Console).

E a proposito di Cervantes e della sua creatura fittizia, è proprio Don Chisciotte a dare il là ad una sorta di monologo interiore di Geoffry, o meglio, alla lettera che questi rievoca e che spedì anni prima a sua moglie Yvonne… Una lettera che mi ha fatto quasi piangere, che commuove e smuove l’animo del lettore, che ci spinge a riflettere sul dolore che può scatenare una dipendenza, sia essa dovuta all’alcohol o sia essa collegata a un amore che si percepisce ormai come finito o spezzato per sempre…


E non resisto alla tentazione di trascrivere parte di questa lettera, che dà l’idea dello stile cinematografico di Lowry e che - penso e spero - fa giustizia a un romanzo che strega e lascia il segno e penetra dentro l’anima del lettore e lo scuote e lo spinge a riflettere e a ricordare e a piangere e a sospirare:

“Ma, oh, povero Cavaliere della Trista Figura! Perché , sì, Yvonne, sono così continuamente ossessionato dal pensiero delle tue canzoni, del tuo calore e della tua letizia, della tua semplicità e comunicativa, delle tue capacità in cento cose, della tua fondamentale sanità, del tuo disordine, della tua ugualmente eccessiva lindura… i dolci inizi del nostro matrimonio. Ricordi i Lieder di Strauss che solevamo cantare? Una volta all’anno i morti vivono per un giorno. Oh, ritorna a me come una volta in maggio. I Giardini del Generalife e quelli dell’Alhambra. E ombre del nostro destino al nostro incontro in Spagna. Il bar Hollywood a Granata. Perché Hollywood? E quel monastero: perché Los Angeles? E la Pensión México, a Malaga. E tuttavia nessuna cosa potrà mai sostituire l’unità che noi conoscemmo una volta e che Cristo solo sa che deve esistere ancora in qualche luogo” (p. 49 dell’ed. Feltrinelli del 1977, con traduzione – un po’ invecchiata, come si nota anche da questo brano – di Giorgio Monicelli).


Che potenza! Che delirio! Che tristezza infinita! E uno si domanda: esatto, è così, è proprio vero, dove diavolo (o dove Cristo) sarà finita quell’unità che conoscemmo una volta con quella persona che amammo in passato? In che luogo? Dove finiscono le forti intese che cementavano rapporti amorosi che sembravano destinati a durare per sempre? Lowry, anche lui, è un'antieroe donchisciottesco, per le domande che si pone e che ci spinge a porci.

martes, octubre 21, 2014

Tre carrozze ferme



Ci sono fenomeni che uno non riesce a spiegare o a spiegarsi; come trovare un libro di Giovanni Verga che s’intitola come me, o meglio, come il mio cognome (che non dirò qui, per una mia stramba paura e un mio strano desiderio d’anonimato) e che, a quanto pare, diverrebbe la prova comprovata della validità dell’albero genealogico che mio nonno fece riscotruire anni fa da un’esperto in genealogie… E poi ci sono altri fenomeni cui si assiste quasi inebetiti, quasi a bocca aperta, quasi impotenti, come se la ragione (e la razionalità) non sapesse che farsene dei suoi potenti mezzi, come se la ragione fosse condannata a girare a vuoto (e le domande si accumulano e non si trovano risposte né vie d’uscita di sorta).

Ecco, in questo secondo caso, per quanto concerne queste secondo tipo di fenomeni, posso citare qui i tre vagoni che ho scoperto per caso all’interno del giardino di una casa minuscola in aperta campagna a esattamente 7 kms da casa mia…

Si tratta di una casa piccola rispetto all’enorme giardino che la contiene; è come una sorta di piccolo monolocale (a due piani, col comignolo che spunta dal tetto) disperso in mezzo al deserto. E dentro questo deserto si trovano adagiati direttamente a terra ben tre diversi vagoni di treno. Le strutture sono in ferro battuto e, perciò, completamente arrugginite, mentre il resto è in legno, rovinato, rosicchiato dalle tarme, mezzo spaccato o aperto su alcuni lati per via delle condizioni atmosferiche (quei tre vagoni devono essere stati testimoni silenti di chissà quante alternanze di notte e giorno e di chissà quante primavere, estati, inverni e autunni).

E la domanda che sorge spontanea è ovviamente questa: ma come diavolo ci sono finiti questi tre vagoni dentro il giardino in stile Reggia di Caserta del proprietario di questa strana casetta di campagna? E chi ce li ha portati fin là? E soprattutto, come? In elicottero? Con un tir per carichi speciali? In macchina? Impossibile. Come, allora?

