viernes, enero 24, 2014

The Wolf of Wall Street


Scrivo sotto l’effetto ancora inebriante della visione (in anticipo d’un giorno rispetto all’uscita ufficiale in Italia) dell’ultimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street: che gran film, che interpretazione da Oscar, quella di Leonardo Di Caprio, che ritmo sfrenato, quello che il regista di Taxi Driver dà al tutto!

Erano anni che non uscivo da una sala con tanta adrenalina addosso: il regista americano è abilissimo a trasmettere allo spettatore il senso di “spreco” e di “sfregio” morale che incarna il protagonista, un broker che in pochi mesi riesce a occupare un posto d’eccezione tra gli squali della finanza della borsa di New York (tutto vero – o “basato su una storia vera”, come si suol dire – e tutto narrato per filo e per segno nel libro omonimo pubblicato da Jordan Belfort, il vero “lupo di Wall Street” cui s’ispira il film).

Scorsese realizza una messinscena da grand guiñol della durata di 3 ore riuscendo in una doppia impresa: a) non annoiare mai lo spettatore (in alcune scene “rallentate” si nota, in realtà, un tocco “alla Tarantino” – cfr. quella della lotta tra Belfort e il suo socio in affari a suon di fili del telefono e sotto l’effetto di una droga scaduta da anni); b) spingere lo spettatore a sposare il punto di vista immorale e schizofrenico del protagonista stesso (tu guardi e sai che ciò che stai guardando è contrario a molte norme non scritte dell’etica di un essere umano “normale” eppure… provi un’innaturale simpatia verso questa specie di Robin Hood “al contrario” – ruba ai ricchi per dare a se stesso e diventare più rico dei ricchi; e il punto è che più guardi le imprese di un tale lestofante e più pensi: “a chi non piacerebbe avere una casa, una macchina, una moglie come le sue…).

Non racconterò il finale, ma, se parliamo del messaggio etico che si cela dietro lo “spettacolo”, è inevitabile scorgere nell’ultissima inquadratura un ghigno spietato del regista alla coscienza dello spettatore: “e tu cosa faresti con tanti soldi? E tu come ti comporteresti in certe situazioni? Perché non imiti uno come Belfort? Cosa te lo impedisce?”.

Sesso, droga, ambizione sfrenata, indifferenza arrogante verso ogni tipo di norma: Belfort è una specie di Faust in giacca e cravatta (firmate entrambe) che ci dice che il sogno americano è (ancora) possibile, che in una giungla (finanziara) senza pietà come Wall Street vince il più forte e il più scatenato, che migliorare la propria condizione economica si può (sempre).

E se la legge ti frena e l’FBI ti sbatte in carcere? Nessun problema: pagando laute cauzioni, si può evitare la pena più dura e tornare ad essere “vincenti” (inevitabile qui per lo spettatore italiano non pensare al caso nostrano di Berlusconi).

Scorsese ci fa fare un giro all’interno del luna-park della finanza senza risparmiarci nulla, anzi, facendoci vedere anche gli aspetti più ridicoli del successo senza limiti (e per me resterà da antologia la scena in cui – in preda agli spasmi della droga – Di Caprio tenterà di tornare a casa in macchina rotolando per le scale come un neonato che sa appena strisciare a gattoni – anzi, a questa scena ne aggiungo una seconda, quella in cui la moglie tradita decide che è giunto il momento di tenerlo a stecchetta, andrà in giro sempre nuda per casa, ma non gli si concederà più – e, a riprova del suo discorso spalanca le gambe, ignara della micro-spia che registra il tutto da dietro l’occhio di un orsetto di peluche per la gioia delle guardie del corpo: Belfort si inginocchia, prova ad avvicinarsi per baciarla, ma la donna modella lo respinge con i tacchi).


