martes, octubre 21, 2014

Tre carrozze ferme



Ci sono fenomeni che uno non riesce a spiegare o a spiegarsi; come trovare un libro di Giovanni Verga che s’intitola come me, o meglio, come il mio cognome (che non dirò qui, per una mia stramba paura e un mio strano desiderio d’anonimato) e che, a quanto pare, diverrebbe la prova comprovata della validità dell’albero genealogico che mio nonno fece riscotruire anni fa da un’esperto in genealogie… E poi ci sono altri fenomeni cui si assiste quasi inebetiti, quasi a bocca aperta, quasi impotenti, come se la ragione (e la razionalità) non sapesse che farsene dei suoi potenti mezzi, come se la ragione fosse condannata a girare a vuoto (e le domande si accumulano e non si trovano risposte né vie d’uscita di sorta).

Ecco, in questo secondo caso, per quanto concerne queste secondo tipo di fenomeni, posso citare qui i tre vagoni che ho scoperto per caso all’interno del giardino di una casa minuscola in aperta campagna a esattamente 7 kms da casa mia…

Si tratta di una casa piccola rispetto all’enorme giardino che la contiene; è come una sorta di piccolo monolocale (a due piani, col comignolo che spunta dal tetto) disperso in mezzo al deserto. E dentro questo deserto si trovano adagiati direttamente a terra ben tre diversi vagoni di treno. Le strutture sono in ferro battuto e, perciò, completamente arrugginite, mentre il resto è in legno, rovinato, rosicchiato dalle tarme, mezzo spaccato o aperto su alcuni lati per via delle condizioni atmosferiche (quei tre vagoni devono essere stati testimoni silenti di chissà quante alternanze di notte e giorno e di chissà quante primavere, estati, inverni e autunni).

E la domanda che sorge spontanea è ovviamente questa: ma come diavolo ci sono finiti questi tre vagoni dentro il giardino in stile Reggia di Caserta del proprietario di questa strana casetta di campagna? E chi ce li ha portati fin là? E soprattutto, come? In elicottero? Con un tir per carichi speciali? In macchina? Impossibile. Come, allora?

Uno si ferma a pensare e immagina i binari della possibile ferrovia che doveva passare di là, nelle vicinanze. Uno si ferma con la bici e scende e si accosta alla rete metalicca che gli permette di sbirciare nei giardini altrui, nella proprietà privata di un altro, ma non riesce proprio a scorgere nessun passaggio a livello di sorta, né tantomeno dei binari che possano giustificare l’assurda presenza di questi tre vagoni che sembrano sopravvissuti all’alternanza delle varie ere glaciali e all’estinzione dei dinosauri.

Come diavolo hanno fatto ad arrivare fin qui?
Come e perché si sono spiaggiati proprio dentro questo rettangolo di terra in mezzo a cui sorge quella casa da nani il cui proprietario non riesco mai a vedere in giro (glielo domanderei subito: “Mi scusi, scusi la mia curiosità, ma lei, come ha fatto a ritrovarsi tre vagoni di treno in casa? Dove li ha presi? E non le danno alcun problema, parcheggiati come sono lì dentro?”).

Parcheggiati, no, la parola non è quella giusta: piuttosto, mi ripeto, sembrano spiaggiati, come le balene o le foche quando perdono l’orientamento e smarriscono la rotta.

E uno si domanda pure: quante persone (se si tratta di persone) avranno trasportato questi tre vagoni di treno? Quante merci (se parliamo di merci) avranno sposato da un punto all’altro del globo terrestre? E avranno viaggiato solo su binari spagnoli (visto che siamo in Spagna) o anche su binari stranieri (magari italiani, attraversando la terra in cui sono nato)?

Niente. Non so rispondere. Non si trovano proprio le risposte per questo tipo di domande (forse oziose, forse perfettamente inutili). E ogni volta che passo davanti a quel rettangolo di terra, il mio sguardo viene immeditamente attratto verso di loro, sì, verso i tre vagoni di un treno che non c’è più (dove sarà la locomotiva che li spingeva ad alta velocità sui binari?). Le ruote sono anch’esse arrugginite e mezzo sprofondate nel terreno (le ruote bloccate nella terra sono l’esatta negazione della loro funzione tipica: la velocità, qui immobilizzata dalla terra); qualche ciuffo d’erba spunta anche dall’interno dell’intelaiatura di legno. Chissà quanti topi o gatti o insetti o altri animali più o meno selvaggi avranno usato (o usano ancora) queste tre carrozze come casa loro, come l’habitat ideale… E chissà se e quando il padrone della casina si deciderà a dare loro una bella ripulita: ci sarebbe lo spazio sufficiente per creare, chessò, una carrozza ristorante e una con la piscina e magari un’altra per farci una biblioteca ambulante (o fissa, visto che la locomotiva che spinge il tutto non c’è più).