Uno si ferma a pensare e immagina i binari della possibile ferrovia che doveva passare di là, nelle vicinanze. Uno si ferma con la bici e scende e si accosta alla rete metalicca che gli permette di sbirciare nei giardini altrui, nella proprietà privata di un altro, ma non riesce proprio a scorgere nessun passaggio a livello di sorta, né tantomeno dei binari che possano giustificare l’assurda presenza di questi tre vagoni che sembrano sopravvissuti all’alternanza delle varie ere glaciali e all’estinzione dei dinosauri.

Come diavolo hanno fatto ad arrivare fin qui?
Come e perché si sono spiaggiati proprio dentro questo rettangolo di terra in mezzo a cui sorge quella casa da nani il cui proprietario non riesco mai a vedere in giro (glielo domanderei subito: “Mi scusi, scusi la mia curiosità, ma lei, come ha fatto a ritrovarsi tre vagoni di treno in casa? Dove li ha presi? E non le danno alcun problema, parcheggiati come sono lì dentro?”).

Parcheggiati, no, la parola non è quella giusta: piuttosto, mi ripeto, sembrano spiaggiati, come le balene o le foche quando perdono l’orientamento e smarriscono la rotta.

E uno si domanda pure: quante persone (se si tratta di persone) avranno trasportato questi tre vagoni di treno? Quante merci (se parliamo di merci) avranno sposato da un punto all’altro del globo terrestre? E avranno viaggiato solo su binari spagnoli (visto che siamo in Spagna) o anche su binari stranieri (magari italiani, attraversando la terra in cui sono nato)?

Niente. Non so rispondere. Non si trovano proprio le risposte per questo tipo di domande (forse oziose, forse perfettamente inutili). E ogni volta che passo davanti a quel rettangolo di terra, il mio sguardo viene immeditamente attratto verso di loro, sì, verso i tre vagoni di un treno che non c’è più (dove sarà la locomotiva che li spingeva ad alta velocità sui binari?). Le ruote sono anch’esse arrugginite e mezzo sprofondate nel terreno (le ruote bloccate nella terra sono l’esatta negazione della loro funzione tipica: la velocità, qui immobilizzata dalla terra); qualche ciuffo d’erba spunta anche dall’interno dell’intelaiatura di legno. Chissà quanti topi o gatti o insetti o altri animali più o meno selvaggi avranno usato (o usano ancora) queste tre carrozze come casa loro, come l’habitat ideale… E chissà se e quando il padrone della casina si deciderà a dare loro una bella ripulita: ci sarebbe lo spazio sufficiente per creare, chessò, una carrozza ristorante e una con la piscina e magari un’altra per farci una biblioteca ambulante (o fissa, visto che la locomotiva che spinge il tutto non c’è più).


Quanti fenomeni strani nella vita; quanti ancora da vedere. E quanti resteranno misteri insolubili.

miércoles, octubre 15, 2014


A volte mi domando...


A volte mi domando a cosa serve fare questo mestiere, trasmettere un minimo di cultura, provare a contagiare gli studenti col nobile virus della lettura (o della passione per la lettura), provare a portare avanti il discorso degli Umanisti, in un mondo come il nostro in cui d’umanista (per non dire, “d’umano”) è rimasto ben poco.

L’altro giorno, a lezione, faccio un po’ di domande, tanto per tastare il livello generale degli alunni che ho di fronte, per misurare un po’ la temperatura culturale di chi viene all’Università per seguire corsi di Lettere e Filosofia:

“Lo conoscete Daniel Defoe? Avete mai letto Robinson Crusoe?”, chiedo.
Niente.
“Charles Dickens?”
“È quello del Racconto di Natale?”
“Sì, l’ha letto?”
“No” (ecco, te pareva).
“E sapete cosa ha scritto Lewis Carroll?”
Silenzio di tomba.
“Avete mai visto Alice nel paese delle Meraviglie?”
Qualcuno alza la mano per dire sì. Chiedo quale versione, se il cartone animato o il film di Tim Burton.
“Tim Burton”, mi risponde.
“Sapete quali altri film ha fatto Tim Burton?”
Batman”, risponde uno coi rasta, dal fondo.
La sposa cadavere”, aggiunge un altro.
The Nightmare Before Christmas”, aggiungo io, e poi anche: “Edward Mani di Forbice, qualcuno di voi l’ha mai visto, con Johnny Depp, attore feticcio del regista americano? E Beetlejuice?”.
No questo non l’ha visto nessuno, è del 1988, se non erro, loro non erano neppure nati, io avevo solo 10 anni, figuriamoci se hanno mai visto Beetlejuice…uno dei film più anarchici e divertenti e folli di Tim Burton…
E poi continuo, con le domande sulla letteratura:
“E Cent’anni di solitudine? Qualcuno l’ha letto?”.
“So che è un romanzo di Gabriel García Márquez”, fa una, in prima fila. È già qualcosa.
“E l’Odissea? Sapete chi l’ha scritta?”.
Nulla. Il vuoto. Silenzio assoluto. E insisto, scioccamente: “E l’Iliade?”
Niente. Non reagiscono. Saranno una quarantina. Non li ho mai visti con un libro in mano. Non voglio fare il moralista o il solito apocalittico “non integrato”, ma mi sconvolge sempre vedere che studenti di Lettere e Filosofia non leggano, se si eccettuano i telefonini, o i tablet, su queste nuove teconologie hanno sempre gli occhi fissi, quante retine si bruceranno o quante pupille arrossiranno, alla fine di quest’anno accademico.
“Omero. È stato Omero a scrivere l’Odissea e l’Iliade, anche se ancora oggi non sappiamo chi si nasconda dietro questo nome”. Voglio farmi del male:
“E qualcuno sa chi ha scritto Ulisse? La versione “moderna” dell’Odissea?”.
Niente, come prevedevo.
“È stato James Joyce, uno che diceva di aver scritto un romanzo che avrebbe fatto impazzire i critici e i professori, gli interpreti, via, per almeno altri 100 anni dalla data di pubblicazione e in parte ci ha azzeccato, se pensate che Ulisse apparve in librería nel 1922”.
Poi, per una rapida associazione d’idee cito T. S. Eliot, e The Waste Land
“Avete mai letto La terra desolata?”.
Che razza di domande, avranno tra i 21 e i 22 anni, cosa pretendo? Questa è gente nata nel 1995 o 96 o al massimo 94…
“Francis Ford Coppola, però, vi prego, almeno lui, ditemi che lo conoscete!”.
Una ragazza timidamente fa cenno di sì con la testa. Ha visto Il Padrino. Tutte e tre le parti. Non sa che Apocalypse Now è una riscrittura di Hearth of Darkness di Conrad e che contiene un’omaggio velato al T. S. Eliot di The Waste Land e, soprattutto, una citazione da The Hollow Men (“Siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia”… queste le parole che declama un Kurtz-Marlon Brando stralunatissimo…).

Uno si domanda che tipo di lettori saranno i futuri laureati in Lettere e Filosofia. E si chiede che senso ha provare a trasmettere il virus benefico della lettura (o della cultura in generale, per questo ho fatto anche domande sul cinema) a gente che non ha curiosità, non mostra nessuna voglia di leggere o di studiare per informarsi e migliorarsi, non mostra alcuna curiosità nemmeno verso le cosiddette “pietre miliari” della Storia del Cinema.
Le Università stanno diventando (se non lo sono diventate già) degli esamifici, luoghi in cui ciò che conta è il voto all’esame e il numero (matematico, esatto, fiscale) di “crediti” che uno deve sorbirsi se vuole la laurea, un pezzo di carta come un altro, ormai, per tanti, purtroppo, anche per quei pochi che vengono per studiare e approfondire e imparare davvero, anche per i bravi…

Uno si domanda che senso abbia il suo lavoro (riflettere sul linguaggio, spingere a riflettere sul mondo attraverso gli occhi delle opere letterarie) quando il mondo (in generale) sembra andare da tutt’altra parte…

lunes, octubre 06, 2014

La vita in tempo di pace, di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2013), ovvero: la vita al ralenty


Era da tempo che non mi capitava di leggere un romanzo di uno scrittore italiano; è da anni che aspetto che escano i nuovi “parti” di gente come Antonio Moresco o Sandro Veronesi (in realtà, del primo sono usciti già due titoli, l'anno scorso, mentre il secondo si prepara a mandare nelle librerie il suo Terre rare – bella la copertina, un po' meno il titolo, ma staremo a vedere... di certo sappiamo già che in quest'opera ricomparirà quel Pietro Paladini protagonista “immobile” di Caos calmo, risalente ormai a ben 9 anni fa).

E così, ecco che mi capita tra le mani La vita in tempo di pace, di tale Francesco Pecoraro, a me del tutto ignoto, nonostante la fascetta m'informi che questo romanzo è giunto in finale per il Premio Strega di quest'anno.

Un primissimo elemento che sorprende di questo libro è certamente la sua lunghezza: le 509 pagine dell'edizione che maneggio io avrebbero potuto essere tranquillamente il doppio se editore e autore avessero deciso di stamparlo in caratteri un po' più grandi. Si ha la sensazione di stare leggendo un classico, in una di quelle tipiche edizioni che spaventano un po' anche il più onnivoro dei lettori; La vita in tempo di pace è un tomo considerevole, occupa spazio, anche se è leggero, è imponente, sebbene la trama sia piuttosto risicata o labile o flebile.

