domingo, diciembre 27, 2015

Spedizione notturna nella mia stanza, di François-Xavier de Maistre: pensiero positivo



E dopo Sandro Veronesi, m'imbatto in un francese del XVIII sec.: si chiama François-Xavier de Maistre, nacque a Chambéry nel 1763, visse il periodo convulso della Rivoluzione Francese, viaggiò tra la Francia e l'Italia, finendo con l'innamorarsi di Torino, combattè contro Napoleone e morì nel freddo glaciale della Russia nel 1852, ovvero, all'età di 89 anni (un record, se calcoliamo l'epoca e gli eventi che lo videro protagonista).

Nel 1794 finisce 42 giorni in carcere e fu lì che ideò e scrisse l'opera destinata a dargli la fama postuma, ovvero, Voyage autour de ma chambre, un libro che non ho letto, ma che ho già messo nella lista dei desideri...


Seconda parte di questo primo "esperimento letterario", Expédition nocturne autour de ma chambre è un testo che sorprende per la grande empatia che l'autore cerca di (e, nel mio caso particolare, riesce a) stabilire con il lettore, per l'ironia e il sottile umorismo con cui descrive questo viaggio fatto stando da fermi (dentro una stanza, appunto), oltre che per la profondità di certe riflessioni...


Come fosse uno Zilbandone leopardiano, ma al contrario, nel senso che anche quando lo scrittore scova motivi più che validi per lamentarsi e per piangersi addosso, evita puntualmente di farlo e vira verso l'ironia acuta, l'acume umoristico, la sottigliezza di chi tanto ha sofferto, tanto ha vissuto e tanto, ancora, spera di poter vivere.


E' quel che traspare da questo brano (che riporto dall'edizione - bellissima - dell'editore Barbès di Firenze, del 2009):


“Allora morirò, un giorno?  Ma come, morirò io che parlo, io che m’ascolto e mi tocco, io potrò morire? Mi è difficile crederlo. 

Perché, infine, che muoiano gli altri mi sembra del tutto naturale: capita ogni giorno. Ma che muoia proprio io! Io in persona! Questo è assurdo…

Quanto a voi, signori, che credete queste mie meditazioni un’insulsa chiacchierata, sappiate che questo è il modo di ragionare di tutti; e pure il vostro.

Nessuno pensa che deve morire.

L’idea della morte spaventerebbe più di quanto spaventa noi anche una stirpe d’uomini immortali.

In tutto questo, c’è qualcosa che non riesco a spiegarmi. Com’è che gli uomini, continuamente agitati dalla speranza e dalle chimere dell’avvenire, si preoccupano così poco dell’inevitabile certezza riservataci da tale avvenire?

Non sarà magari la benefica natura a darci tanta felice spensieratezza e permetterci d’andare in pace incontro al nostro destino?

Io credo infatti che, senza farsi turbare l’immaginazione da neri fantasmi, si possa essere perfetti gentiluomini senza aggiungere agli evidenti mali della vita quella tendenza dello spirito che porta a lugubre riflessioni.

Penso insomma che dobbiamo permetterci di ridere, o almeno sorridere, ogni volta che se ne presenti occasione”.

Leopardi rabbrividirebbe dinanzi a tanto "pensiero positivo"; Sterne, invece, evidentemente, sorriderebbe, perché in parte la conclusione del ragionamento di de Maistre coincide con il suo, quando, in qualche "luogo" del capolavoro dello humor mondiale The Life and Opinions of Tristram Shandy, scrive che "un giorno privo di sorrisi o di risate è un giorno sprecato", o qualcosa del genere (non cito verbatim).

E così penso anch'io, anche se ci sono giorni in cui tutto ci appare davvero nero e triste e privo di ogni senso.

De Maistre la sapeva lunga; e continua a viaggiare dentro la sua stanza, alla scoperta di quegli aspetti leggeri, leggiadri, sereni che rendono la vita degna di essere vissuta.

sábado, diciembre 26, 2015

Lazzaro’s resurrection



Pura casualità, a due giorni esatti dalla vigilia di Natale, m’imbatto in Non dirlo, l’ultimo “libro” di Sandro Veronesi (Milano, Bompiani, 2015); e se utilizzo la parola “libro” e la metto tra virgolette è per l’incertezza intrinseca, l’indeterminatezza tutta ontologica, circa la natura di un testo che non è un romanzo, non è un saggio, non è un’agiografia, non è un manuale d’insegnamento catechistico, e che forse proprio in virtù di questa sua “indeterminatezza ontologica” risulta accattivante, cattura l’attenzione dalla prima riga all’ultima pagina, ti prende allo stomaco, insomma, e mantiene alta la suspense fino alla fine…

Veronesi – uno che negli anni passati ha già scritto testi ibridi: si pensi a Occhio per occhio (del 1992), una sorta di reportage in diritta sulla pena di morte nel mondo contemporaneo, o a No Man’s Land (del 2003), sorta di riscrittura teatrale di un film sulla guerra in Jugoslavia – si appassiona al Vangelo di Marco (tra i più brevi e “veloci” dei quattro) per mostrarcene la carica narrativa dirompente e la tecnica quasi cinematografica nella costruzione della trama. Come fosse un film di Tarantino, o di Sergio Leone, l’autore ne snocciola i punti salienti, servendosi di un corposo apparato di note finale che ampliano, descrivono, raccontano, comparano, studiano e interrogano il testo biblico (come se in quelle note si giocasse un’altra partita importante: quella dell’autore con i misteri irrisolti che si celano dietro le parole di Marco).

E tra queste note m’imbatto nella numero 63 (p. 194), una nota che non posso fare a meno di trascrivere qui, su questo diario di bordo, perché mi cattura e mi fa riflettere su una cosa su cui avevo discettato un paio d’anni fa in un congresso sulla poesia moderna e contemporanea:

“Malgrado la fama che l’accompagna, la resurrezione di Lazzaro è un episodio anomalo del Vangelo, tragico, sconvolgente, quasi spiacevole, nel quale Gesù appare sotto una luce insolitamente gotica. Questo perché quando, piangendo, ordina di aprire il suo sepolcro, Lazzaro è già morto da quattro giorni, e il testo specifica che “già puzza”; e   quando, obbedendo all’ordine di Gesù (“Vieni fuori”) Lazzaro compare sulla porta, è una mummia saltellante, uno zombie “legato mani e piedi con le fasce e col viso coperto da un sudario”. Giovanni spazza subito sotto il tappeto l’orrore che ha appena sparso attorno a questo prodigio, ma basta leggere la ricostruzione che ne fa Luca Doninelli nel suo bellissimo libro dedicato a Giuda Iscariota, Fa’ che questa strada non finisca mai (Milano, Bompiani, 2014), romanzesca e per questo ancora più vera, per rendersi conto che si tratta di un miracolo decisamente scandaloso, e che gli altri evangelisti hanno fatto bene a eliminarlo”.

Ora, il punto nodale è proprio l’aggettivo “scandaloso”: lo stesso che io adottai per descrivere la ri-scrittura di questo famosissimo passo della Bibbia (del Vangelo di Giovanni) da parte di quel poeta moderno e contemporaneo su cui mi concentrai proprio per parlare del concetto di “ri-scrittura”.

Il fatto che Lazzaro (amico di Gesù) torni alla vita dopo essere morto e dopo essere stato sepolto per quattro giorni è uno “scandalo”; il poeta in questione lo dice velatamente assumendo il punto di vista del risorto: Lazzaro si chiede che senso ha tornare a vedere la luce del sole dopo essere stato mortalmente avvolto dalla tenebra dell’al di là. Perché Lazzaro è stato nell’al di là, che si presenta subito come un luogo freddo, privo di luce e assolutamente triste. E ciononostante, il fatto di tornare nel mondo dei vivi non gli dà nessun conforto, perché appena fuorisce dalla tomba, appena varca la soglia del sepolcro, e può rivedere il suo amico e abbracciarlo, si rende conto che non ha più i sensi, ovvero, il suo olfatto non percepisce più gli odori, il suo gusto non percepisce più i sapori e il suo tatto non percepisce più le mille sfumature delle cose; la sua vista gli permette di vedere, ma i colori si riducono a un grigiore informe e indistinto. Come se su tutte le cose della Terra fosse calata una nebbia che rende impossibile distinguere i colori. Insomma, come se i colori avessero perso il loro spessore.

