viernes, mayo 30, 2014

Ipotesi di lavoro (per un racconto sull’insonnia)



Non lo so il perché; sta di fatto che mi affascina l’insonnia, soprattutto come tema narrativo, come spunto per riflettere sulla condizione umana, come ottima scusa per girarci attorno e dare vita a racconti surreali o realisti e crudi o simbolici e allegoricamente interessanti (o entrambe le cose; si può?).

Eppure non soffro d’insonnia. O meglio: ne ho sofferto, ma tanti anni fa (quando, in realtà, più che d'insonnia “normale” potremmo parlare di una specie d’insonnia “alla rovescia”: appena le lancette della sveglia luminosa e fluorescente s’avvicinavano alla 4 del mattino, ecco che il mio cervello si ridestava e non c’era proprio verso di tornare a dormire tranquilli con la testa poggiata sul cuscino, dovevo alzarmi per forza e dedicarmi ad altro: la lettura di romanzi lunghissimi, i cosiddetti “romanzi-fiume”, o la visione dei film in bianco e nero che emetteva Enrico Ghezzi da Fuori orario, o la frequentazione di siti vietati ai minori – che titillavano gli “istinti di base” più che quelli legati alla facoltà immaginativa – e qui si potrebbe aprire una grande parentesi per discettare sull’annosa diatriba: può la pornografia aspirare ad essere considerata “arte”? E cos’è che ci permette di tracciare una linea sicura tra ciò che definiamo “arte” e ciò che definiamo “eros” e “porno” o “porno-soft” o “eros spinto”? Ma questa, appunto, è materia per un altro post, torniamo a Bomba).

Dunque, ecco una (delle tante) ipotesi di lavoro per un racconto futuro sull’insonnia: lui soffre d’insonnia, soprattutto da quando la seconda moglie, Marta, l’ha lasciato. In realtà, di notte, si ferma a riflettere davanti al computer e scrivendo dei suoi amori passati si accorge del fatto che tutte, ma proprio tutte le sue ex, soffrivano dello stesso male: in ordine cronologico di ex, dalla più recente (nonché traumatica) alla più veterana:

a) Marta perché faceva sempre lo stesso incubo ricorrente: in sogno le appare il fantasma della ragazzina che ha ucciso senza volerlo in un incidente stradale da cui è riuscita a sopravvivere illesa nel fisico ma segnata nella coscienza,
b) Sara (la prima moglie) perché oltre che insonne, alle volte è sonnambula e si sveglia e comincia a camminare per casa e a parlare con i muri, facendo discorsi strani sulla virilità del marito;
c) Nadia perché soffriva di uno strambo mal di schiena che si acuttizzava o veniva fuori solo di notte;
d) Anna perché scambiava il giorno con la notte e, quindi, dormiva di giorno e si svegliava ed era iperattiva di notte (con le logiche conseguenze sul suo rendimento accademico all’Università).

L’ennesima notte d’insonnia il nostro protagonista la passa a fare questa specie di lista degli amori del passato; si accorge di quanto abbia amato le sue ex condividendone gioie e dolori e, soprattutto, condividendo con loro le ore notturne passate a fissare le pareti o a litigare o a guardare film o a fare l’amore con stanchezza e stravolgimenti psichici reciproci (particolarmente sconvolgenti i rapporti con Nadia e con Sara) e, alla fine, capisce qual è la possibile medicina che fa al caso suo. Finire il racconto, smettere di ricordare il passato (soprattutto quello legato a Sara) e cercare di riproiettare la sua vita verso il futuro (magari accanto a una donna che non soffra d’insonnia come le sue ex succitate).

Possibile scenetta tragicomica (secondo lo stile di certo Woody Allen): l’apparizione momentanea e repentina, in camera da letto, dei fantasmi delle ex (che cominciano ad accusarsi a vicenda o a litigare su chi avrebbe amato meglio il nostro eroe).

Possibile scena “horror”: lui che tenta di suicidarsi dopo aver visto alla tv un film che racconta quanto abbiamo appena raccantato. È come se si vedesse in uno specchio. Solo che si tratta del film che parla della sua vita. Prendere coscienza di quanto triste sia questa vita è il motivo scatentante che lo spinge ad ammazzarsi.