Un film da vedere e rivedere, un po’ come Fuori orario (anch’esso ambientato nei “fantastici” e rampanti o volgari anni 80, solo che lì il giro sulla giostra è ancor più surreale e grottesco di questo – con un altro finale da antologia).

lunes, enero 20, 2014

L'incantatore che strega: Vladimir Nabokov crea Un mondo sinistro


Cominciano subito col dire che Vladimir Nabokov non delude mai (come avevo accennato anche in un post precedente di fine d'anno). E Bend Sinister (o Un mondo sinistro, come è stato tradotto liberamente in italiano - o Curva sinistra, come potremmo tradurre letteralmente) lo conferma appieno.

Scritto nella prima metà degli anni 40, Nabokov – quando è già un cittadino americano – ricrea in questo romanzo distopico un mondo in cui vige un totalitarismo ottuso che tende ad annientare le differenze tra le persone. I cittadini sono considerati "parti integranti" dello Stato; lo Stato regna sovrano e assoluto al servizio (apparente) dei cittadini. Chi è contro è visto come una minaccia per il popolo e sarà condannato al silenzio, al carcere o all'esilio (quando non all'eliminazione fisica). Al centro della trama (ben congegnata, a dispetto o al di là delle molte digressioni e "a parte" del narratore onnisciente esterno) c'è un professore universitario che è anche filosofo e scrittore di successo, Adam Krug (che in russo significa "cerchio"), in piena fase di "elaborazione del lutto" in seguito alla morte di sua moglie Olga.

Krug vive la sua nuova vita da vedovo riversando tutte le sue attenzioni su David, il figlio di 8 anni, cercando invano di non scendere a patti col Partito dell'Uomo Comune, fondato dal tiranno Paduk (un ex-compagno di liceo che Krug chiama anche col nomignolo offensivo di "Rospo").

L'abilità narrativa di Nabokov ci accompagna lungo il percorso di "discesa agli Inferi" di questo personaggio "integro" che tenta in tutti i modi di difendere le sue opinioni e la sua libertà d'opinione e di scelta (contro il gretto "pensiero unico" del dittatore), fino a che i nemici politici non gli rapiranno proprio il figlio (non starò a commentare qui una delle scene più atroci e spaventose che abbia letto negli ultimi anni, e cioè, quella che riguarda proprio l'uso che Paduk fa delle "creaturine" o dei "bambini" rapiti alle famiglie dei "dissidenti" per far sfogare la violenza indomita dei prigionieri delle carceri statali – è una scena che solo uno come Nabokov potrebbe scrivere con tanta destrezza, con tanta puntigliosità, con tanta efficacia visuale, con tanta crudezza).

Il lettore (anche quello meno attento) è spinto, ovviamente, ad accostare Un mondo sinistro sia all'altro romanzo "distopico" di Nabokov, Invito ad una decapitazione, sia all'arcinoto 1984 di George Orwell. In realtà – come lo stesso Nabokov ci ricorda nell'introduzione alla nuova edizione del romanzo del 1963 – si possono scorgere echi anche da Il processo di Kafka. E non vi sono dubbi che kafkiana sia la situazione esistenziale nella quale si trova costretto a vivere il protagonista (mi viene in mente anche la trasposizione cinematografica del 1962 di Orson Welles, con un bravissimo Anthony Perkins, già noto all'epoca per Psycho: Krug viene incriminato da una banda di polizziotti del regime che invadono il suo appartamento senza preavviso e senza mandato alcuno; ogni vicino potrebbe essere una spia; Mariane, la stessa governante che accudisce suo figlio, sembra essere la responsabile della denuncia finale del professore).

In un universo romanzesco così cupo, però, non manca l'umorismo tipico dell'autore (che a volte rasenta lo humor nero che più nero non si può) né il suo altissimo senso del ritmo: la trama viene spesso frammentata attraverso pensieri e riflessioni dello stesso narratore onnisciente che s'intromette nella mente del protagonista (per commentarne i pensieri più intimi e filosofici – cfr. il tema del "tempo", della "memoria", della "nascita" – o per criticarne ironicamente le scelte), oltre che attraverso squarci (in senso anche tipografico) in cui, tra parentesi, sembra fare capolino lo stesso autore (e nemmeno svelerò qui la parte conclusiva del romanzo, in cui il rapporto tra autore e personaggio di finzione arriverà a una svolta decisamente "inquietante" - oltre che molto "unamuniana" o anche "pirandelliana").

