miércoles, febrero 25, 2015

UNA NOVELITA LUMPEN, di Roberto Bolaño


C’è un mistero perturbante al centro del romanzo breve (o racconto lungo o nouvelle) Una novelita lumpen del grande scrittore cileno Roberto Bolaño: quello che concerne la relazione d’amore e di sesso anomala tra Bianca, la protagonista e voce narrante della trama, e Maciste, un ex-culturista divenuto famoso grazie ai film “mitologici” (quei film di serie B o Z che si giravano a Cinecittà – quando i suoi studi erano ancora frequentati da registi americani, oltre che nostrani – e che mettevano in scena le imprese titaniche dei vari Ercole, Bruto, Maciste o Achille et alia...).
Bianca è diventata orfana dopo un incidente stradale avvenuto nel Sud Italia e che ha spezzato le vite dei suoi genitori. Ora vive a Roma e si trova coinvolta nella dura missione di rifarsi una vita insieme al fratello più piccolo. Lei si ingegna a fare l’aiutante in un negozio di parrucchiera e lui si allena in palestra, dove pulisce bagni e spogliatoi. Sembra andare tutto per il verso giusto fino a quando il fratello non lascia entrare in casa “il libanese” e “il bolognese”, due “loschi figuri” (come si suol dire) che iniziano ad insidiare la ragazza fino a quando questa non decide di giacere con entrambi (a turno) con una sola condizione: tenere sempre la luce della cameretta spenta.
Bianca adulta narra e nel raccontare i fatti a posteriori ci rende partecipi dei suoi andirivieni costanti tra “normalità” (o lotta per la conquista della) e “follia” (o lotta per non soccombere alla).
La cosa si complica ulteriormente quando “il libanese” e “il bolognese” decidono di coinvolgere Bianca in un piano infallibile: farla entrare nella casa di Maciste per rubargli i soldi che questi deve certamente nascondere dentro qualche cassaforte.
Bianca accetta e qui la trama subisce una svolta decisiva: Maciste è cieco, e malgrado i muscoli, ormai è invecchiato. Fa palestra, ma ormai nessuno si ricorda più dei suoi film (e lui non può più rivedersi).
Ecco: è qui che Bolaño scava nella mente di Bianca e ci fa vedere da vicino che cosa passa per la testa ad una giovane che scende a patti, che accetta un rapporto basato solo sul sesso con la sua potenziale vittima e che poi diventa anche lei vittima degli eventi...
La narrazione – come spesso accade nei romanzi del Nostro – diventa descrizione quasi surrealista dell’assurdo. Roma diventa centro della follia che può scoppiare in ogni momento (si vede che Bolaño è rimasto affascinato dalla sensazione di bellezza e, al contempo, di alienazione totale che può trasmettere la capitale; gli bastano due pennellate per trasmetterci entrambe le sensazioni; uno legge e gli par di vederla Piazza Trilussa, il Trastevere, certi quartieri popolari, e la Stazione Termini).

La cosa più curiosa è che il mistero di cui sopra resta tale anche a lettura finita, anche nella parte conclusiva. Perché ci sono aspetti della nostra vita e della realtà che ci circonda che – semplicemente – non si posso decifrare, né razionalizzare, né, tantomeno, capire.

Chi conosce Bolaño lo sa. E apprezzerà Una novelita lumpen. E saprà anche inserirla in quel gigantesco mosaico formato dagli altri pezzi, dalle altre opere di questo scrittore geniale.

In Italia la traduzione è apparsa presso Adelphi e l’ha realizzata Ilide Carmignani.