Possibile scenetta esplicitamente grottesca: lui che tenta di impiccarsi, ma la corda si scioglie e fa un grosso capitombolo che provoca l’ira del coinquilino del piano di sotto; lui che tenta di infilare la testa nel microonde ma salta il contatore; lui che si spara alle tempie con una vecchia pistola, ma la pistola fa cilecca; lui che si taglia le vene, ma la lama non è affilata e riesce solo a provocarsi dei lividi orrendi; lui che chiama Marta e le confessa che ancora la ama e che, finalmente, ha capito qual è la causa della sua insonnia e lei gli dice che può anche crepare perché lei ormai non lo ama più ed è guarita (il fantasma della ragazzina che ha ucciso con la macchina non la disturba più, si è riappacificata con lei).


Ecco: questo è il punto; usare l’insonnia come motivo “serio” di riflessione in un racconto in cui si bilancino le scenette tragicomiche a quelle “horror” e a quelle più esplicitamente grottesche. Ci vorrebbero insieme un Dario Argento, un Ingmar Bergman e un Woody Allen per fare una roba del genere. E un tocco (o pizzico) di Hitchcock. E un linguaggio poetico e sperimentale. Un James Joyce in vena di battute. E saturnino. E molto, molto malinconico (i discorsi sull’amore, e sul tempo che passa, e sulla morte che s’appressa)…

lunes, mayo 19, 2014

Salò o le centoventi giornate di Sodoma: un cinema che riflette il (e sul) male


Ieri, dopo più di 10 anni, ho rivisto Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini. Questa volta l’ho rivisto in compagnia, non da solo, come la prima volta, quando avevo circa 21 anni ed ero un cinefilo fissato con le pietre miliari della “storia del cinema” e non avevo paura di niente e vedevo ogni genere di film, anche quelli più “indigesti” o strambi o fuori dall’ordinario. L’ho rivisto con la mia “compagna di sventure”, come amo definirla in questo blog, e lei – al di là dei miei avvisi (guarda che è un film duro, guarda che c’è chi non è riuscito a vederlo fino alla fine, guarda che qualcuno ha vomitato prima di arrivare all’ultima inquadratura, guarda che è uno dei film più censurati della storia del cinema italiano, etc.) – ha apprezzato molto, le è sembrato un film duro, ma perfetto, un film certamente “disturbante”, ma anche bello, nel senso di “compatto” ed “esteticamente riuscito”.

Concordando con la mia compagna di sventure e, a visione ultimata, mi chiedo: in cosa consiste questa “compattezza”? Perché è un film “esteticamente riuscito” (al di là e al di sopra delle immagini che lo popolano)? [pensiamo anche ai casi "eclatanti" come A Clockwork Orange di Stanley Kubrick o a Trainspotting di David Fincher o a Il silenzio degli innocenti di Johnatan Demme].

Un primo pregiudizio che potrebbe portarci ad una erronea interpretazione del film è legato alla fonte: si sa che Pasolini s’ispira ai romanzi del Marchese De Sade per creare quello che sarà il suo ultimo film e, in particolare, trarrà spunto da Les 120 journées de Sodome (un romanzo incompiuto del 1785).

Ovvio che un regista che s’ispira all’inventore dei termini “sadico” e “sadismo” ci spingerà verso un certo tipo di immagini, dove la violenza, la ferocia e la freddezza mostrata nell’esercitare entrambe le cose diventano elementi (sempre) espliciti (oserei dire: "insopportabilmente espliciti"). Il punto è che il discorso di un regista come Pasolini esula dalla fonte prettamente letteraria o strettamente legata alla visione che del mondo aveva uno come De Sade. Ne è una riprova uno dei primissimi fotogrammi, in cui il regista cita altre fonti, specificando che nel corso della trama i personaggi parleranno con le parole di altri (autori), come Maurice Blanchot (quello de Le livre à venir e de L’entretien infini) o Roland Barthes (quello di Sade, Fourier, Loyola) o di altri che adesso non cito verbatim perché non li ricordo. In realtà, Pasolini fa citare ai quattro protagonisti anche Nietzsche e Proust e Baudelaire (netta prevalenza della letteratura francese, dunque, su tutte le altre letterature nazionali) e lo fa con uno scopo ben preciso: dimostrare come anche gli assassini possono avere buon gusto (letterario o artistico) e un ottimo olfatto, in quanto a riferimenti culturali (paradosso che la Storia ci ha descritto anche prima della Letteratura, ancor prima dei romanzi di De Sade: cfr. certi capi delle SS di Hitler).