D'altronde, è lo stesso Nabokov a prendersi in giro (o a giudicarsi con sana auto-ironia) nell'introduzione del '63, quando – spiegandoci in che momento della sua vita elaborò questo incubo ad occhi aperti – ci confessa che quello fu:

"[...] un periodo particolarmente sereno e vigoroso della mia vita. La saluta era eccellente. Il consumo quotidiano di sigarette si era attestato sui quattro pacchetti. Dormivo come minimo quattro o cinque ore e per il resto della notte camminavo con la matita in mano nello squallido appartamento di Craige Circle a Cambridge, Massachusetts, dove abitavo sotto una vecchia signora dai piedi marmorei e sopra una giovane donna dall'udito ultrasensibile" (Vladimir Nabokov, Un mondo sinistro [1947], tr. it. di Franca Pece, Milano, Adelphi, 2013, p. 11).

Deliziose anche le critiche a quei futuri critici letterari che vorranno scovare simboli o significati nascosti all'interno del romanzo e più o meno riconducibili alle teorie del dottor Freud; Nabokov aborrisce la teoria psicanalitica e si diverte a citare quante volte apparirà nel testo una curiosa pozzanghera che tenderà ad ossessionare la mente del povero professor Krug.


Ecco: Un mondo sinistro è anche questo: la dimostrazione del fatto che la creazione di un mondo "distopico" non deve per forza di cose essere collegata o rapportata a uno stato d'animo triste o angoscioso; il vero artista è chi riesce a immaginare la paura e la fine del mondo anche godendo di ottima salute o di uno stato d'animo allegro o sereno. Nabokov è un incantatore che strega anche quando parla di paura o di una possibile, imminente fine del mondo.

jueves, enero 16, 2014

Io e il mio corpo 


Io e il mio corpo andiamo piuttosto d’accordo: conviviamo ormai da 37 anni sotto lo stesso tetto (o meglio, sotto lo stesso “cervello”) – anche se mancano ancora 11 mesi alla fatidica data – e seppure abbiamo affrontato momenti di crisi o di maretta (come succede anche nelle migliori case e nelle coppie più affiatate), possiamo affermare con tranquillità e senza tema di smentite che ci siamo reciprocamente simpatici e che ci vogliamo davvero un bene dell’anima.

Io e il mio corpo cresciamo letteralmente insieme, influenzandoci a vicenda, ogni giorno, a ogni ora, a ogni minuto, a ogni secondo che passa. Anche perché entrambi siamo coscienti del significato della frase di quel genio di Montaigne che era solito dire che “il mio io di adesso e il mio io di poco fa siamo certo due” (cambiamo in continuazione, anche se non ce ne accorgiamo, e se pensiamo alla velocità con cui si susseguono i cambiamenti, potremmo restare a bocca aperta).

Io e il mio corpo siamo diventati due cose diverse dal giorno in cui siamo venuti al mondo fino alla fase dell’infanzia (con quella foto accanto a Roby, un cane che più fedele di quello si muore) e poi fino all’adolescenza (con quella massa di capelli alla “giamaicana”, tutti ricci e spettinati di cui ora sento un’immensa mancanza) fino ad arrivare a oggi (in questa foto accanto alla mia dolce metà sembro quasi calvo; i capelli stanno abbandonando il mio cranio ad una velocità supersonica – ed è anche per questo non mi affido alle mani – o ai consigli – di un tricologo: è del tutto inutile, non puoi contrastare la forza di gravità con creme o pomate o liquidi speciali per il cuoio capelluto; se i capelli hanno deciso che cadranno, ebbene, allora essi cadranno, non c’è scampo alcuno e la forza di gravità vince su tutto).

Ma se ci spostiamo sul piano “spaziale” – mettendo da parte per un attimo quello “temporale” – ecco che la riflessione diventa ancor più vertiginosa: io e il mio corpo abbiamo vissuto in diverse città e in un numero notevole di camere, appartamenti, case e quartieri.