L'ingegner Ivo Brandani è in attesa dell'aereo che lo riporterà in Egitto per realizzare una mega-opera che consiste nel riprodurre su scala reale la costa corallina del Mar Rosso; si tratta di un cosidetto fake, ma cosa non lo è, o non lo potrebbe diventare, in un futuro prossimo? A proposito di futuro, il romanzo inizia un 29 Maggio del 2015 alle ore 9:07 del mattino. Siamo insomma in un mondo futuribile molto vicino al nostro presente. E questo mondo e questo presente cominciamo a rileggerli attraverso lo sguardo, il pensiero e i ricordi (occhi, mente e memoria) del nostro Anti-eroe, che sì, fa l'ingegnere e si preoccupa di costruire ponti o di progettare opere monumentali, ma in passato ha frequentato la Facoltà di Filosofia e avrebbe tanto voluto dedicarsi a tempo piano proprio a questo, al “pensare”, al “riflettere”, al “ragionare” sopra le Ultime Cose (le maiuscole: Pecoraro abbonda nell'uso ironico e a volte melodrammatico delle maiuscole; Padre e Madre essendo le due figure più importanti che ci siano all'interno della trama).

E insomma, il romanzo scorre lungo il flusso di coscienza debordante, strabordante e anche piuttosto interessante di questo “io” che aspetta di imbarcarsi e aspettando pensa e ricorda e riflette sulla sua vita passata, ma anche su quella presente (sua e dei suoi simili). E nonostante tutto, e nonostante la quasi assenza totale di trama, non ci annoiamo, il lettore è invitato a ripetere mentalmente lo stesso esercizio di riflessione che conduce il Nostro:

“Quando pensiamo, non facciamo che smontare e rimontare continuamente dati finché non vi troviamo un senso: la filosofia è interessante per questo” (p. 282).

Ecco, è questo il merito del romanzo: spingerci a pensare e a fare “filosofia” leggendo. Brandani riflette su tutto; si ha come la sensazione che questo suo ennesimo viaggio di lavoro sia l'ultimo, come se ormai, giunto al traguardo dei 69 anni, ormai vecchio, Brandani sentisse il bisogno di liberarsi dalla mole di rabbia, di rancore, di stress che ha accumulato nel corso della sua intera vita e usasse questa attesa in aeroporto per mostrare a se stesso e, di riflesso, a noi lettori, questa sua “filosofia portatile” o “ambulante”, una filosofia in cui si tenta la cartografia (oltre che la radiografia) di una società precisa e circoscritta, ovvero, dell'Italia che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli inizi (appunto) dei primi vent'anni del XXI secolo.

E questo è un altro dei fattori a favore o dei punti di forza di questo libro: Pecoraro si prefigge l'ambizioso progetto di costruire un' “opera mondo” (per dirla con Moretti) per metterci dentro tutto, circoscriverci il tutto o tutto quanto egli sa o è venuto a sapere sull'Italia, un paese impossibilitato a gestire il caos, un paese in cui nessuno sa cosa vuol dire il “bene comune”, un mondo a parte bravissimo ad auto-compiangersi e auto-criticarsi, ma incapacissimo di migliorare o di andare avanti per strade più morali e più civili.

Leggiamo i pensieri di questo ingegnere e vediamo Roma (chiamata la Città di Dio, nel romanzo) il giorno in cui il Tevere straborda e si allaga tutto e tutto va in tilt. E poi vediamo i meccanismi perversi e malati di una grossa impresa che tenta di manipolare il Nostro attraverso il profumo dei soldi (la frase “Non sono come voi” l'ingegner Brandani se la ripete spesso, in questa fase “rampante” della sua vita di giovani imprenditore, ma ormai sa che fa parte del sistema e che la sua tessera del Partito Comunista non ha più alcun valore – perché il capitalismo è ovunque, ha sfondate le difese di ognuno, non c'è più nulla fare). Si tratta di uno dei capitoli centrali (e migliori) del romanzo, quando il capo invita l'ingegnere a passare una vacanza sul mare con sua moglie e la sua barca enorme da arricchito e Brandani accetta controvoglia e si ritrova nella trama di Il coltello nell'acqua di Roman Polanski (uno di quei film che mostra alla perfezione la teoria hobbesiana dell' “uomo come lupo verso gli altri uomini”). E vediamo pure la giovinezza di questo Anti-eroe, quando, appunto, frequenta le lezioni di Filosofia per diventare anche lui, a sua volta, un filosofo e si scontra (anche fisicamente) con un mondo in preda alla frenesia della Rivoluzione del Maggio parigino: il 68 come annus mirabilis per fare e disfare il vecchio sistema, gli anni 70 (pre-Brigate Rosse) come isola felice per riportare la giustizia anche all'interno dell'Università (via i baroni, via i programmi scelti dall'alto, senza consultare le esigenze e gli interessi del popolo studentesco). E così capiamo che ogni capitolo rappresenta uno scalino in più che ci fa metaforicamente “scendere” lungo l'asse della cronologia personale di Brandani: dalla giovenizza all'adolescenza e poi giù verso l'infanzia e i primi contatti con il mondo (la cacca, i vermi, la chiesa, le prediche delle suore e del Padre - figura mortalmente decisiva per Brandani anche perché più invecchia e più tende a rassomigliarsi al genitore, la sua faccia traspare dallo specchio di Brandani vecchio -  e della Madre – figura positiva e rassicurante, la donna che lo protegge, col suo profumo di buono).