 Pasolini, in realtà, allarga e amplia il discorso "sadiano" per trasferire i fatti in un contesto storico ben delimitato: quattro nazifascisti rapiscono uno svariato numero di ragazzi e ragazze nella Salò che sta per assistere alla fine di Mussolini allo scopo di dare sfogo a ogni aberrazione o perversione sessuale venga loro in mente (geniale l'uso del sonoro: ogni tanto - sopra la villa che sarà luogo del delitto - si sentono gli aerei "nemici" volare).

E qui tocchiamo un altro tema che – ad una prima visione e a 21 anni – mi era sfuggito: Salò parla del Potere e di come esso si esercita e di come esso possa trasformare ognuno di noi (ogni corpo umano) in merce, in oggetto di consumo, in pezzo o giocattolo intercambiabile.

Di fatto, i quattro protagonisti incarnano ognuno un diverso tipo di Potere: il Duca è il potere della Nobiltà; il Monsignore quello della Chiesa; Eccellenza quello della Giustizia; il Presidente quello dell’Economia. Di fronte al Potere è proprio il corpo in quanto “essenza” dell’essere umano a patire una prima, radicale metamorfosi: questi adolescenti, una volta fatti prigionieri e una volta oltrepassata la soglia dell’elegante villa in cui moriranno, diventano immediatamente carne da macello, perdono la loro identità per trasformarsi in oggetti delle perversioni dei quattro fascisti...

E sono proprio le scene in cui la telecamera più si avvicina ai corpi che più schifo proviamo in quanto spettatori; schifo (o ribrezzo) che nascono non dalla nudità, bensí dalle parole, dal linguaggio verbale che i quattro capi usano per comandare, modellare, plasmare quei corpi a propria immagine e somiglianza.

E a proposito di linguaggio verbale, non posso non notare come – per tutto il corso del film – è l’imperativo il modo verbale più usato dai gerarchi nazifascisti: “Mangia!”, urla uno; “Piscia!”, ordina un altro; il film mette in scena il Potere che comanda a forza (e a suon) di imperativi. Pena: la morte (uno dei quattro appunta su un quaderno i nomi di coloro che non ubbidiscono o che realizzano atti religiosi o che contravvengono alle regole del gioco; chi finisce nella lista sa già che verrà ammazzato senza pietà).

E il corpo (o il “basso corporale”, come direbbe Bachtin) è un altro degli aspetti più “compatti” che rende il film “esteticamente riuscito”: non esistono scene in cui non ci sia un nudo (come a ricordare allo spettatore che è la condizione della nudità di fronte al Potere a rendere la vita un vero Inferno – e non è un caso che il film si suddivida “al modo dantesco” in un “Antinferno” e in 3 gironi: “Il girone delle manie”; quello “della merda” e, infine, quello “del sangue”, in un crescendo che fa davvero spavento); così come non esistono scene più cruente e fastidiose (o direttamente “insopportabili”) come quelle in cui i corpi sono costretti a mangiare le proprie feci (e qui Pasolini non solo ha rischiato la censura, la critica dei più, la rabbia dello spettatore, ma – elemento ancor più decisivo – la “compattezza” del film stesso; il pericolo essendo o quello di scadere in un “carnevalesco” che non fa ridere o quello di scadere in un “horror” che non spaventa ma provoca solo i conati di vomito degli stomaci più deboli - e non nego che a qualche spettatore la visione di queste scene possa provocare il vomito - come già anticipato in partenza; Pasolini, però, vuole anche farci riflettere, vuole andare oltre il mero "dato di fatto" o la mera "immagine" disgustosa).