All’inizio, nei primi momenti di vita, quando emettere un vagito era già pretendere di comporre una frase di senso compiuto, nemmeno ci rendevamo bene conto di dove fossimo (quel lettino così bianco, quell’orsetto di peluche così grosso, quei due estranei che facevano l’amore vicino a quel lettino bianco ancor prima che potessimo capire che quello era, effettivamente, “far l’amore”) e del fatto che si trattasse di un paesino sui monti abruzzesi.

Poi ci siamo trasferiti a Roma, la capitale d’Italia, caotica e bellissima, con le sue mille strade e i suoi assurdi ingorghi, e abbiamo cominciato a sperimentare la vita universitaria, le canne, i primi amori, i baci rubati o mai dati (smettila con questo tono romantico e sdolcinato), le lunghe discussioni intorno alla terza critica kantiana (smettila anche col tono del saputello), le scoperte sensazionali, gli esami superati a occhi chiusi, le sbronze, il primo Maggio a San Giovanni, i film di Ejzensteijn al “Forte Prenestino”, le interminabili file alla mensa di Economia o a quella in Via Cesare De Lollis, ah, ne abbiamo combinate delle belle, io e il mio corpo, in quegli anni là (tono Moccia? Per carità di Dio!).

E poi Pisa, con la famosa Torre e la splendida Piazza Dei Miracoli (dove andavamo a prendere il sole quando marinavamo con Mario e Enzo le lezioni del Dottorato) e poi Firenze, quando andammo a convivere con una delle ragazze più importanti della nostra vita (una delle relazioni più lunghe e più complicate e, proprio per questo, anche “più avvolgenti”, della nostra vita – dopo lei sarebbe andata in sposa ad un altro e molto meglio così, se ci pensiamo bene, perché altrimenti ci saremmo auto-distrutti a vicenda) e il lavoro in hotel (svolto senza troppo impegno) e quello a scuola, da supplente (svolto sempre con moltissimo impegno), e poi ancora Empoli, e Siena, e Arezzo, ho fatto il giro della Toscana io, assieme al mio povero corpo di giovane di belle speranze…

E poi Madrid, dove ho convissuto con tanta gente diversa e di diverse nazionalità, e Sevilla e Granada e Córdoba e Santander e Valencia e Murcia e Toledo e Gijón e Santiago de Compostela, ho girato quasi più la Spagna che l’Italia, insieme al mio corpo da nomade viaggiatore e girovago (se non parto almeno una volta al mese, ormai, mi sento male – ma è lui, è il mio corpo che me lo chiede).

E ancora: Parigi (una settimana a mangiare baguettes e croissants e a passeggiare sul Lungo Senna, facendoci le foto di rito sotto la Tour Eiffel) e la Tunisia (dove sfornano un pane ottimo a ogni ora del dì e della notte) e la Turchia (vivendo la magia di Istanbul, una delle capitali più colorate, chiassose, trafficate e vivaci che conosca) e l’Austria (per mangiare le famose “palle di Mozart”) e l’Ungheria (come dimenticare il famoso Lago Balaton e lo stile anni 80 di alcuni pedoni di Budapest?) e il Beglio (per assaggiare i famosi gouffres e i deliziosi macarons) e ancora mi manca Berlino e Londra e tante altre città da vedere con questi occhi qua e da percorrere con queste gambe qua, e ancora la Spagna, dove vivo ormai in pianta stabile da quasi 7 mesi e dove spero di continuare a vivere (perché la Spagna mi rende più giovane, è ovvio).

E se penso anche alle persone con cui è entrato in contatto questo mio corpo e ai corpi con cui ho avuto una certa confidenza, diciamo pure: con cui ho scambiato intimità ad alto grado di erotismo, i corpi che si sono intrecciati al mio, che lo hanno avvinghiato, graffiato, carezzato, baciato, succhiato, scosso, smosso, coccolato, vezzeggiato, ah, quanti romanzi interessanti si potrebbero scrivere parlando di due (o più corpi) che s’incontrano! (un po’ come fa Lars von Trier in quell’esperimento che ancora non so se è riuscito o meno che s’intitola Nymphomaniac – in uscita in Italia ad Aprile).