A fare da “incipit” e da “explicit”, ad aprire e chiudere come un circolo l'intero romanzo, una riflessione apocalittica sui batteri e sui parassiti, sulla malattia che è vita e che causa morte in continuazione. Sono pagine esagerate, in cui l'iperbole la fa da padrona, come si suol dire, ma anche liriche, ritmate, pagine in cui vediamo all'opera una mente che non si stanca di vedere il marcio intorno a noi e dentro di noi, una mente che si direbbe “nichilista”, perché non sembra farsi illusioni né sembra credere in Dio né in un ordine prestabilito. La mente di un filosofo, che va alla ricerca di un senso che si sa già (purtroppo) perduto.


Un romanzo, questo di Pecoraro, che ci fa vedere la vita al ralenty. E l'operazione è riuscita, forse anche grazie all'età anagrafica, Anche Pecoraro come il suo protagonista ha 70 anni. Anche lui ha vissuto parecchio prima di dirci come stanno effettivamente le cose...

martes, septiembre 30, 2014

Parallel Universes (or Quantum Worlds)




Stephen Hawking, uno degli scienziati più intelligenti e illustri del Pianeta, a detta degli esperti, sostiene che Dio non esiste e che sì si può dimostrare l’esistenza di Universi Paralleli.

C’è qualcuno (una ex fidanzata) che ancora mi vede andare in giro in bici per le strade del centro di Firenze (quando, effettivamente, sfrecciavo davanti agli Uffizi con la mia fedele mountain-bike per andare a lavorare in hotel); c’è ancora chi mi vede passeggiare lungo Via del Corso, a Roma, tra Piazza del Popolo e Piazza Venezia, alla ricerca di qualche libro difficile da trovare nelle normali librerie del centro; e c’è la vicina di casa che ancora mi vede giocare a pallone (un pallone di cuoio, duro, consumato, pieno zeppo di graffi) nel campetto antistante la casa di mia nonna, in uno dei quartieri più rozzi e caratteristici della cittadina sui monti abruzzesi in cui sono nato.

E di sicuro ci sarà ancora chi mi vede ubriacarmi e dire stronzate a squarciagola all’uscita dei locali più alla moda di Malasaña, una delle zone studentesche più divertenti della “movida” madrilegna; e chi mi vede tutte le sere seduto alle Spallette sul Lungarno pisano, a pochi passi da Piazza dei Cavalieri, mentre disquisisco di letteratura con dottorandi provenienti da mezza Europa.


E forse c’è ancora chi mi vede studentello imberbe che parla di sesso con la sua migliore amica lungo la strada del ritorno a casa, una strada piena di sassi e di buche, di macchine che sollevano la polvere al loro passaggio e lastricata di dubbi e domande esistenziali: c’è vita in altri pianeti? C’è qualcun’altro, oltre a noi, nell’Universo? Quanti Universi esistono, o possono esistere, o possiamo arrivare ad immaginare? Il Bing Bang avrà una fine? E se sì, quando?

lunes, septiembre 29, 2014

CUBA



Nell’ultimo mese di Agosto (il periodo delle tanto agognate, desiderate, sognate ferie), ho fatto varie cose strambe che non sto qui ad elencare (una su tutte: praticare il nudismo con la mia sensuale e meravigliosa compagna di avventure su una paradisiaca spiaggia selvaggia del Sud leggendo Frankestein di Mary Shelley sotto il sole cocente, scoprendo un’opera letteraria di primo livello e di cui disquisirò debitamente su questo blog a suo debito tempo).

Un’altra cosa che, invece, mi ha cambiato profondamente il modo di vedere il mondo, che mi ha turbato, sì, insomma, che mi ha lasciato un’impronta indelebile è stato il viaggio che ho fatto a Cuba, l’isola di Fidel Castro, nelle prime due settimane di Settembre.

Cuba… Che paese strano! Che posto incredibile! Un paese pieno di colori, di musica (ad ogni angolo della strada, in ogni bar o ristorante o hotel del centro), di gente vestita con toni accesi e vivacissimi, di donne provocanti, di ragazze spensierate, di gente che lavora, di molti, forse troppi manifesti che inneggiano alla “Revolución”, di tanti, forse davvero troppo ingombranti poster con la faccia del Padre della Patria…

E allora ecco che, di fronte a questi mega-poster, di fronte a questi faccioni giganti o gigantografie di quelli che comandano e governano, uno inizia a domandarsi come fanno a vivere i cubani a Cuba, uno capisce, o meglio ancora, intuisce, che sotto il velo delle apparenze si nasconde un’altra Cuba, un’isola non poi così tanto felice come sembra a primo acchito.