Leggete Bolaño. Leggete Una novelita lumpen (o uno qualsiasi dei suoi titoli più famosi) e poi, se avete il coraggio, tuffatevi dentro l’opera-mondo 2666 che è un po’ la summa di tutta l’arte del Nostro...

martes, febrero 17, 2015


FILM GRIGI




Ecco l’impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima; Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci; La Bestia (1975) di  Walerian Borowczy; e per spostarci su tempi più recenti: Lussuria: seduzione e tradimento (2007) di Ang Lee, oppure, Nymphomaniac (I e II) (2013), di Lars von Trier; quanti film migliori delle 50 sfumature di Grigio…per godere del buon cinema, e riflettere, e divertirsi…ma quanti ce ne sono in circolazione (lungo la storia del cinema) che supereranno di netto e in qualità quest’americana(ta) operazione commerciale montata a partire da una trilogia romanzesca che ha coinvolto centinaia e migliaia di lettori in tutto il mondo (e mi domando anche: ma quanti libri migliori si sono lasciati scappare, questi migliaia di lettori! E non è snobismo, non è che fomento o difendo la distinzione netta tra letteratura “alta” e letteratura “bassa”, è che – semplicemente – certe opere non vanno al di là dell’intrattenimento del lettore, non ce la fanno ad andare oltre, e – per carità – non è che l’intrattenimento sia qualcosa di brutto, no, ma è che con solo ed esclusivamente questo ingrediente non ci puoi costruire un’opera letteraria che resista alle mode del momento, e così pure un’opera filmica, per dire: Charlie Chaplin, o Stanlio e Ollio, o Buster Keaton, facevano ridere (e tanto) ma poi non è che le loro opere cinematografiche sono finite nell’oblio, o sono state sorpassate dalle mode del momento, oggi le ricordiamo proprio perché – oltre a intrattenerci e farci ridere – raccontano anche “altro”, andando sempre un po’ “oltre” il puro e schietto show...”oltre” il puro e schietto raccontare una trama (e chi è andato a vedere il film “grigio” mi dice che in quanto a trama latita anch’essa, per non parlare dell’interpretazione degli attori, dei dialoghi, della rappresentazione psicologica dei personaggi – che il sadomaso è qualcosa di serio, lo chiedano al Marchese de Sade o a Sacher-Masoch, glielo chieda pure, la regista del film “grigio”...).

jueves, febrero 05, 2015

Fisica della malinconia, di Georgi Gospodinov: un romanzo tra passato e futuro (uno dei romanzi più tristi del mondo)




Dopo una bella raccolta di Epigrafi (tutte tratte da alcuni degli scrittori che più ammiro al mondo, come, ad es., T. S. Eliot  - che "mixa memoria e desiderio", come ogni buon poeta che si rispetti – o Fernando Pessoa – un grande esperto della malinconia evocata nel titolo – o il sempre enigmatico e metaletterario Jorge Luis Borges), Fisica della malinconia ci introduce all'interno del suo "mondo narrativo" attraverso un Prologo che fa paura: diversi "io" narranti ci raccontano come e quando sono nati; il lettore legge e va avanti ma si confonde perché questi "io" sembrano diversi e, allo stesso tempo, sembrano gli stessi, pezzi o riflessi della stessa persona che non sa (non ricorda) se è nato maschio o femmina, se nel 1913 (prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale) o nel 1968 (che, guarda caso, è anche la data di nascita dell'autore del romanzo, Georgi Gospodinov, a me prima di ieri del tutto ignoto...). E a un certo punto saltano anche le concordanze tra i soggetti e i verbi: "noi sono", "io eravamo", la grammatica diventa ballerina perché chi narra l'inenarrabile (in tal caso, il momento in cui, dall'utero materno, vieniamo catapultati nel mondo) non è letteralmente più in grado di stabilire una distanza di sicurezza tra ciò che si pretende raccontare e ciò che è effettivamente accaduto (in questo passato così sfocato e così mobile).

"Io siamo", è così che si chiude questo "Prologo" vertiginoso. E bisogna arrivare a p. 70 per capirci qualcosa: perché è in questa pagina che l'"io" dell'autore esce allo scoperto (o almeno, sembra farlo) e ci avvisa: "Il passato si distingue dal presente per un dato sostanziale – non scorre mai in una sola direzione. Da dove sono partito? Meno male che scrivo, altrimenti non sarei mai riuscito a trovare il bandolo della matassa...".

Ecco: la scrittura come ancora di salvezza; come bussola attraverso cui orientarsi nel mondo (nella narrazione dell'"io" e del "noi", nella descrizione delle molteplici storie che – letteralmente – "ci" fanno quegli "io" e quei "noi" che siamo, costantemente, nel continuo raccontarci agli altri e nel continuo raccontare a noi stessi la nostra storia personale).