Quanti fenomeni strani nella vita; quanti ancora da vedere. E quanti resteranno misteri insolubili.

miércoles, octubre 15, 2014


A volte mi domando...


A volte mi domando a cosa serve fare questo mestiere, trasmettere un minimo di cultura, provare a contagiare gli studenti col nobile virus della lettura (o della passione per la lettura), provare a portare avanti il discorso degli Umanisti, in un mondo come il nostro in cui d’umanista (per non dire, “d’umano”) è rimasto ben poco.

L’altro giorno, a lezione, faccio un po’ di domande, tanto per tastare il livello generale degli alunni che ho di fronte, per misurare un po’ la temperatura culturale di chi viene all’Università per seguire corsi di Lettere e Filosofia:

“Lo conoscete Daniel Defoe? Avete mai letto Robinson Crusoe?”, chiedo.
Niente.
“Charles Dickens?”
“È quello del Racconto di Natale?”
“Sì, l’ha letto?”
“No” (ecco, te pareva).
“E sapete cosa ha scritto Lewis Carroll?”
Silenzio di tomba.
“Avete mai visto Alice nel paese delle Meraviglie?”
Qualcuno alza la mano per dire sì. Chiedo quale versione, se il cartone animato o il film di Tim Burton.
“Tim Burton”, mi risponde.
“Sapete quali altri film ha fatto Tim Burton?”
Batman”, risponde uno coi rasta, dal fondo.
La sposa cadavere”, aggiunge un altro.
The Nightmare Before Christmas”, aggiungo io, e poi anche: “Edward Mani di Forbice, qualcuno di voi l’ha mai visto, con Johnny Depp, attore feticcio del regista americano? E Beetlejuice?”.
No questo non l’ha visto nessuno, è del 1988, se non erro, loro non erano neppure nati, io avevo solo 10 anni, figuriamoci se hanno mai visto Beetlejuice…uno dei film più anarchici e divertenti e folli di Tim Burton…
E poi continuo, con le domande sulla letteratura:
“E Cent’anni di solitudine? Qualcuno l’ha letto?”.
“So che è un romanzo di Gabriel García Márquez”, fa una, in prima fila. È già qualcosa.
“E l’Odissea? Sapete chi l’ha scritta?”.
Nulla. Il vuoto. Silenzio assoluto. E insisto, scioccamente: “E l’Iliade?”
Niente. Non reagiscono. Saranno una quarantina. Non li ho mai visti con un libro in mano. Non voglio fare il moralista o il solito apocalittico “non integrato”, ma mi sconvolge sempre vedere che studenti di Lettere e Filosofia non leggano, se si eccettuano i telefonini, o i tablet, su queste nuove teconologie hanno sempre gli occhi fissi, quante retine si bruceranno o quante pupille arrossiranno, alla fine di quest’anno accademico.
“Omero. È stato Omero a scrivere l’Odissea e l’Iliade, anche se ancora oggi non sappiamo chi si nasconda dietro questo nome”. Voglio farmi del male:
“E qualcuno sa chi ha scritto Ulisse? La versione “moderna” dell’Odissea?”.
Niente, come prevedevo.
“È stato James Joyce, uno che diceva di aver scritto un romanzo che avrebbe fatto impazzire i critici e i professori, gli interpreti, via, per almeno altri 100 anni dalla data di pubblicazione e in parte ci ha azzeccato, se pensate che Ulisse apparve in librería nel 1922”.
Poi, per una rapida associazione d’idee cito T. S. Eliot, e The Waste Land
“Avete mai letto La terra desolata?”.
Che razza di domande, avranno tra i 21 e i 22 anni, cosa pretendo? Questa è gente nata nel 1995 o 96 o al massimo 94…
“Francis Ford Coppola, però, vi prego, almeno lui, ditemi che lo conoscete!”.
Una ragazza timidamente fa cenno di sì con la testa. Ha visto Il Padrino. Tutte e tre le parti. Non sa che Apocalypse Now è una riscrittura di Hearth of Darkness di Conrad e che contiene un’omaggio velato al T. S. Eliot di The Waste Land e, soprattutto, una citazione da The Hollow Men (“Siamo gli uomini vuoti, siamo gli uomini impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia”… queste le parole che declama un Kurtz-Marlon Brando stralunatissimo…).