Ho avuto modo di parlare con i cosiddetti “dissidenti”: un tassista, laureato in ingegneria meccanica, preferisce fare il lavoro che fa perché con le mance guadagna di più che con lo stipendio che gli offre lo Stato; alla reception di vari hotel di lusso (per europei) lavorano molte professoresse o docenti di scuola media e superiori (anche loro preferiscono la strada del “turismo” a quella dell’insegnamento per via dello stipendio); in un mercato della frutta mi sono imbattuto in un architetto che ora vende pomodori e che nel suo passato recente ha tentato ben 4 volte di attraversare il mare per approdare a Miami o in Florida. Mi ha raccontato degli squali che in quella zona possono sbranare gli improvvisati fuggiaschi. Ci sono film che parlano dei tentativi disperati di molti cubani di arrivare in terra “nemica” (gli americani sono i “nemici” per eccellenza per molti cubani convinti dalle vulgata del Padre della Patria). In una gelateria ho chiacchierato con un muratore che, per arrotondare, quando può va a lavorare nel porto e s’improvvisa pescivendolo; sua figlia di 14 anni suona il piano, ma sia lui che sua moglie (una bellissima mulatta dalla labbra carnose e gli occhi luminosi, una donna tutta curve, come lo sono molte cubane) sanno che non avrà futuro, a meno che non uscirà dall’isola e andrà a cercare fortuna all’estero (se resta a Cuba, come minimo, finirà a suonare per i turisti in uno dei tanti hotel de La Habana). E allora chiedo informazioni più dettagliate su come funzionano il mondo della sanità e quello della scuola, su come si organizza lo Stato circa il diritto alla salute e quello allo studio: “Semplice; lo Stato ti paga l’educazione fino all’Università, ma poi ti affibbia un lavoro con uno stipendio standard irremovibile, immodificabile, a vita. Sai quanti medici cubani scappano negli USA? E sai che se tornano in patria, dopo aver fatto i soldi, rischiano l’ostruzionismo da parte degli altri cubani che li vedono come “arricchiti” e “traditori della Rivoluzione? Per quanto riguarda la salute, anche a quella ci pensa lo Stato, ma se hai bisogno di prendere medicine importate, che vengono da fuori, prega Dio di averci i soldi per comprarle, perché quelle non te le paga nessuno, e non ci sono sconti per nessuno”.

Torno a guaradre i cartelloni con la faccia di Ernesto Che Guevara. Un mito, una legenda, una figura storica centrale, non c’è che dire. Il primo giorno andiamo a visitare il Museo de la Revolución, a Santiago de Cuba. La guida ci offre la sua versione dei fatti. Ci parla della dittatura di Batista. Delle infiltrazioni americane negli affari cubani. Dei politici-marionette in mano ai vari presidenti USA. Delle imprese dei giovani che lottarono al fianco di Castro. Ma non ci dice quasi nulla della morte del Che in Bolivia. Parla quasi a bassa voce quando si riferisce al Che. E ho come l’impressione che se facessi domande la guida non mi risponderebbe o risponderebbe contro voglia. Un mito ammutolito e addomesticato. C’è chi racconta che Che Guevara morì anche perché dalla capitale non arrivarono mai quei rinforzi che aveva chiesto al suo compagno di avventure. Hasta la revolución, siempre. È l’ultima frase di una delle ultime lettere che Che Guevara inviò a Fidel Castro.

E qualcun’altro mi racconta che i capitani dell’Esercito, i ministri, i politici che contano, all’interno del Partito Comunista, non vivino nei quartieri del centro storico de La Habana, ma nel Vedado, che è il quartiere chic e snob della città, la zona delle Ambasciate (brutta e imponente quella russa, una specie di monolite grigio, una torre gigante di cemento che campeggia sul resto del paesaggio).

Uno dei “dissidenti” mi domanda come sia possibile una roba del genere nel 2014. E perché gli USA, perché l’Europa, perché gli “altri” non alzano un dito per migliorare questa situazione assurda? Perché nessuno li aiuta?

Gli chiedo: sarebbe possibile un altro stato delle cose? E lui: “Non abbiamo le armi, quelle ce le ha l’Esercito e chi ci comanda. E poi il cubano preferisce il quieto vivere alla guerra. I cubani non vogliono migliorare, non saprebbero nemmeno da dove cominciarla un’altra rivoluzione. E poi molti hanno paura. Anche di protestare. Ti faccio un esempio: quanti giornali circolano in Italia? O in Spagna? O in Francia? Qui ne circola solo uno, totalmente filo-governativo. E un altro esempio: se tu ti rechi davanti al Parlamento italiano o spagnolo o francese e cominci a protestare e a dire che non sei d’accordo col Governo, cosa ti fanno? Qui rischi il carcere o l’ostruzionismo a vita. Oppure la morte”.