Eppure: se torniamo indietro (questo è un romanzo che spinge il lettore a tornare spesso sui propri passi, a tornare indietro, più che avanti), ci accorgiamo che un avviso ce l'hanno già dato. A p. 54, in un capitoletto breve che s'intitola significativamente "Stazione di sosta", il narratore (l'autore? Godunov in persona e in carne ed ossa?) ci dice: "Non sono in grado di proporre un racconto lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare. Ci siamo tutti? Allora andiamo avanti".

E questa, lo si capisce immediatamente, oltre che una confessione pseudo-autobiografica è anche una dichiarazione (di) "poetica": è come se Godunov ci dicesse che il suo obiettivo non è "progredire" ma "divagare", che ciò che importa in questa storia di "io" che nascono (non si sa quando, né come, né perchè) è quanto sosteneva anche il reverendo Sir Laurence Sterne: "You progress as you digress", che possiamo tradurre con: "Si avanti – a narrare una storia – anche a furia di digressioni, perché voler arrivare subito al punto, perché voler finirla qui, perché non lasciarsi guidare dagli spunti più disparati...".

A proposito: interessante è il comparare la narrazione di una storia all'uscita da un labirinto. Perché proprio il labirinto? Perché, in questo che è, a mio avviso, uno dei romanzi più tristi del mondo (e della storia della letteratura universale), la storia del Minotauro, confinato nel labirinto in cui Teseo dovrà trovare e liberare Arianna, occupa uno spazio centrale, direi quasi "determinante".

Perché chi narra (questi "io multipli") è ossessionato dal Minotauro: la copertina dell'ed. italiana è piuttosto esplicita, in tal senso: riproduce un dettaglio di una coppa dell'antica Grecia in cui si vede Pasifae con in braccio il figlio mostruoso, quella sorta di aborto avuto dopo l'accoppiamento fatale con un toro... Da qui sorge il mito del Minotauro: un essere a metà tra l'uomo e l'animale; nell'immagine, un bambino con il corpo umano e la faccia da toro (con tanto di corna).

A partire dall'analisi ossessiva narrativa filosofica psicologica della "condizione ontologica" di un simile monstrum, il narratore "multiplo" va interrogando se stesso, il mito, la storia passata (remota e recente) per capire tutta la solitudine che deve aver provato Minotauro all'interno del labirinto e in procinto di scontrarsi con chi lo ucciderà, quel Teseo che, grazie al filo d'Arianna, riuscirà davvero a "fuori-uscire" dalla trappola costituita dal labirinto...

E in questo tentativo disperato di empatizzare col Minotauro, il lettore viene condotto per mano lungo una serie davvero notevole di storie che s'intrecciano (come in un labirinto borgesiano) lungo la scia dei ricordi (personali, ma anche collettivi e legati alla Storia dell'Europa del XX sec.) che fanno e determinano il nostro presente.

Ed è per me estremamente curioso constatare che io abbia letto (e goduto) uno dei libri più tristi del mondo a Cuba, durante un viaggio di piacere, in uno dei momenti più allegri, spensierati e felici della mia vita. Un paradosso. Un colmo. Una specie di follia. Eppure... quant'ho goduto leggendo questo romanzo anomalo, assurdo, malinconico fino quasi a condurti alle lacrime, straziante, in certe scene, e ironico, comico, tragicomico, anche, in altre.

Un romanzo anti-romanzesco pieno di foto, di documenti visivi, di ritagli di giornali, di pubblicità che ci fa stare male, che ci fa sorridere, che ci fa capire come, da "io siamo" iniziali possiamo diventare tutti "io fummo"...

Un libro tristissimo in cui chi scrive capisce che, in effetti, la scrittura è anche tentativo di uscire dal labirinto, oltre che sconfitta. O forse: che la scrittura è una partita persa che vale la pena di giocare e affrontare con coraggio... Anzi, come dice il narratore stesso a p. 136: "La scrittura è anche, in ultima analisi, conservazione delle sconfitte". E quante sconfitte grandiose, in Fisica della malinconia, quanti sogni infranti, quante illusioni ancora pulsanti e vive e vegete ed entusiasmanti...

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...