E la sorpresa di scoprire che ogni corpo è diverso e che il mio stesso corpo cambia e si adatta e si plasma in accordo all’altro con cui entra in contatto (mi riferisco in tal caso ad un contatto di tipo intimo o passionale o sessuale o tutte e tre le cose insieme)… per cui scopri che ogni donna raggiunge l’orgasmo in un modo diverso e ognuna è un mondo a sé e bisogna concentrarsi e avere pazienza e curiosità e molta, molta umiltà, all’inizio, per capire come lei raggiunge l’acme, e poi scoprire anche il piacere che mi provoca provocare piacere all’altra persona che mi sta di fronte o sotto o di lato o sopra o in diagonale – dipende dai casi…quante, Dio mio, quante variazioni sul tema (il sesso come musica, l’orgasmo come il punto finale, risolutivo, apoteosico della sinfonia creata in accordo con gli accordi della partner – quando dico alla mia compagna di sventure che “regalare orgasmi è una delle mie missioni su questa Terra”, lei ride e mi accusa di arrivismo o manie di grandezza, “ma quanto esageri, quanto sei esagerato, e poi è impossibile, non saprai mai come gode questa o quell’altra, a un certo punto ti dovrai fermare, non puoi scoparti l’universo mondo” – e lei non sa che ho già pensato di fermarmi e di restare con lei il resto dei miei giorni – ma, appunto,  questo non lo verrà mai a sapere perché lei non è un’assidua lettrice di questo diario al bordo dei bordi…).

Io e il mio corpo abbiamo scambiato baci e carezze e piacere con altri corpi e alcuni di questi ora non so più nemmeno dove abitano e se sono felici, ora che si sono sposati o accoppiati con altri corpi ancora, diversi dal mio (o forse solo lontanamente simili e somiglianti al mio).

Io e il mio corpo abbiamo conosciuto tanti altri corpi interessanti, di persone dotate di cervelli davvero in gamba, e aperti e stimolanti. Cervelli e corpi – anche – di persone che ora non ci sono più perché sono morte e uno si domanda che fine faranno i corpi sotto terra, quando uno opta per la sepoltura e non per la cremazione (più pulita, anche se più fredda, forse, come operazione “ultima” e “definitiva”) e vengono i brividi al solo pensiero di come si sta là sotto (cfr. il capitolo 6 dell’Ulisse di James Joyce, quando si parla dell’azione distruttrice – o non è forse anche “purificatrice”? – dei vermi che mangiano la carne umana, troppa impressione), meglio cambiare discorso.

Insomma, passano gli anni, cambiano i luoghi in cui vivo, ma io e il mio corpo continuiamo ad esplorare: realtà, vite, altri corpi che ci capita d’incontrare lungo il camino, libri e film e opere d’arte varia… Quanti libri abbiamo letto e continuiamo a leggere ancora oggi io e il mio corpo! E quanti film vediamo o ci ripromettiamo di vedere, distesi sul sofà, accanto alla nostra fantastica compagna di sventure!


E col passare degli anni io e il mio corpo iniziamo a preoccuparci anche per le prime rughe che spuntano implacabili e per le borse sotto gli occhi, ma sono problemi secondari, l’importante è andare d’accordo e non finire (mai più?) all’ospedale, come ci è capitato a Ferragosto, quando essere costretti a letto e in pigiama diventa una vera tortura, quando uno si accorge che godere della salute del proprio corpo è un miracolo, è quasi un dono quotidiano, una grande opportunità, una chance da sfruttare al massimo (e non pensiamo a cosa accadrà dopo, quando sopraggiungerà la vecchiaia, quello è un capitolo che per ora io e il mio corpo abbiamo deciso volutamente d'ignorare).

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...