Non riesco a rispondere alle sue giuste domande. Mi fermo davanti alla scritta di un insegnante di musica: “Profesor de Música, 3º piso”. Come se avessero bisogno di maestri di musica, i cubani, fa la mia compagna di avventure. Ma se i cubani ce l’hanno nel sangue la musica! Esclama. E poi torna seria in viso. Stiamo ripensando tutti e due alle parole del muratore-pescivendolo. Hasta la victoria, sì, siempre…

sábado, agosto 30, 2014

Celibe


E’ strano: è da più di due anni che indosso un braccialetto di cuoio, nero, e proprio stanotte mi si è rotto. E’ strano perché l’autodistruzione del bracciale avviene la notte prima di un evento che – almeno in teoria – cambierà per sempre la mia vita e – almeno immediatamente e all’atto pratico – cambierà per sempre il mio stato civile. E’ strano, ma non del tutto anormale, quindi, il fatto che io attribuisca alla rottura del braccialetto un significato del tutto particolare, un significato simbolo (la rottura sta per qualcos’altro, ovviamente). Domani cambio vita e ancora non me ne rendo bene conto.
In realtà, so già cosa mi aspetta: quali sono i gesti di rito (grazie, non dovevi; oh, ci sei pure tu! Grazie, sei un mito! Madonna, ma ti sei fatto tutti questi kilometri per venirci a trovare, non dovevi proprio! Grandissimo, era una vita che non ci vedevamo, eh?), quali le parole convenzionali previste dal codice civile, quali i momenti culminanti della festa (finiremo tutti a ballare la tarantella o la “Macarena”, brilli a più non posso, è inevitabile, suvvia). E so pure quali saranno i riti che continueranno a puntellare la mia vita di coppia con la mia compagna di avventure. So che lei è la mia compagna di avventure ideale. E so, quindi, che nel più profondo del mio animo, nella zona più intima della mia coscienza, anche domani (come pure dopodomani o come pure tra un mese o anche un anno), io continuerò a pensare alla mia compagna di avventure come l’ideale: qualcosa di perfetto, o quasi. E continuerò a pensarlo pure sapendo, in realtà, che “ideale” non lo è nessuna donna in carne ed ossa e che respiri su questa Terra. Perché anche lei – che ora definisco con l’aggettivo di cui sopra – è “umana” e, dunque, soggetta a quei difetti, a quegli andirivieni, a quei tic che ci contraddistinguono tutti in quanto “esseri umani” e perciò: “deboli”, “arbitrari”, “irascibili”, “influenzabili”, “incontentabili”, “indecisi”, “invidiosi”, “gelosi”, “permalosi”, “orgogliosi” e via di seguito.
Le dedicherò perfino un mini-discorso, domani, alla mia donna ideale (o all’ideale di donna per me o alla mia idea di donna perfetta). E in quel caso non adotterò a proposito l’aggettivo “ideale” proprio per non venire meno alla consapevolezza che “ideale” non potrà mai esserlo perché se l’accetto così com’è dovrò accettarla anche perché si discosta (o si discosterà sempre) dal mio “ideale”. Sarà, dunque, sempre “umana”.
E allora ecco, ora capisco che è proprio perché riesco a vedere il suo lato “umano”, la sua fragilità, in quanto donna e in quanto essere umano, che io ne sono perennemente (ancora, sempre, sempre di più) attratto: e questo ha un che di magico, ha un che di irrazionale, ha un che di – perché non dirlo? – romantico che mi fa impazzire, che mi fa ridere e che mi fa sorridere come poche altre cose su questa Terra.
E allora mi preparo: ad accoglierla e ad abbracciarla, a baciarla e ad amarla per quel tanto che posso, per quel tanto che sento, per quel tanto che provo.

Sì, è una notte strana questa, e stramba, ed emozionante. Una notte in cui anche la rottura di un bracciale può assumere valenze filosofiche o universali esorbitanti. E domani vedremo come andrà a finire davvero, e se l’alcol non farà ballare gli invitati prima del tempo (ma conoscendoli, credo proprio che sarà così).

miércoles, agosto 20, 2014

"Autori" in balia del tempo (oltre che del caso)



La storia è andata avanti, ovviamente, come tutte le storie (anche se ancora non è finita, non per ora, almeno - e mi domando anche: "Quando finirà?"). 

L'autrice del romanzo di cui io avevo dato la mia opinione non ha tardato molto a mandarmi un'email dicendomi che le era piaciuta molto la mia recensione (anche se non si trattava di una recensione, come ho spiegato nel post precedente) e che era davvero contenta di sapere che c'era gente disposta a leggere le sue cose (nel mondo di oggi non sono molte le persone disposte a leggere con attenzione il frutto dell'immaginazione di autori "in erba" o poco noti o affatto noti ai più). 