Uno si domanda che tipo di lettori saranno i futuri laureati in Lettere e Filosofia. E si chiede che senso ha provare a trasmettere il virus benefico della lettura (o della cultura in generale, per questo ho fatto anche domande sul cinema) a gente che non ha curiosità, non mostra nessuna voglia di leggere o di studiare per informarsi e migliorarsi, non mostra alcuna curiosità nemmeno verso le cosiddette “pietre miliari” della Storia del Cinema.
Le Università stanno diventando (se non lo sono diventate già) degli esamifici, luoghi in cui ciò che conta è il voto all’esame e il numero (matematico, esatto, fiscale) di “crediti” che uno deve sorbirsi se vuole la laurea, un pezzo di carta come un altro, ormai, per tanti, purtroppo, anche per quei pochi che vengono per studiare e approfondire e imparare davvero, anche per i bravi…

Uno si domanda che senso abbia il suo lavoro (riflettere sul linguaggio, spingere a riflettere sul mondo attraverso gli occhi delle opere letterarie) quando il mondo (in generale) sembra andare da tutt’altra parte…

lunes, octubre 06, 2014

La vita in tempo di pace, di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie, 2013), ovvero: la vita al ralenty


Era da tempo che non mi capitava di leggere un romanzo di uno scrittore italiano; è da anni che aspetto che escano i nuovi “parti” di gente come Antonio Moresco o Sandro Veronesi (in realtà, del primo sono usciti già due titoli, l'anno scorso, mentre il secondo si prepara a mandare nelle librerie il suo Terre rare – bella la copertina, un po' meno il titolo, ma staremo a vedere... di certo sappiamo già che in quest'opera ricomparirà quel Pietro Paladini protagonista “immobile” di Caos calmo, risalente ormai a ben 9 anni fa).

E così, ecco che mi capita tra le mani La vita in tempo di pace, di tale Francesco Pecoraro, a me del tutto ignoto, nonostante la fascetta m'informi che questo romanzo è giunto in finale per il Premio Strega di quest'anno.

Un primissimo elemento che sorprende di questo libro è certamente la sua lunghezza: le 509 pagine dell'edizione che maneggio io avrebbero potuto essere tranquillamente il doppio se editore e autore avessero deciso di stamparlo in caratteri un po' più grandi. Si ha la sensazione di stare leggendo un classico, in una di quelle tipiche edizioni che spaventano un po' anche il più onnivoro dei lettori; La vita in tempo di pace è un tomo considerevole, occupa spazio, anche se è leggero, è imponente, sebbene la trama sia piuttosto risicata o labile o flebile.

L'ingegner Ivo Brandani è in attesa dell'aereo che lo riporterà in Egitto per realizzare una mega-opera che consiste nel riprodurre su scala reale la costa corallina del Mar Rosso; si tratta di un cosidetto fake, ma cosa non lo è, o non lo potrebbe diventare, in un futuro prossimo? A proposito di futuro, il romanzo inizia un 29 Maggio del 2015 alle ore 9:07 del mattino. Siamo insomma in un mondo futuribile molto vicino al nostro presente. E questo mondo e questo presente cominciamo a rileggerli attraverso lo sguardo, il pensiero e i ricordi (occhi, mente e memoria) del nostro Anti-eroe, che sì, fa l'ingegnere e si preoccupa di costruire ponti o di progettare opere monumentali, ma in passato ha frequentato la Facoltà di Filosofia e avrebbe tanto voluto dedicarsi a tempo piano proprio a questo, al “pensare”, al “riflettere”, al “ragionare” sopra le Ultime Cose (le maiuscole: Pecoraro abbonda nell'uso ironico e a volte melodrammatico delle maiuscole; Padre e Madre essendo le due figure più importanti che ci siano all'interno della trama).

E insomma, il romanzo scorre lungo il flusso di coscienza debordante, strabordante e anche piuttosto interessante di questo “io” che aspetta di imbarcarsi e aspettando pensa e ricorda e riflette sulla sua vita passata, ma anche su quella presente (sua e dei suoi simili). E nonostante tutto, e nonostante la quasi assenza totale di trama, non ci annoiamo, il lettore è invitato a ripetere mentalmente lo stesso esercizio di riflessione che conduce il Nostro:

“Quando pensiamo, non facciamo che smontare e rimontare continuamente dati finché non vi troviamo un senso: la filosofia è interessante per questo” (p. 282).