Ecco. Il “libro” inclassificabile di Veronesi (e dotato di uno stile agile molto vicino al registro della lingua orale – non è un caso, dunque, se leggo su internet che questo stesso “libro” Veronesi lo usa come sceneggiatura di partenza per un monologo da svolgere a teatro, in diretta, a viva voce) ci permette di entrare in contatto con i risvolti più originali perché più dirompenti e rivoluzionari di un testo, come il Vangelo di Marco, alla base di una religione come quella cristiana cattolica che fa della resurrezione un “mito” fondante. Senza Lazzaro e, poi, senza la resurrezione di Cristo tre giorni dopo la crocifissione, non ci sarebbe la buona novella. Non ci sarebbe la religione cristiana cattolica così come oggi noi la conosciamo.

Eppure, proprio una delle scene che prefigura la “resurrezione” è permeata di un’aura apocalittica, paurosa, che ci fa dubitare. Che ci trasmette un certo fastidio. Che ci sconvolge perché è, effettivamente, “scandalosa” (Lazzaro è davvero un morto vivente, uno che da cadavere – come Frankenstein – torna a camminare nel mondo dei vivi).

E allora la domanda è: come coniugare quella scena “scandalosa” (che solo Giovanni si premura di riportare nel suo Vangelo) con quell’altra “fondamentale” di Gesù che torna in vita per trasmettere la buona novella agli Apostoli e all’Umanità tutta intera? Come non domandarsi circa il parallelismo e il contrasto netto tra l’una e l’altra scena?


Ovvio che dopo questa nota al testo di Veronesi non potrò non andarmi a leggere il romanzo di Luca Doninelli che egli stesso cita come esempio di “ri-scrittura” di questa famosa scena…Oltre che di approfondimento romanzesco sulla figura di Giuda Iscariota: un altro personaggio “anomalo”, il “cattivo” che deve svolgere bene il proprio ruolo (il “traditore”) affinché si compia quella morte che è alla base di quella seconda resurrezione fondamentale affinché l’Umanità creda… I misteri della fede…

domingo, diciembre 20, 2015

Milano (a fine Novembre)




“Le stesse cose ritornano, ma non sono mai esattamente le stesse”: così si chiudeva un post di qualche anno fa, quando frequentavo il Sud del mondo (e d’Italia) e pernottavo tra Salerno e Avellino e godevo dei panorami mozzafiato che si possono contemplare dalle colline più alte di Giffoni (sì, lo stesso paese del “Giffoni Film Festival”, Campania profonda, profondo Sud).

La citazione (auto-citazione, sarebbe meglio dire) mi torna immediatamente alla memoria pensando al mio recente viaggio a Milano: per colpa (o grazie a) un congresso internazionale ho potuto riabbracciare e rivedere le stesse persone che mi hanno aiutato ad essere ciò che oggi sono, gli stessi professori che – negli anni 90 e nei primi anni 2000 – mi hanno trasmesso la passione per lo studio e la ricerca, le stesse colleghe con le quali ho patito gli “alti” e i “bassi”, le sventure molteplici, insomma, del periodo (fatidico, duro, spietato, ma anche allegrissimo) del Dottorato (quando alcuni fine settimana decidevo di staccare il cellulare, di non controllare le email, di rinchiudermi in camera e di dire “addio” temporaneamente alla mia fidanzata per tuffarmi nella scrittura accademica del tomo di 300 e passa pagine che poi sarebbe diventata la mia tesi dottorale).

Fa un certo effetto rivederli a distanza di (almeno) 2 anni: c’è la prof. che è improvvisamente imbiancata (effetto dovuto alla dismissione dell’abitudine di tingersi i capelli di nero); c’è il prof. che si è lasciato crescere una barba bianca a metà strada tra Padre Pio e Babbo Natale; c’è la collega che prova a nascondere le rughe dietro uno spesso strato di cipria (o di ombretto o di come diavolo si chiamerà quell’intruglio che molte donne adottano per mascherare i difetti della pelle: mascara? Bah! In materia sono del tutto incompetente).

Insomma, l’effetto è molto simile a quello che constata Marcel nell’ultimo volume della sua Recherche, in una delle ultime scene apocalittiche o più strettamente malinconiche di tutta l’opera, quando, in una delle ennesime riunioni mondane, si imbatte in vecchie conoscenze e amiche d’un tempo, ormai diventate donne mature o pensionate in una fase di tracollo fisico inarrestabile… E quando poi mi fermo a contemplare da vicino certi volti acciaccati dall’azione del tempo non posso fare a meno di pensare che se loro sono così per me, se loro appaiono così malridotti ai miei occhi, allora anch’io devo apparire così per loro, anch’io devo sembrare loro molto invecchiato…anche se sono passati soltanto (si fa per dire) 2 anni…

Ed entrando in un bagno al secondo piano, guardandomi allo specchio, penso che è proprio così: sono aumentate le rughe attorno agli occhi e ne sono spuntate un paio sottili sulla fronte; ho le occhiaie scure quasi tutti i giorni (continuo a dormire troppo poco, per le ore di lavoro cui sottopongo il mio povero corpo); ho molti meno capelli di una volta, anzi, ormai le stempiature si stanno allargando a macchia d’olio alla conquista di uno spazio che, 2 anni prima, non era mai stato attaccato dalla calvizie; il naso mi sembra ingrossato; la pelle del collo mi sembra più afflosciata; la pancetta è una realtà che non posso ormai più nascondere né a me stesso né alla bilancia né alla mia cara compagna di avventure; ogni tanto mi tremano le dita della mano destra, un tremolio strano, assurdo, per me inspiegabile, che mi fa pensare al peggio…

Ma siamo a Milano, a un congresso internazionale, siamo qui per dotte disquisizioni, ma anche per rammentare i bei tempi passati e per parlare dei nostri spledidi (e sensatissimi) progetti futuri; ovvia, non ci si può abbandonare alla depressione proprio in questi 4 giorni che dura il congresso, dobbiamo ridere e sorridere, nei limiti del possibile.

E allora si va a cena tutti insieme in una sorta di navata industriale riabilitata a ristorante e sita nei pressi di Segrate o di Sesto San Giovanni (Segrate, Linate, Lombrate, Orio al Serio, Brescia, Bergamo, Milano 2, Maranello, sono tutti termini che indicano luoghi che io credevo nemmeno esistessero, perché per me erano solo nomi che sentivo pronunciare da Mike Bongiorno in televisione, e invece, caspita, esistono davvero, sono reali e mi fa impressione leggere i cartelli che ne annunciano la presenza); ci si siede coi colleghi favoriti; si ride e si scherza, qualcheduno comincia a raccontare barzellette sconcie (gli ordinari e gli associati adorano questo tipo di barzellette), qualchedun’altro, invece, anche per l’effetto del vino, comincia ad ammiccare verso la scollatura generosa del vestito di qualche altra collega più giovane, magari una ricercatrice confermata da poco, e altri ancora afferrano il microfono di uno scenario pseudo-teatrale predisposto in un angolo dell’enorme navata e comincia a cantare “O sole mio”, canzone che stona decisamente con il contesto in cui ci troviamo, perché, si sa, a Milano il sole è un fenomeno piuttosto raro, la nebbia ci circonda dalle 7 del mattino (che è quando ci si alza) fino alle 17 del pomeriggio (che è quando a Milano il sole tramonta, almeno ora, che siamo a fine Novembre, dopo, chissà, sparirà ancor prima).