Il banchetto a base di merda è anch’esso funzionale al tema di fondo: come il Potere può avvelenarci fino a obbligarci a mangiare quanto espelliamo (il contrario del cibo, la riduzione del cibo a scarto).

Di fronte a queste scene mi viene in mente un saggio del 2009 di Giorgo Agamben, un saggio intitolato proprio Nudità; cito (questa volta verbatim):

La nudità del corpo umano è la sua immagine, cioè il tramite che lo rende conoscibile, ma che resta, in sé, inafferrabile. Di qui il fascino del tutto speciale che le immagini esercitano sulla mente umana. E proprio perché l'immagine non è la cosa, ma la sua conoscibilità (la sua nudità), essa non esprime né significa la cosa; e, tuttavia, in quanto non è che il donarsi della cosa alla conoscenza, il suo spogliarsi delle vesti che la ricoprono, la nudità non è altro della cosa, è la cosa stessa.

Non ho mai ben capito cosa volesse dire Agamben con queste parole; e però un fatto è certo: la nudità ci attrae perché: a) è inafferrabile (si tratta solo di un’immagine o di una parte del corpo umano, composto anche di "parti" che non si vedono a occhio nudo, appunto); b) è affascinante (perché si traduce in immagini che ci attraggono, che ci colpiscono, che ci invitano alla riflessione).

Ecco un altro, decisivo aspetto che rende il film di Pasolini (l’ultimo, prima della sua morte violenta – e oggi ancora “misteriosa”, per i motivi che tutti sappiamo o possiamo arrivare a sapere) “compatto” ed “esteticamente riuscito”: ci mostra la rabbia, ma pure l’impotenza somma di quattro emissari del Potere alle prese con corpi che li ispirano, che li attraggono, che li catturano, che li ipnotizzano, ma che non possono mai arrivare a capire, proprio perché nudi, di fronte a loro, proprio perché privi di velo.

E questo spiegherebbe il ghigno d’insofferenza assoluta di uno dei quattro aguzzini quando, torturando le ultime vittime nel cortile della villa, urla come un pazzo e si arrabbia: qui vediamo davvero il Potere che, forse per la prima volta, si sente incapace di piegare il prossimo, di plasmare il corpo altrui a propria immagine e somiglianza, di storpiarlo fino alla morte.

E poi (sempre nell’ambito delle scene finali) c’è la scena più assurda e paurosa di tutte, quella in cui vediamo tre dei quattro assassini mentre improvvisano un balletto: tutti in vestaglia, ballano come fossero le danzatrici del Moulin Rouge, con piccoli saltelli ridicoli.

Questa scena fa davvero paura, perché ci fa vedere senza veli (per tornare alla citazione di sopra di Agamben) il Potere che si diverte in modo fanciullesco alle spalle dell’indifeso, della persona priva di identità e ridotta a semplice corpo nudo (quando non a corpo morto, a cadavere).

È per questi motivi che dico (insieme alla mia compagna di sventure) che Salò è un film "esteticamente riuscito": perché partendo da una ipotesi (vediamo, cari spettatori, che cosa succede quando il Potere s’impossessa dei corpi innocenti di poveri adolscenti figli di partigiani) sviluppa una tesi (il Potere si scatena calpestando ogni corpo e ogni principio morale o etico o giuridico) per approdare a una sintesi (il Potere balla e ride e si diverte, mentre tutto intorno a sé muore o soffre o urla o si dispera).

Salò è uno dei pochi film (di Pasolini? Della “storia del cinema”?) che si spinge così lontano sulla rotta verso la rappresentazione e l’analisi del male; è un film che riflette il male e che ci fa riflettere sul male (che ognuno di noi può scatenare contro il prossimo o che ognuno di noi potrebbe presenziare in quanto testimone innocente dell’ingiustizia e del mondo “alla rovescia”).