Ecco, è questo il merito del romanzo: spingerci a pensare e a fare “filosofia” leggendo. Brandani riflette su tutto; si ha come la sensazione che questo suo ennesimo viaggio di lavoro sia l'ultimo, come se ormai, giunto al traguardo dei 69 anni, ormai vecchio, Brandani sentisse il bisogno di liberarsi dalla mole di rabbia, di rancore, di stress che ha accumulato nel corso della sua intera vita e usasse questa attesa in aeroporto per mostrare a se stesso e, di riflesso, a noi lettori, questa sua “filosofia portatile” o “ambulante”, una filosofia in cui si tenta la cartografia (oltre che la radiografia) di una società precisa e circoscritta, ovvero, dell'Italia che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli inizi (appunto) dei primi vent'anni del XXI secolo.

E questo è un altro dei fattori a favore o dei punti di forza di questo libro: Pecoraro si prefigge l'ambizioso progetto di costruire un' “opera mondo” (per dirla con Moretti) per metterci dentro tutto, circoscriverci il tutto o tutto quanto egli sa o è venuto a sapere sull'Italia, un paese impossibilitato a gestire il caos, un paese in cui nessuno sa cosa vuol dire il “bene comune”, un mondo a parte bravissimo ad auto-compiangersi e auto-criticarsi, ma incapacissimo di migliorare o di andare avanti per strade più morali e più civili.

Leggiamo i pensieri di questo ingegnere e vediamo Roma (chiamata la Città di Dio, nel romanzo) il giorno in cui il Tevere straborda e si allaga tutto e tutto va in tilt. E poi vediamo i meccanismi perversi e malati di una grossa impresa che tenta di manipolare il Nostro attraverso il profumo dei soldi (la frase “Non sono come voi” l'ingegner Brandani se la ripete spesso, in questa fase “rampante” della sua vita di giovani imprenditore, ma ormai sa che fa parte del sistema e che la sua tessera del Partito Comunista non ha più alcun valore – perché il capitalismo è ovunque, ha sfondate le difese di ognuno, non c'è più nulla fare). Si tratta di uno dei capitoli centrali (e migliori) del romanzo, quando il capo invita l'ingegnere a passare una vacanza sul mare con sua moglie e la sua barca enorme da arricchito e Brandani accetta controvoglia e si ritrova nella trama di Il coltello nell'acqua di Roman Polanski (uno di quei film che mostra alla perfezione la teoria hobbesiana dell' “uomo come lupo verso gli altri uomini”). E vediamo pure la giovinezza di questo Anti-eroe, quando, appunto, frequenta le lezioni di Filosofia per diventare anche lui, a sua volta, un filosofo e si scontra (anche fisicamente) con un mondo in preda alla frenesia della Rivoluzione del Maggio parigino: il 68 come annus mirabilis per fare e disfare il vecchio sistema, gli anni 70 (pre-Brigate Rosse) come isola felice per riportare la giustizia anche all'interno dell'Università (via i baroni, via i programmi scelti dall'alto, senza consultare le esigenze e gli interessi del popolo studentesco). E così capiamo che ogni capitolo rappresenta uno scalino in più che ci fa metaforicamente “scendere” lungo l'asse della cronologia personale di Brandani: dalla giovenizza all'adolescenza e poi giù verso l'infanzia e i primi contatti con il mondo (la cacca, i vermi, la chiesa, le prediche delle suore e del Padre - figura mortalmente decisiva per Brandani anche perché più invecchia e più tende a rassomigliarsi al genitore, la sua faccia traspare dallo specchio di Brandani vecchio -  e della Madre – figura positiva e rassicurante, la donna che lo protegge, col suo profumo di buono).

A fare da “incipit” e da “explicit”, ad aprire e chiudere come un circolo l'intero romanzo, una riflessione apocalittica sui batteri e sui parassiti, sulla malattia che è vita e che causa morte in continuazione. Sono pagine esagerate, in cui l'iperbole la fa da padrona, come si suol dire, ma anche liriche, ritmate, pagine in cui vediamo all'opera una mente che non si stanca di vedere il marcio intorno a noi e dentro di noi, una mente che si direbbe “nichilista”, perché non sembra farsi illusioni né sembra credere in Dio né in un ordine prestabilito. La mente di un filosofo, che va alla ricerca di un senso che si sa già (purtroppo) perduto.


Un romanzo, questo di Pecoraro, che ci fa vedere la vita al ralenty. E l'operazione è riuscita, forse anche grazie all'età anagrafica, Anche Pecoraro come il suo protagonista ha 70 anni. Anche lui ha vissuto parecchio prima di dirci come stanno effettivamente le cose...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...