Milano è enorme, come Roma, ma è decisamente meno ospitale di Roma; non ci sono panchine per sedersi o rilassarsi, o almeno, io non ne ho viste (sì, ci sono almeno due grossi parchi in città, due polmoni verdi in cui è possibile fare sport o farsi anche una pennichella, ma da Sesto San Giovanni alla Stazione Centrale non ho trovati molti angoli adatti al relax); la gente è molto più cupa e stressata e meno sorridente che nella capitale; rispuntano i soliti pregiudizi e un docente sul punto di andare in pensione fa la solita battuta: “La Borsa a Roma non potrebbe mai fuzionare, è per questo che l’abbiamo qui da noi”. E comincia con la solita solfa: Roma ladrona, nessuno paga le tasse, tutti evadono il fisco. Gli racconto di mio fratello che è avvocato e ha uno studio vicino a Piazza Cavour e del fatto che, a quanto dicono le statistiche, gli evasori fiscali del Nord si equivalgono quasi a quelli del Sud e del Centro. Ci guardiamo in cagnesco; non credo che voti Lega ma già mi sta sulle palle e io a lui, l’antipatia è reciproca e si tasta nell’aria. Una mia amica, ricercatrice confermata di Vercelli, cambia argomento. Iniziamo a criticare questa mania di addobbare le città con le decorazioni natalizie quando manca ancora un mese al Natale. Progetto per l’indomani una spedizione alla Coop. Anch’io sono contrario agli addobbi natalizi anticipati. Ma quando varco la soglia del supermercato mi rendo conto di quanto mi manchi l’Italia (questo paese assurdo pieno di bellezza e pieno di difetti ancestrali che sembrano incurabili e quasi inevitabili): sniffo il Caffè Lavazza; soppeso le mozzarelle di bufala campane doc; tocco tutti i triangoli di Parmigiano Reggiano che mi è possibile toccare senza dare nell’occhio; guardo estasiato le cataste di pandori e panettoni, assaporando in anticipo il piacere che proverò a tornare dai miei per la Vigilia…

Si invecchia, ma certi vizi non ci abbandonano mai; fanno parte di noi; sono parte del nostro bagaglio e del nostro DNA.

Ci riabbracciamo con la promessa di rivederci al prossimo congresso internazionale; questa volta Sud, per favore, sussurra un’amica bionda originaria di Cassino; e un’altra le fa eco: Napoli! Oppure la Sicilia! Io voto Palermo o Catania…


Ci diamo la mano; ci diciamo d’accordo; ci allontaniamo, chi in direzione di Orio al Serio, chi di Milano Linate, chi della Stazione Centrale. Ognuno torna ai suoi posti di combattimento. Io torno in Spagna, con la sensazione di aver lasciato qualcosa di prezioso nella capitale del Nord e con la voglia di tornare a sentire il dialetto abruzzese del paesino in cui sono nato, con la voglia di tonare ad assaporare l’aria di casa…

viernes, noviembre 20, 2015

RIUNIONI ALL’ESTERO (ITALIANS)




È inevitabile: basta che due o più italiani che vivono e lavorano all’estero si riuniscano davanti a una tavolata imbandita perché si finisca a parlare di Berlusconi... Non ce la facciamo proprio a superare il trauma, a ignorare l’argomento politico (e politicizzato), a dimenticarci per un momento dell’artefice del cambiamento antropomorfico dell’italiano medio degli anni ’80 (20 anni di berlusconimo... se ci si pensa un po’ su, son veramente tanti, 20 anni, e un mio collega de “La Sapienza” lo dice sempre, lo sostiene a spada tratta: “Ci vorranno altri 20 anni per digerire gli effetti del berlusconismo, altri 20 anni!”... finirà mai? Ho i miei dubbi: è una forma mentis radicatissima nel cervello di certa gente...).

È successo l’altra sera, quando un collega romano de Roma ha avuto la brillantissima idea di riunire altri 7 compagni di lavoro italiani. È stato divertentissimo tornare a parlare italiano con gli italiani: una toscana, un pugliese, due calabresi, l’anfitrione è romano, come già detto, io abruzzese, un’altra di Genova, un altro di Torino... Dal Nord al Centro al Sud Italia...

Una delle calabresi ha portato un ciambellone con schegge di cioccolata incorporate, io una bottiglia di vino rosso di quello buono (Ribera del Duero), un altro un’altra bottiglia di vino, ma bianco, un’altra un vassoietto di dolci assortiti. Primo piatto: una carbonara buonissima, con parmigiano (“il pecorino m’è finito l’artro giorno, me dispiace”); secondo piatto: bistecchine di vitella tenerissime al pepe giallo (una vera goduria); antipasto: mozzarella di bufala campa doc (prodotta a Salerno) e finti pachini (“ragà, ce o sapete, qua i pachini veri nun se trovano”). Il tutto accompagnato da risate, chiacchiere spensierate, risate e sorrisi, fino a quando qualcuno non comincia a parlare di politica (e, quindi, a parlar male dei politici italiani) e, puntuale come una bomba sganciata su un’accampamento d’estremisti islamici in Siria, il richiamo a Berlusconi, la critica al Cavaliere, l’attacco al “fantasma” del Capo dei Capi...

“Che poi il problema è tutto qua: Craxi ha voluto che il suo pupillo andasse avanti con la costruzione di Milano 2, è stato Craxi, il socialista Craxi, a proteggere e portare avanti il progetto del suo allievo...”.
“Ma perché proprio lui e non un altro?”
“La P2”, dice uno.
“La P2, la Massoneria”, aggiunge un altro.
“Ma la P2 è collegata alla mafia?”, chiede un’altra.
“La mafia è al servizio della P2, in realtà, ovvero: la mafia nasce come braccio armato della Massoneria”, risponde un altro.
L’anfitrione si altera: “Comunque, c’ha proprio rovinato, e Renzi nasce come costola da Berlusconi”.
“Ma perché, voi credete che sia mai andato a fare i servizi sociali nell’ospizio dei vecchietti?”
“Vecchietti? Dei suoi coetanei, volevi dire!”.
“Esatto, dei suoi coetanei... voi ci credete davvero che abbia mai fatto anche solo un giorno di servizi sociali?”.
“Se per “servizi sociali” intendi: prendersi il caffè e fare due battute di spirito con gli ospiti dell’ospizio, sì”.
“Ospizio! Ma si dice “casa di riposo”, no?”, sottolinea un’altra.

E insomma, ci attorcigliamo con doppio salto mortale attorno al problema “Berlusconi” e non se ne esce vivi... L’Italia è una grande nazione, peccato per gli italiani, o meglio, per quegli italiani che c’hanno la mentalità mafiosa e berlusconiana... L’Italia, l’arte italiana, siamo i primi al mondo per quanto riguarda il patrimonio artistico e culturale! E quanti sono i romani che non sono mai stati dentro i Musei Vaticani? Ah! La Grande Bellezza! Secondo me solo un napoletano come Sorrentino poteva fare un ritratto così positivo della capitale del Regno? Ma secondo voi non ha copiato da “La dolce vita”? Non credete che Fellini sia inimitabile? Ah! La Grande Bellezza! Il cinema italiano! Dove sono andati a finire i Vittorio De Sica, i Rossellini, i Pasolini d’un tempo? Dai, suvvia, non possiamo piangerci addosso o piangere sul latte versato, i tempi sono cambiati... Oggi c’è Laura Pausini ed Eros Ramazzotti (fanno più soldi in Spagna e in America Latina che in Italia, vi rendete conto?). Comunque a me manca Paolo Fox, le previsioni di Paolo Fox! Nooo!!! Ma davvero? Ma come fai a crederci? Tu di che segno sei? Vergine! Ascendente? Pesci! Un segno di terra con ascendente un segno d’acqua... ti piace spassartela! E piano piano, finalmente, smettiamo di parlare di Berlusconi e di Renzi e ci concentriamo sulle risate, sui sorrisi e sui dolci... Evviva il ciambellone, con le schegge di cioccolata!

martes, noviembre 17, 2015


RECENSIONI

Chi mi conosce nel piano della “realtà” (Nabokov la scriveva sempre tra virgolette, questa parola, e come dargli torto) e non solo e soltanto su quello della “virtualità” (o del “cyber-spazio” di questo “diario di bordo”), sa bene che mi risulta difficile, a volte impossibile, dire di “no” agli amici... Sono – come suolsi dire – “molto amico dei miei amici” e, quindi, se uno di loro mi scrive e mi chiede il suo parere su un suo libro appena uscito e mi lascia intuire che gli piacerebbe che io scrivessi per lui una recensione al suo testo fresco di stampa, ecco, se uno di loro fa così, io non riesco a dire di no, tendo sempre ad accettare, dimenticandomi del fatto che, nella vita di tutti i giorni, il lavoro che faccio mi obbliga a leggerne altri 100 di libri che non sono stati scritti dai miei amici, altri 1000, di testi a volte non così ameni o divertenti come quelli che mi piacerebbe leggere.