P.S.: in un’intervista a pochi mesi dalla morte di Pasolini, Dacia Maraini dice che Pasolini non era un “sadico”, bensí un “mite”. Ricordo che un giorno ascoltai un intervento di Ninetto Davoli nell’ambito di un congresso sul cinema pasoliniano e l’attore (sorridente e riccioluto) ricordava un breve aneddoto legato ai giorni delle riprese per Il Vangelo secondo Matteo (per me il miglior film dell’autore di Accattone). Ebbene, Ninetto Davoli ricordò che fu solo in quell’occasione che udì pronunciare una bestemmia da parte di Pier Paolo: dovevano girare la scena in cui la Vergine Maria fugge da Betlemme insieme a Giuseppe e al Bambin Gesù. Solo che l’asinello su cui viaggiano non si muove. E Pier Paolo si arrabbia. E bestemmia. Quel film gli valse un Premio Speciale da parte del Vaticano... E una valanga di critiche da parte della “intelighenzia” comunista o della sinistra più "ortodossa".

P.P.S.: c’è una scena che nessuno potrà dimenticare di Salò ed è quella in cui uno dei soldati viene scoperto a letto con la cameriera di colore. I quattro gerarchi nazifascisti sono pronti a sparare, il ragazzo, invece, completamente nudo e senza paura, solleva il braccio e fa il gesto del pugno chiuso (come fosse un quadro o un manifesto). La faccia che fanno i suoi carnefici ricorda il ghigno dei killers dei film di Tarantino. Solo che nel caso di Pasolini non c’è un filo d’ironia. E quando uno dei quattro aguzzini finisce la cameriera lo spettatore non può non provare pietà per queste ennesime vittime del Potere...


lunes, mayo 05, 2014

Via Mecenate e i drammi del cuore




Chi ha abitato a Roma o chi ancora (per sua fortuna o sventura) ci abita e conosce il centro sa bene che Via Mecenate è una delle strade più belle della capitale (pur restando appartata, come un po' in disparte, come se non volesse darsi tante arie e preferisse non dare nell'occhio). 

Sita nel quartiere dell'Esquilino, Via Mecenate collega la ben più famosa Via Merulana (che tanto deve al titolo del romanzo-pasticcio di Carlo Emilio Gadda) al Colle Oppio, uno dei posti più grati da cui godersi la vista (panoramica e a 360 gradi) del Colosseo... (e, perché no, anche uno dei posti migliori in cui leggere, riposarsi su una panchina, fare jogging o - semplicemente - prendere il sole, senza troppi rumori di fondo, tranne il traffico cittadino leggermente attutito dalla distanza rispetto a Via Labicana e i bambini che giocano a pallone o corrono dietro ai cani dei loro padroni sorridenti).

Inutile aggiungere che Via Mecenate è anche una delle mie strade favorite di Roma capoccia... (e una di quelle che più frequentavo quando, per motivi di lavoro, ci passavo tutte le mattine alle 8 in punto e ci ripassavo tutti i pomeriggi alle 16,30 per tornarmene a casa, a Piazza Vittorio).

Ebbene, l'altro giorno, su Via Mecenate, nell'arco di nemmeno un kilometro, ho assistito a ben 3 diverse scene che - prese singolarmente - meriterebbero ognuna un diverso racconto, 3 storie incipienti di cui, non conoscendo il finale, potrei inventare tutto, anche l'incipit (e quanti incipit interessanti!).

Nell'ordine ho assistito a questi 3 spezzoni di dialogo:

a) un uomo sulla cinquantina, coi capelli grigi e sparsi al vento, mentre parla con una donna sulla quarantina, vestita sportiva, in tenuta da ciclista, con il viso abbronzato: 

"Se per te è solo contatto sessuale, a me sta bene così...", questo diceva l'uomo alla donna, abbronzata e dalle gambe muscolose, ferma e ben piantata a terra;

b) una ragazza, sulla trentina, con il piercing sulla guancia (non esagero, era proprio un piercing fatto sulla guancia destra), dall'interno della sua auto, una Opel Corsa nuovo modello un po' ammaccata e grigio metallizzato, mentre urla al telefono queste parole:

"Tu mi devi avvisare se vuoi usarmi come tuo sfogo personale, hai capito?! Mi devo preparare psicologicamente per ascoltare le tue paturnie, intesi?! Non so a che cazzo pensi certe volte, guarda, io non lo so proprio!!";

c) una coppietta di fidanzatini, lui massimo 18 anni e lei massimo 16; lui con i jeans strappati e la maglietta dei Nirvana e lei - alquanto dark - con un trucco pesante e i capelli neri tirati davanti a coprire il volto, le Converse (nere) ai piedi, un paio di leggins molto attillati a fasciare un discreto lato B: in questo caso le mie orecchie non captano alcun suono, né frammento di dialogo, bensì solo il pianto disperato di lei, che si abbraccia al collo di lui, e lui non sa cosa dire né cosa fare, il poveretto è in evidente imbarazzo, mentre la sua ragazza che forse non è già più "sua" non si rassegna all'idea dell'abbandono e lo abbraccia forte forte e piange a dirotto, il trucco scomposto per le lacrime copiose che sembrano non finire mai, e pare avere le convulsioni tanto piange, sembra essere preda di spasmi irrefrenabili e più piange e più si aggrappa al ragazzo, molto più alto di lei...

E uno - che è diventato "testimone per caso" di tanto dolore e di tanta incomprensione per motivi apparentemente sentimentali (o sessuali o, chissà, entrambe le cose allo stesso tempo) - si domanda: com'è possibile che in Via Mecenate, a quest'ora, in questo preciso istante, si stiano svolgendo così tanti drammi del cuore, com'è possibile, mio Dio, che nell'arco di meno di un kilometro 3 coppie stiano discutendo in un modo così "teatrale", con quello che va bene così, se per lei è solo "contatto sessuale", va bene così, basta saperlo, e quella che urla in macchina e avvisa lui che deve prima avvisarla se vuole utilizzarla come suo "sfogo personale", e che cazzo, e gli ultimi due che, in diretta e senza censure, interpretano i ruoli (eterni) della vittima e del carnefice (anche se chi è lasciato non sa, o non vuole sapere in quel momento, che anche chi lascia si sente un po' vittima e soffre, il ragazzo non sa letteralmente dove mettere le mani e mi vede di sfuggita e si vergogna per le lacrime di quella che forse non è già più la sua fidanzata, a quell'età è tutto davvero un grosso dramma, la vita stessa è una tragedia, di cui si disconosce il finale...).

E uno pensa anche a come è facile trovarsi nel momento giusto al posto giusto o, al contrario, nel momento sbagliato e sul posto sbagliato... Quanto poco dipende da noi, che andiamo a passeggio per le strade del centro e pensiamo ai fatti nostri, fino a quando qualche frase o spezzone di frase o di dialogo richiama all'istante la nostra attenzione distratta e quella frase o dialogo o pezzo di frase o di dialogo diventa così intrigante da spingerci a inventare mille ipotesi, tipo: che avrà mai fatto di male quella ragazza un po' "dark" per meritarsi questo, tante lacrime per un ragazzo come quello, che va in giro con la maglia dei Nirvana e ha l'aria da ribelle (probabilmente è nato quando i Nirvana avevano da poco ottenuto il successo con "Smells Like Teen Spirit" e io di anni ne avevo 17); o perché la donna ciclista e in forma aspira solo a un "contatto sessuale" (ma il cinquantenne si vede che è amareggiato, si nota che è lui la vittima, in questo caso, e lei sta svolgendo il ruolo della carnefice - ha il volto tirato, ma non sembra nutrire compassione per l'uomo che le parla e che fissa dritto negli occhi); o perché quell'altra urla dal telefonino che vuole essere avvisata se l'altro vuole "usarla" come "sfogo personale" (a quale tipo di "sfogo" si starà mai riferendo, in che senso quell'altro può "usarla"...); e così di seguito, in una carambola di ipotesi e incipit e sviluppi che potrebbero trovare mille diverse conclusioni (ma non l'happy end, quello, probabilmente, mai, quando si parla di drammi del cuore).

Ecco: a Via Mecenate (come in tutte le strade di tutte le città del mondo, evidentemente) ne succedono di tutti i colori, e c'è posto perfino per i drammi del cuore...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...