Nella parte finale dell'email, poco prima dei saluti di congedo di rito, la scrittrice ha pensato bene di rifarmi la stessa domanda che mi aveva posto la presidentessa dell'Associazione Culturale di cui sotto: "Secondo lei, è davvero un romanzo degno di essere pubblicato?".

Mi sono sentito in dovere di risponderle, utilizzando tutta la mia diplomazia e i miei modi gentili. Le ho spiegato che secondo me un romanzo che parla della Sicilia dei primi del Novecento e che mette in scena le difficoltà e il dolore di una donna che soffre sulla propria pelle i soprusi di una società fondamentalmente "machista" poteva certamente trovare il riscontro dei lettori italiani medi di oggigiorno. Certo - aggiungevo - bisogna trovare l'editore giusto, l'editore disposto a scommettere su questa storia, l'editore capace di scorgere la qualità letteraria di cui (obiettivamente) il libro era dotato.

E allora, a questa mia risposta, è seguita subito un'altra email, in cui la scrittrice in erba mi chiede se posso farle l'immenso favore di suggerirle qualche editore italiano disposto a pubblicare la traduzione dallo spagnolo del suo romanzo. E qui sono cominciati i rompicapi, perché io non ho mai avuto rapporti diretti con casa editrice alcuna, o meglio, ho sì avuto qualche rapporto, ma in modo molto sporadico, indolore e asettico (le cose che ho pubblicato io finora riguardano il mondo accademico, non certo la letteratura di fantasia o quella rivolta al cosiddetto "grande pubblico").

E insomma, gira che ti rigira, mi prendo a cuore la questione suscitata dalla mia nuova amica e collega e comincio a spulciare sui siti della grandi case editrici italiane: Einaudi, Mondadori, Garzanti, Adelphi, Bompiani, Ponte alle Grazie, Rizzoli, se dobbiamo puntare, che si punti in alto, penso tra me e me (povero ingenuo).

La semplice ricerca effettuata su internet mi spinge a leggermi gli avvisi che tutte (o quasi tutte) le case editrice appongono sulle loro "porte" virtuali in vista delle domande frequenti degli autori inediti (o in erba) e gli avvisi si somigliano un po' tutti: "Caro autore inedito, per cortesia, prima che lei ci inondi le stanze delle nostre case con manoscritti e scartafacci originali, si prenda la briga di dare uno sguardo al nostro catalogo: non verranno accettati prodotti che si allontanano o che si discostano o che non ci azzeccano proprio nulla con le collane da noi gestite" (e ci può anche stare: inutile mandare un romanzo "horror", per dire, a una casa editrice che pubblica romanzi "rosa", ma poi il tono cambia): "Ci teniamo anche ad avvisarla che - data la carenza di personale / data l'attuale crisi / dati i tempi lunghi che richiede la lettura di milioni di manoscritti inediti che ogni giorno invadono la nostra casa / date le circostanze - non potremmo darle una risposta prima dei 6 / 9 / 12 mesi successivi al suo invio" (e qui uno comincia a guardare alla realtà delle case editrici con un occhio un po' meno benevolo; le case editrici sembrano mondi sul punto di soccombere sotto quintali di carte, gli editori sembrano guru che ti stanno facendo un enorme, immenso favore anche solo a leggerti, figuriamoci poi darti una risposta una entro l'anno o i nove mesi o i sei, quelli più rapidi).

Insomma, alla fine riesco a trovare un blog scritto da qualcuno che conosce perfettamente l'ambiente del mercato editoriale italiano, un'anima pia che ha messo online tutti gli indirizzi "giusti" di quasi tutte le case editrici esistenti sul territorio nazionale con l'aggiunta di tutti i messaggi o avvisi che ogni casa editrice ha scelto di apporre alla propria "porta" virtuale al fine di avvisare l'ingenuo o ignaro scrittore in erba di turno...

E io mi sono fatto un'idea di come vanno queste cose: forse mi sbaglierò, ma mi pare proprio che è l'editore che ti sta facendo un favore, non sei tu, autore inedito, a rappresentare una chance per l'editore, è vero esattamente il contrario: io, editore, rappresento una chance per te, autore, e se vuoi diventare tale, sappilo sin da ora, dovrai prima passare sul mio cadavere (dovrai prima essere sottoposto al mio supremo, insindacabile, inappellabile, tardivo giudizio). Non ci sono santi né madonne. C'est la vie... Gli autori inediti (come il resto dell'Umanità, d'altronde) sono pure loro sottoposti agli strali del destino, alle fortunose vicende del fato, sono, per farla breve, pure loro in balia del tempo e del caso (incarnato in tal caso dalla volontà superiore degli editori).

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...