E così, all’improvviso, e senza quasi rendermene bene conto, mi ritrovo con la scrivania dello studiolo invasa da libri da recensire, tomi che (in alcuni casi) sfiorano le 500 pagine, e mi tremano i polsi all’idea di dover poi consegnare la recensione entro (mettiamo) il 15 di Gennaio, o il 20 di Febbraio, o il 30 di Marzo.

Il primo è un saggio di critica letteraria sul concetto di flâneurie e la narrativa di un autore spagnolo molto quotato (forse un po’ sopravvalutato). Il libro mi arriva dalla “University of Liverpool”, da parte di una collega e amica che lavora per una rivista scientifica tra le più importanti del mio ambito di ricerca. L’autore, inglese, analizza le opere di quest’autore (che non voglio citare, per non dargli ulteriore pubblicità) a partire dal concetto succitato: a quanto ricordo, la figura del flâneur (del “passeggiatore solitario”, per così dire) nasce con la poesia di Baudelaire, ovvero, quando la città in quanto “cosmo” entra di prepotenza nell’immaginario collettivo e il poeta diventa vagabondo che canta le stranezze, le bellezze, le bruttezze, le sconcezze dell’urbe moderna e modernizzata... Dal risvolto di copertina, si capisce che l’autore fa riferimento anche ad altri modelli e cita E. A. Poe (non lo sospettavo) e Walter Benjamin (lui sì, sapevo che prima di morire aveva in mente di scrivere un tomo su Parigi, capitale europea, un testo dove il vagabondare diventa sinonimo di rimemorare il passato – personale e storico, ovvero, intimo e collettivo – dell’autore e di una nazione). E citando Benjamin, il pensiero corre alle sue letture della Recherche proustiana e a quell’altro flâneur dell’anima umana che fu Marcel Proust... Insomma, si prospetta come una lettura interessante, vedremo se l’autore oggetto di studio sarà all’altezza dei modelli citati (ora che ci penso: pure Fernando Pessoa è catalogabile come flâneur, anche se, a quanto ricordo, non si mosse mai da Lisboa, o solo rare volte, era un sedentario, ma con l’immaginazione volava alto, altro che...).

Il secondo tomo è davvero un volume gigante, sul “fantastico” all’interno del “fumetto”. Gli autori (sono due) ripercorrono la storia del genere a partire da questo elemento e mi viene subito un dubbio: cos’è “fantastico”? Cosa dobbiamo o possiamo intendere con questo termine? Comunque, basta sfogliare il libro per rendersi (fortunatamente) conto che è pieno d’immagini; anzi, a guardare bene, la parte scritta è nettamente inferiore a quella iconografica. E quindi mi domando: cosa scriverò nella recensione se sembra che ci sia poco da recensire? Dovrò parlare delle fonti iconiche? Certo è che scoprirò fumetti mai visti prima. Il panorama è davvero ampio (dagli USA anni 20 alla Francia anni 80, passando per la Spagna anni 40 e l’Italia anni 70 – Guido Crepax, Hugo Pratt, Leone Frollo, quanti geni ha dato l’Italia al genere “fumetto”!).

Il terzo libro è un’altro saggio, sul teatro di Juan Benet, uno degli scrittori più strani, affascinanti, ostici, complessi, geniali che la letteratura spagnola abbia mai creato negli ultimi 50 anni... Ingegnere di professione, come il nostro benemerito Carlo Emilio Gadda, Benet si è dedicato alla letteratura solo come passatempo, come hobby, come forma d’ozio. Risultato? Ha dato alle stampe uno dei romanzi più enigmatici che siano mai stati pubblicati in Spagna negli anni 70 (Volverás a Región, del 1969); una serie di saggi di altissimo livello e capaci di catturare l’attenzione anche del lettore più svagato o distratto su questioni “facili facili” come il Tempo, la Morte, l’Amore, il Tradimento, l’Origine delle Lingue, l’Origine dell’Uomo, Dio, l’Apocalisse, et coetera... et coetera...; una serie di racconti, favole e, appunto, opere teatrali inclassificabili.
So già che la lettura di questo saggio mi terrà inchiodato alla sedia (o al sofà) per un fine settimana intero. La mia compagna di sventure è avvisata. Non disturbare. Lettura in corso. Lettore in azione.

Il quarto e ultimo libro di cui dovrei dare un’opinione scritta poi convertibile in recensione è... No, di questo meglio che non parlo. Non ora. Non qui. Di certo è che non mi annoierò. Non è un saggio, ma un romanzo. E siccome chi lo scrive è davvero una persona amica, non voglio parlarne a sproposito per scaramanzia (e mettiamo poi che non mi piace? Che Dio ce ne scampi e liberi! È difficilissimo scrivere una recensione di un romanzo di un’amica che poi scopriamo non essere all’altezza: che fai? Fingi? T’inventi una recensione positiva anche se poi riconosci che il libro non vale molto? Come si fa? Come ci si comporta quando si vuole essere onesti intellettualmente e, allo stesso tempo, non si vuole ferire la sensibilità di una persona che conosciamo, che ammiriamo umanamente, e che letterariamente può fallire? Chi sono io per giudicare gli altri? Quest’ultima domanda me la faccio ogniqualvolta mi si chiede di scrivere una recensione; non credo che il mio parere sia più valido o azzeccato o scientificamente sicuro di quello di un altro; e poi, di nuovo: ma chi sono io per giudicare lo sforzo di un altro?).

E insomma: quattro recensioni su quattro testi diversi da fare entro massimo quattro mesi (Marzo 2016  la dead-line).


Speriamo bene...

martes, noviembre 10, 2015

INCUBI RICORRENTI (RINCORRENDOMI)




Dunque si diceva degli incubi (oggi, 9 Novembre del 2015, mi sembra proprio il giorno giusto per parlarne, oggi che metto il punto finale al “libro”, una roba da 350 pp. che fa venire il sonno sin dall’introduzione, un mattone indigesto che chissà quante copie venderà, se mai ne venderà più delle 2 o 3 che io posso immaginare, un tomo che andrà ad occupare spazio nelle biblioteche nazionali della Spagna e, chissà, fors’anche in qualche biblioteca italiana, pubblica o privata, un lavoraccio che mi ha tenuto impegnato e mi ha fatto sudare per circa 6 mesi, un lavorone che sono certo mi terrà attaccato allo schermo del pc per altri 5 mesi, prima di arrivare al “visto si stampi” e alla fantomatica “versione definitiva” – ma è mai esistita, esiste, esisterà mai una versione che possa definirsi davvero tale? Quando è il momento giusto per dire: sì, questa è la “definitiva”, questa è quella in cui non ci sono più refusi? E’ mai pensabile stampare un libro senza refusi?)…

E insomma, dicevamo, gli incubi… Ci sono incubi ricorrenti che mi tormentano la notte e mi fanno sudare freddo; sono sogni strani, che si ripetono, e il fatto stesso che “tornino” me li rendi ancor più odiosi e strambi e fastidiosi.

In uno di questi, mi trovo a Roma, sono vicino alla Stazione Termini, diciamo pure, tra la Stazione Termini e Piazza della Repubblica. Sono in compagnia di N. (non ho il coraggio di scrivere il suo nome per intero), una mia ex-alunna, diciamo pure, una delle ex-alunne più belle e pazze e affascinanti che abbia mai avuto in tanti anni di “onorata” carriera.
“Ma cosa ci fai a Roma?”, le chiedo, sorpreso dalla sua presenza (veste da sposa).
“Ma non te lo ricordi che ieri sei venuto a prendermi e mi hai dato una mano con la valigia? Te l’ho detto: scendo da Udine e vado a Salerno”, mi risponde piccata, spostandosi il velo con un soffio e un buffetto della mano (un gesto rapidissimo che nel sogno si svolge praticamente al ralenty).
Poi cominciamo a camminare. N. ha fame e dice che ha voglia di McDonald (è strano come nei sogni utilizziamo le marche del mondo reale) e io allora le propongo di andare a Via Nazionale perché lì ce n’è uno che è sempre aperto, 24h (ma nella realtà so che non è così; nel sogno, mi convinco che sia così).
E continuiamo a camminare, ma Via Nazionale è un deserto, non c’è un cane in giro, io mi spavento perché c’è troppo silenzio. Si fa notte subito, senza preavviso.
“Andiamo a fare un giro nei musei?”, mi chiede N., propone, come fosse la Notte Bianca.
Faccio di sì con la testa. E all’improvviso ci troviamo a correre e a percorrere le sale del Museo del Prado, prima, degli Uffizi, poi. Non capisco più se il monumento su cui mi appoggio per ripigliare fiato sia il Nettuno gigante che occupa un lato di Piazza della Signoria o se si tratti del Saturno dell’omonimo quadro di Goya (“Saturno che divora i suoi figli”, un quadro impressionante, pieno di sangue e di buio). Non capisco, in realtà, se siamo già a Salerno o siamo ancora a Udine (e ora mi ricordo di doverle chiedere cosa ci fa mai a Roma se prima mi ha detto chiaramente che scendeva da Udine per andare a Salerno; che senso ha, cosa cazzo c’entra Roma, con Udine e Salerno, qual è il nesso, se un nesso c’è, da chi dorme N. se io non la ospito in casa).
“Accidenti, ci seguono”, mi fa N., obbligandomi a riprendere la corsa. Mi volto indietro e mi accorgo che siamo circondanti e che veniamo inseguiti da un’orda assurda di paparazzi con le macchine fotografiche vecchio stampo. I flash ci accecano. N. corre, ma rompe il velo del vestito. Comincia a piovere. Scoppia a ridere perché vede nel mio volto il ritratto della paura.
“Ma cosa vogliono da noi?”, le chiedo. E N. ride a crepapelle. Mi sbatte contro la cancellata di un’ambasciata (non ricordo più di quale paese, in realtà, a volte cambia, a volte si tratta di una saracinesca, di un bidone della spazzatura, di un’auto parcheggiata) e comincia a spogliarmi. Le strade si riempiono di traffico, ma io ed N., ignari dei passanti, ci mettiamo a fare sesso selvaggio sul marciapiede. Inizia a piovere. Fa sempre più buio e inizio ad avvertire una sgradevole sensazione di bagnato, di umido, di freddo e bagnato insieme. N. gode, grida sottovoce, io le stringo le mani al collo, grida forte, poi si accascia per terra.
“Sono ancora là”, mi fa, dopo essersi rialzata (si rassetta il vestito da sposa, ora tutto macchiato e sporco di fango). Le orde di paparazzi impazziti.
“Ma cosa abbiamo fatto di male? Perché ci inseguono? Che vogliono da noi?”, le chiedo. E N. ricomincia, prima sorride, poi ride. Mi ritrovo un obiettivo di una macchina fotografica in mano. Mi volto e vedo che i paparazzi, in realtà, sono degli zombie, dei ritornanti, dei morti viventi, in perfetto stile The Walking Dead, e io ho sempre più paura, tremo, scappo, corro, riattraversando le sale di un museo enorme, un museo che non esiste, ma che è dato dal mix delle sale sovrapposte del Louvre, degli Uffizi, del Prado, dei Musei Vaticani, della Galleria Borghese…
Finché perdo di vista N. e non so più da che parte scappare…
Fine… Mi sveglio… Sudato… freddo… come fossi Dylan Dog alla fine di uno dei tanti incubi delle sue avventure disegnate. Accanto a me non c’è N., ma da un momento all’altro mi aspetto di ritrovarmi con l’obiettivo di una macchina fotografica in mano. E invece niente. Cosa mai vorrà significare questo incubo ricorrente? Perché N.? Perché anche adesso non riesco a scrivere il suo nome per esteso? Perché mi vergogno? Perché N. è vestita da sposa? E perché facciamo l’amore in mezzo alla strada e alla sporcizia, di notte, al buio e al freddo, come due bestie? E chi sono, o meglio, cosa diavolo rappresentano (per me) quei paparazzi impazziti? E soprattutto: perché questo è – da un mese a questa parte – uno dei miei incubi peggiori e ricorrenti? Perché tanta “ricorrenza”?

Vado a letto, immaginando la faccia dell’editore quando aprirà il mio file Word: 350 pp., che potrebbero diventare tranquillamente 400 (o anche 450) in base ai criteri redazionali della casa editrice stessa… Un tomo, un mattone, un librone che ancora non mi sembra di essermi tolto dalle spalle, un peso immane che mi opprime come N. vestita da sposa o come le orde dei paparazzi che mi inseguono e che mi accecano coi loro maledetti flash.

Freud, io t’invoco. Illuminami (anche se non d’immenso), ma, per favore, illuminami…

miércoles, octubre 21, 2015

Madrid, ancora e sempre



Dunque, domani a quest’ora (23:03) sarò già a Madrid, la capitale del Regno… Dovrò andarci per lavoro, ma per me, rimettere piede nella Villa y Corte è sempre sinonimo di “piacere”. Là ho trascorso parte della mia vita: 4 anni e mezzo, se faccio la somma di tutte le volte che ci sono andato per viverci (anche se si è sempre trattato di una vita “a tempo”, ben circoscritta a una determinata frangia temporale – di solito, i 2 o 3 mesi che dura l’estate in Spagna, da Giugno ad Agosto, e a volte anche fino a Settembre, inclusi). Là ho vissuto alcune delle disavventure più assurde e rocambolesche e romanzesche della mia vita (da scriverne un paio di racconti grotteschi e altrettanti di tono umoristico amaro).

A Madrid rivedrò Ana, che è il mio porto sicuro nel mare in tempesta della capitale. Ana è come una specie di sorella per me, un’amica, una confidente, una su cui puoi sempre contare, una che sa apprezzarti per quello che sei e una che se ti devi criticare perché stai sbagliando lo fa, senza peli sulla lingua.

Abbiamo già deciso qual è il bar che incornicerà il nostro reincontro: uno di quelli un po’ grezzi e un po’ popolani in cui si mangia una tortilla da paura e in cui si beve birra fino alle 3 del mattino.

Certo, il giorno dopo siamo costretti entrambi ad andare a lavoro e per questo motivo abbiamo già pattuito che non faremo più tardi dell’una (a Madrid fare l’una di notte è normale amministrazione; d’altronde, si sa, gli spagnoli adorano mangiare e cenare tardi, qui in Spagna alle 22:30 è un buon orario per mettersi a tavola, e basti pensare che il tg della sera inizia alle 21:00, per finire una mezz’oretta dopo).

Non so cosa mi riserberà Madrid questa volta. Non so proprio immaginarlo. Di sicuro so che, come sempre, mi risentirò giovane e “pieno di vita”, come direbbe Jovanotti, ed entusiasta e voglioso (desideroso) di vivere al massimo, come se non esistesse un domani, come se non ci fosse il tempo di fare e vedere e toccare e sperimentare le mille cose, paesaggi, persone, fatti che offre la capitale.


Domani sarò a Madrid e rivedrò persone amiche e ripasseggerò davanti al Museo del Prado e risperimenterò le stesse emozioni provate tutte le altre volte. Perché Madrid fa parte della mia vita così come la mia vita è (continua a svolgersi) a Madrid, anche quando non ci sono fisicamente, anche quando non le appartengo in quanto transeunte. Madrid, ancora e sempre, finché ci sarà fiato in gola per camminare, viaggiare, contemplare, parlare e leggere e scrivere. Madrid. La Corte y Villa.

viernes, octubre 09, 2015

Pinocchio, o dell’“originalità” durevole dei “classici”



Italo Calvino sosteneva che “classico” è un libro che “non ha finito di dire ciò che aveva da dire”. È una bella definizione, ne converrete... E si attaglia alla perfezione a opere come, chessò io, l’Odissea (o la sua versione moderna e modernista: Ulysses di Joyce); il Don Chisciotte di Cervantes; L’infinito di Leopardi; o Hamlet di Shakespeare...

E la definizione è applicabile anche a Pinocchio, un “classico” sempreverde della letteratura cosiddetta “infantile” che, in questi giorni di iper-lavoro e di stress costante (devo finire un libro, un saggio che sta toccando quota 250 pagine!), mi sta aiutando ad andare avanti, a prendere fiato e a guardarmi intorno con occhi meno angosciati e più allegri...

Credo di non averlo mai letto Pinocchio per intero. Immagino che pochi lo abbiamo mai letto per intero. Con Pinocchio succede come con gli altri “classici”: ecco una seconda definizione “calviniana” di “classico”: quel libro che “non abbiamo mai letto ma che conosciamo anche senza averlo mai letto”. E leggendolo, invece, si scoprono subito un sacco di cose interessanti per la loro freschezza, schiettezza ed originalità. Prendiamo l’incipit:

“C’era una volta...
-          Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”.

È un prologo che spiazza perché scombina le carte in tavola: sembra proprio che Carlo Collodi si sia divertito a scrivere le avventure di questo “pezzo di legno” che poi assume i tratti (umani) di un bambino e che ne combina di tutti i colori. Dietro questo incipit io ci vedo l’allegria di scrivere per il piacere di scrivere, senza obiettivi prefissati, senza una trama già studiata a tavolino, senza una meta da raggiungere a tutti i costi (“bambinata”, sembra che Collodi definì i primi abbozzi di quello che solo in un secondo momento sarebbe diventato un “romanzo” per fanciulli; e mentre lo definiva tale, si scusava con l’editore per come lo aveva scritto).

Andando avanti, questa freschezza, questa allegria, questa voglia di scrivere per il piacere di scrivere (e di raccontare delle storielle interessanti o che possano catturare l’attenzione del lettore) si percepisce in modo ancora più lampante, come in questo episodio del cap. V: Pinocchio è da solo e deve cercare di calmare la fame. Vede un uovo e si prepara a cucinare:

“Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa, messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua e, quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell’uovo e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma, invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso il quale, facendo una bella riverenza, disse:
-          Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiato la fatica di rompere il guscio. Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa.
Ciò detto, distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio” (tutte le citazioni da Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1971).

È inevitabile: non si può non sorridere (o ridere) delle parole del pulcino che fuoriesce dall’uovo e, così, ottiene la libertà; non si può non meravigliarsi della genialità di Collodi nel far interagire tra loro un burattino (parlante), un uovo e il contenuto dello stesso... L’immaginazione dello scrittore è libera (liberrima, direi) di modificare i dati della realtà per mescolarli e riordinarli in base a principi che con la realtà hanno poco a che vedere. È come quando Charlie Chaplin, nel meraviglioso e poetico La febbre dell’oro, in attesa dell’amata e già prevedendo che la ragazza non si presenterà alla cena galante che lui le ha preparato con tanto affetto, inizia a intrattenersi (e a far passare il tempo) creando una coreografia perfettamente disegnata con tre panini infilzati da un paio di forchette. Chaplin fa letteralmente danzare i panini e noi spettatori (con lui) restiamo a bocca aperta, estasiati da tanta eleganza, colpiti dal nuovo uso che si può fare di un oggetto, di un prodotto comune, come due tozzi di pane.


Ecco, il pulcino educato di Pinocchio mi fa pensare ai panini ballerini di Chaplin. Non ci sono freni né tabù né inibizioni di sorta. Quando Collodi si dimentica per un po’ della morale (e dell’intenzione moraleggiante delle avventure della sua “creatura”) è davvero capace di sorprenderci, di farci ridere o sorridere, di farci riflettere su come cambia o potrebbe cambiare la percezione della realtà se solo si fosse in grado di sposare un nuovo, più creativo, meno razionale e meno freddo punto di vista. Ovvero (forse): se solo si fosse capaci di tornare (per un attimo) un po’ bambini...

sábado, septiembre 19, 2015

Ritrovamenti casuali



Dunque, prima di raccontarvi degli incubi, vi racconto di uno dei più strambi e formidabili ritrovamenti casuali della mia splendida estate 2015 (un'estate che ho già definito "una delle più belle della mia vita", e il fatto che l'abbia trascorsa tra la Sardegna e la Sicilia può aiutarvi a capire perché io mi ostini a definirla tale...): ero intento a rimettere in ordine i miei vecchi appunti dell'Università, a fare pulizia, come si suol dire, a risistemare un pochino quel macello, quando, all'improvviso, da una scatola di cartone del latte, spuntano fuori una serie di quadernetti a righe - tipo per la quinta superiore - in cui, ventenne, avevo scritto - o scarabocchiato - a penna un romanzo in progress... Titolo del romanzo: "Giallo." (col punto, come omaggio a "Nero.", col punto, opera grottesca e folle del mio ammirato Tiziano Sclavi, l'inventore di Dylan Dog); numero finale dei capitoli: 7 (come i 7 peccati capitali, come i 7 giorni della settimana, come le 7 virtù teologali, insomma, per farla breve, un numero di capitoli che mi permettesse di scrivere la stessa storia - con variazioni - ma con 7 diversi stili narrativi, omaggio evidente all'Ulisse di Joyce); numero reale dei capitoli scritti: 2 (e se provo a fare mente locale, ormai non riesco proprio più a ricordare perché mi fossi fermato proprio là); numero medio delle pagine dei primi 2 capitoli: 45 ognuno (per un totale attuale, quindi, di 90 paginette scritte su due quardernetti)...

Non sto qui a dirvi di cosa parla il romanzo (o presunto tale); di certo, leggendo le 90 pagine, sono riuscito a rendermi conto di quanto fossi un "giovane di belle speranze", di quanto mi piacesse scrivere (con la BIC nera) e di quanto fossi incazzato col mondo... Prima usavo molto meglio l'arma della satira, dell'ironia, dell'auto-ironia e dello humor nero... Ero davvero uno arrabbiato col mondo e con il resto delle persone che mi stavano accanto. Ero davvero un ventenne "leopardiano", uno che ci credeva davvero al "pessimismo cosmico" di cui faceva sfoggio sia nei suoi colloqui con i propri amici e coetanei, sia nelle sue prove letterarie abbozzate e subito dopo abortite...

Un estratto dal cap. 2: questo frammento s'ispira, evidenemente, al mese che trascorsi a leggere i due capolavori di Ariosto e Tasso prima di affrontare il mio primo esame di Letteratura italiana all'Università... Ora so che a quell'esame presi 30 e lode; mentre scrivevo questo brano, tremavo, invece, all'idea di non farcela. Ora che son passati 20 anni (quasi) da quell'esperienza e da quell'atto di scrittura, posso dire serenamente che: a Tasso preferisco di gran lunga Ariosto; e che l'Orlando Furioso è davvero un'opera moderna, e piena di ironia, e non mi sorprende il fatto che Miguel de Cervantes l'adorasse così tanto (e la leggesse in lingua originale) e adorasse anche l'Ariosto come modello da imitare... "Forse altri narrerà con miglior plettro..." (buona lettura, due o tre lettrici fedeli che ancora mi sopportate!)...


Esame di Letteratura Italiana: Ariosto e Tasso

“Che esami devi fare? Letteratura italiana. E su chi è? Su Tasso e Ariosto. Hai studiato? Sì, abbastanza, anche se controvoglia. Perché? Perché, perché sto passando un periodo in cui mi va più di leggere che di studiare, ecco perché. Hai letto la Gerusalemme liberata? Sì, certo. Potresti riassumermela in poche parole? Sì, certo: alcuni crociati cristiani combattono contro alcuni musulmani per riconquistare il Santo Sepolcro (che, per la cronaca, si trova nella Città Santa, e cioè, Gerusalemme). Succede che, a un certo punto, il Diavolo s’incazza e aiuta i musulmani con mille sotterfugi e malefici, tanto da far desistere Rinaldo (il capo dei cristiani) e i suoi. Senonché, Dio sgama le malefatte del Diavolo, s’incazza pure Lui, ovvero, scatena anche Lui la Sua Ira e conferisce poteri eccezionali al comandante dell’esercito crociato e a Rinaldo, l’eroe del gruppo. Dopo una battaglia cruenta e mille peripezie, viene riconquistato il Santo Sepolcro e i Mori sono sconfitti. Quali sono le tue personali critiche, considerazioni o analisi da fare sull’opera e sull’autore? Va notato che in tutto il poema, Tasso sottolinea il contrasto bene-male, cristiani-musulmani, sfruttando oltre alle figure retoriche tipiche del caso, come l’ossimoro, anche il contrasto spaziale (Gerusalemme è il luogo della Salvezza, della Pace spirituale, mentre il bosco attorno a Gerusalemme è il luogo “dantesco” della perdizione, del peccato) e il contrasto cromatico (il buio, l’oscurità, il tramonto indicano sempre sventura, cattiva sorte, disfatta nel campo di battaglia, mentre la luce, la luminosità, l’alba, detta anche Aurora, indicano quasi sempre fortuna, buon esito nella battaglia, insomma, vittoria).

Oltre a ciò va notato che:
1 – Tasso è un cristiano dubbioso;
2 – Tasso fu accusato di eterodossia e per questo stava per diventare completamente pazzo;
3 – Tasso era un complessato: prima di redigere completamente l’opera, la sottomise all’analisi critica di: preti suoi amici; preti suoi nemici; politici influenti; esorcisti; poeti di corte; letterati; cultori del verso e della retorica; maestri delle arti esoteriche; il suo veterinario; il suo psicanalista; sua sorella; analfabeti di strada; soldati crociati in pensione; amici di stanza nel manicomio di Santa Chiara; Santa Chiara (ma non gli rispose mai); vari ed eventuali che gli venivano in mente ogni volta che credeva si dovesse censurare una parte della sua opera;
4 – Tasso è un perfezionista: ricerca il bello, il puro, il lussuoso e il lussureggiante, l’aulico, il perfetto, il magnifico, il munifico, il meraviglioso e il sublime, attraverso una lingua molto articolata e molto organizzata tanto dal punto di vista della forma (si veda l’attenzione che egli dà alla metrica e al suono prodotto dal concatenamento dei vari versi), quanto dal punto di vista del contenuto (si veda l’opzione “equo” per “cavallo”, o “parvo” per “piccolo”, o “miserrimo” per “senza una lira in saccoccia”);
5 – Tasso se la credeva un giorno sì e l’altro no, a seconda del suo umore.

Ma passiamo ad altro: hai letto l’Orlando Furioso? Sì, certo, e con gran piacere. Potresti riassumermelo in poche parole? Sì, certo: Orlando è un soldato dell’esercito cristiano, uno dei più forti, e combatte al servizio dell’Imperatore Carlo Magnum. Senonché, durante la Crociata, sogna che la sua fidanzata, ovvero morosa, Angelica, lo tradisce con un altro. Orlando diventa pazzo di gelosia, finisce per combattere al fianco dei musulmani, gli altri colleghi ovviamente s’incazzano e tentano di farlo rinsavire. Allora Astolfo, che è il più pazzo dell’esercito di Carlo, vola sulla Luna e gli riprende la Ragione. Rinaldo, che è un altro suo collega, gli ficca per il naso la Ragione e Orlando torna come nuovo (un vero cristiano). Nel frattempo, però, Angelica si sposa con un pastore di nome Medoro e non avrà più i tanti spasimanti che durante la Crociata si scannavano pur di ricevere in dono un bacio da lei, per il semplice motivo che diventerà proba e tutta casa e chiesa. Quali sono le tue personali critiche, considerazioni o analisi da fare sull’opera e sull’autore?
Va notato che in tutto il poema Ariosto non fa altro che incasinare nel modo più assurdo possibile le storie relative ad Orlando e agli altri personaggi principali, sfruttando quella tecnica che cinematograficamente è definita “montaggio alternato” e che, letterariamente, è definita “tecnica dell’incastro”.
E c’è un episodio, in particolare, che ti ha colpito tra i tanti narrati dall’autore?
Sì, certo: quello in cui Orlando, completamente fuso e fuori di testa, stende con un pugno un cavallo pesante 10 tonnellate e quando lancia dalla Spagna alla Francia due poveri contadini che l’avevano offeso con la sola forza delle braccia. Ho riso per più di un quarto d’ora, leggendo quell’episodio.
E sull’autore? Che cosa mi dici?
Per quanto riguarda l’autore, va notato che:

1 – Ariosto era un razionalista incallito ed ante litteram;
2 – Ariosto era un ironico che aveva sempre la testa tra le nuvole: lo dimostra il fatto che incasina a tal punto le diverse sottotrame che alla fine il lettore non sa più se sta guardando la puntata 1242 di “Beautiful” o se si è sbagliato a prendere un libro al posto di un altro, per cui uno lascia la pagina in cui Orlando va in Inghilterra e, girandola, ritrova lo stesso personaggio, ma stavolta è alle Hawaii a prendere il sole con il suo fidato cavallo;
3 – Ariosto non amava le donne: molti critici lo definisco, per tale ragione, un misogino con le palle. Alcuni testimoniano che, pur dormendo nello stesso letto con sua moglie, faceva l’amore con ella solo 3 volte l’anno. Le voci più maliziose (o maligne) parlano addirittura di maltrattamenti ai danni dalla povera consorte. Altri ancora dicono che la tenesse legata con una corda al piede del tavolino della cucina e che la liberasse solo all’ora di pranzo o di cena, perché a lei sarebbe spettato il fare da mangiare;
4 – Ariosto, a differenza di Tasso, era un umorista: una volta disse: “Mi sento come un vaso di rosmarino sul balcone: di fuori”. Testimoni oculari fidati affermano che tale boutade fu da lui fatta appena terminato il quarantaseiesimo capitolo del suo poema”.


Queste, se non tali appunto, erano i pensieri di Federico Di Gianni, studente universitario iscritto a Lettere, mentre percorreva Via Paolo Uccello, la via che lo avrebbe condotto a casa il 16 Agosto del 1998, alle ore 20,45 circa, mentr'egli pensava, rimuginando: “Or, se mi mostra la mia carta il vero, non è lontano a discoprirsi il porto”…

jueves, septiembre 17, 2015

Dopo tanto

Dopo quasi più di due mesi torno a scrivere su questo "Diario di bordo" di uno (perennemente) "ai bordi" (delle cose, delle questioni scottanti, delle domande esistenziali e dei problemi universali che preoccupano milioni di esseri umani su questa Terra).

E mi figuro la faccia di quella lettrice (continuo ad avere due o tre lettrici, a quanto ne sappia, e son tutte molto fedeli a questo "blog") che, dopo aver letto la poesiola "Disintegrate parole" di tale Tony Umorali (un personaggio di romanzo? Una persona realmente esistita? Un intruso? Un invasato? Un altro-da-me che vuol fare il fico?), deve essersi domandata: e ora? Ha smesso di pubblicare le sue fregnaccelle su questo "blog"? È morto, per caso? Si è stufato di condividere con la blogsfera (come dicono quelli trendy) i parti della sua mente malaticcia?

Ebbene, la risposta è implicita: no, non sono morto; no, non sono stufo di condividere con la blogsfera; no, non ho smesso di pubblicare le mie cosucce da nulla...

Semplicemente, è che ho trascorso quella che potrei definire come "la migliore estate della mia vita" e che, quindi, quando uno è impegnato a viverla, la vita, non può, non è sano, mettersi a scriverne... Ed è un bene (che sia così): ed è così che funziona con me la scrittura: nasce soprattutto nel momento del bisogno, quando sto male o quando qualcosa mi preoccupa, o mi ossessiona, o mi turba, e allora sì, lei, l'amica scrittura, diventa un'ottimo alleato, uno strumento perfetto per chiarirmi le idee e schiarirmi l'orizzonte (privo di senso) che sto contemplando - turbato - in quel preciso momento (che poi ci siano persone che scrivono quando sono ultra contente o ultra felici, beh, che ve devo dì, so gusti e le vie della scrittura sono - davvero - infinite).

Ergo: ricominciamo questo "diario" dal 17 di Settembre (si preparano i corsi del prossimo semestre; si rifanno i conti con gli esami dell'appello straordinario; ci si rimette chini sulle tesi e le tesine di gente che ignora che esistano norme ortografiche e che, a volte, ignora che esista una cosa chiamata "grammatica"). Ma dicevo: andiamo avanti...

P.S.: in questo "diario" non ho mai dato molta importanza ai sogni; né agli incubi che - da gran lettore di Dylan Dog - mi disturbano di notte un giorno sì e l'altro pure... E però ho deciso che certi sogni (e incubi) li devo raccontare, proprio perché raccontadone (e raccontandoli) mi sembra di poterli esorcizzare... In particolare quello in cui appare una mia cara ex-alunna di liceo classico (una che, maggiorenne, aveva un debole per me, come suolsi dire) nell'atto di percorrere con me tutti i musei e i siti archeologici più famosi di Roma e in quello di salvarmi dalle grinfie di un regista che vuole letteralmente il mio scalpo... Se ne rinarrerà. Statene certi.

lunes, julio 06, 2015

Disintegrate parole



Disintegrate parole
sul fondo del Mare di Bering,
lucine segrete che aprono
la porta
verso mondi confusi e infiniti
e giocosi
in cui T. S. Eliot chiacchiera
allegramente
con Dante
e Luis Cernuda gioca
a pallone con Góngora.

Spassosi
diletti dediti all'otium,
marasmi vorticosi
che non riuscirò mai
a decifrare e a descrivere
e a focalizzare
e a plasmare.

Gocciole frolle
che cadono
dentro cristalli
di carta.

Biondi sorrisi,
nuvole grige squarciate,
strade imbiancate,
mari ovviamente infiniti...

Siete pronti?

[Poesia inedita, by Tony Umorali]

lunes, junio 29, 2015

Rondini, afa e insonnia e nostalgia di casa


E’ quasi mezzanotte, nella città spagnola in cui mi trovo a vivere, e oggi abbiamo toccato quota 43 gradi. Un caldo asfissiante piuttosto normale da queste parti (siamo alla stessa altezza di Messina o di Palermo, o di Catania, mi pare, ora non ricordo più bene e, comunque, a pochi kilometri dalle coste africane). E come ogni fine settimana gli abitanti della città in cui mi trovo a vivere fuggono e abbandonano le loro case alla solitudine e all’afa per spostarsi in blocco verso il mare e  la spiaggia e un po’ di mini-vacanze refrigeranti (molti qui hanno la doppia casa: quella “normale” di città e quella “estiva” in riva al mare).

Oggi sono tornato anch’io dal mare, ma l’ho fatto prima del tempo. Volevo sorprendere la città mentre dormiva all’ora della siesta. Un deserto. Un silenzio irreale. Nemmeno i cani in giro sui marciapiedi. Nemmeno l’ombra di un essere umano nei bar o nelle terrazze del centro. Nemmeno i mendicanti che ti chiedono l’elemosina col sorriso (qui perfino i barboni sembrano essere influenzati dal clima mediterraneo e solare, un’allegria che si respira a cielo aperto).

Il palazzo in cui si trova l’appartamento in cui vivo è vuoto. Molte finestre sono chiuse (le tapparelle abbassate come se il proprietario fosse morto all’improvviso o avesse abbandonato di fretta e furia il luogo del delitto). Non si sente nemmeno una mosca volare.

Mangio una macedonia fredda. Uno yogurt Danone al cocco con i cereali (questi ultimi li aggiungo io). Un caffè decaffeinato per riuscire a dormire (anche se so già che è tutto inutile e che dovrò sorbirmi l’asfissia e la compagnia fastidiosa e, a tratti, ingombrante dell’insonnia).

Ascolto Alex Britti ripescato da una vecchia cartella del computer italiano. Ogni tanto apro il mio HP italiano ed è come aprire la cassa del tesoro: ricordi, foto, canzoni, vecchi lavori che oggi riscriverei in tutt’altro modo e con tutt’altro tono, racconti iniziati e mai portati a termine.

Parte “Prendere o lasciare” e mi viene in mente – non so perché – uno dei miei angoli preferiti della Capitale, e cioè, il Colle Oppio, a due passi dal Colosseo, di fronte al Colosseo, a due metri da Via Merulana, anzi, tra Via Merulana e il Colosseo (Via Mecenate è la strada più tranquilla di quella zona, e anch’essa, una delle mie favorite, sembra regnarvi una calma apparente stranissima, trattandosi di Roma – ma chi legge questo “diario di bordo” sa che a Via Mecenate ho dedicato già molte parole, in passato).

E ricordo che a Colle Oppio ci ho baciato almeno due ex. Una era spagnola anche lei (come la mia attuale compagna d’avventure). L’altra era romana d’adozione, ma campana di origini. E forse c’è pure una terza, ma non era una fidanzata, forse era solo una turista, una storia nata in un pub e – chissà come e chissà perché – terminata a baciarsi sotto il cielo estivo di Roma, seduti su una panchina del Colle Oppio.

Nostalgia d’Italia? Non direi. E allora? Perché l’altro giorno ho fatto una lasagna? Io, un inetto in cucina, un perfetto incapace con mestoli e pentole, che mi metto a fare il ragù (3 ore di cottura) e compro le sfoglie della Barilla confidando nella marca? E perché il giorno dopo ho proposto alla mia compagna d’avventure di comprare tutto l’occorrente per fare un tiramisù? Io, un tiramisù? (dall’ultimo viaggio in Italia ho comprato perfino l’Amaretto di Saronno – doc – da aggiungere come tocco di classe o trucco da grande chef per inzuppare i Savoiardi – quelli non ci sono di marca italiana, o almeno, non li ho mai trovati qui in Spagna).

Smetto di ascoltare Britti, o meglio, abbasso il volume, e mi pare di sentire (a mezzanotte) il cinguettio tipico delle rondini. A mezzanotte in punto. Le rondini.

A Roma era piuttosto normale sentire il verso dei gabbiani. Ce ne sono molti che svolazzano intorno alle bandiere dell’Altare della Patria. Si vedono anche dal Colle Oppio. Squadre di gabbiani che planano e si riposano sopra quella che Peter Greenaway definì “la macchina da scrivere” (e ci girò anche un film, all’interno, anche se ora non ne ricordo il titolo).

Da quant’è che non guardo un film di Peter Greenaway? Che fine ha fatto il regista di Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante e di I misteri del giardino di Compton House?

Il vivere in Spagna mi sta rendendo forse meno cinefilo?

Smetto di ascoltare le rondini (a mezzanotte? Ma siamo proprio sicuri? Non credo di avere le allucinazioni) e provo a coricarmi con un buon libro a farmi compagnia. Un discreto mattoncino. Quasi 600 pagine di scrittura fitta fitta nella versione tascabile dell’Einaudi che maneggio da qualche giorno. E’ il romanzo con cui Walter Siti ha cominciato la sua carriera da scrittore. Scuola di nudo, scritto con uno stile incredibilmente plastico, mobile, lirico, musicale, sorprendente e, a tratti, sinceramente indescrivibile. Siamo attorno agli anni 90 (il romanzo uscì nel 1994). Walter (così si chiama l’io narrante e protagonista assoluto e – a quanto pare – autobiografico della trama) ci narra i suoi alti e bassi lungo la piramide medievale dell’Università italiana (Pisa, dove feci il dottorato, qui riconoscibilissima, anche per il dialetto che il narratore mette in bocca ai personaggi pisani), i suoi scontri con i colleghi, le lotte intestine senza pietà per il nemico e, soprattutto, i suoi amori estremi per una variegata tipologia di uomini (dai culturisti alle marchette, dai giovani svampiti ai coetanei disillusi che magari hanno moglie e figli ad aspettarli a casa, i carabinieri finto-machos che poi se la fanno col prof. consenziente).

Leggo e smetto di ascoltare il cinguettio delle rondini. Ora è il ventilatore a dettare il ritmo della nottata. Quando all’improvviso m’imbatto nella tipica frase storica che la mia mano non può proprio fare a meno di sottolineare con la matita:

“Intuisco che non potrò vivere in un mondo dove tutto ha conseguenze” (cit., p. 218).

Che tristissima verità. Nel nostro mondo tutto ha conseguenze. Per questo Pascal diceva che le disgrazie nascono dall’incapacità dell’essere umano di starsene seduto, da solo, dentro la propria stanza. O forse non era così o non lo dice Pascal. Ma che importa?

In realtà, a differenza di Walter, io credo di trovarmi a mio agio proprio perché so che nel mondo tutto ha conseguenze. Il bello è che non sempre si sa che tipo di conseguenze scaturiranno da che tipo di esperienze si faranno. E io sono pronto a tutto. Io adoro ogni tipo di esperienze. Non ho paura delle rondini a mezzanotte, io…

L’insonnia, quella sì, ha la meglio sui miei nervi. Lei sì che mi fa paura. Ma andiamo avanti:

“Riesci ancora a distinguere tra materiale e no? Io ho l’impressione che ormai le cose siano la proiezione pornografica di se stesse; chi oggi volesse fare della pura poesia descrittiva, temo che rischierebbe un processo per oltraggio al pudore” (id., p. 316).


Accidenti, è vero! Matita. Sottolineatura. Veloci. Interessante, questo Walter…molto interessante...

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