jueves, mayo 28, 2015

THE SWIMMER, by JOHN CHEEVER: il racconto come “mini-Odissea”


Ho appena finito di ascoltare dalla viva voce di John Cheever uno dei suoi racconti più famosi e più belli e più riusciti, un vero capolavoro dell’arte del racconto di tutti i tempi. Mi riferisco, ovviamente, a “The Swimmer”, pubblicato per la prima volta nel 1964.

Neddy Merrill, un uomo qualunque, un americano medio, ha bevuto troppo. Non ci viene detto come né perchè: si parla di una festa, in cui tutti hanno alzato il gomito. E a lui viene in mente questa idea bislacca e alquanto surreale: attraversare l’intero quartiere nuotando nelle piscine dei vicini, per poi tornare a casa a piedi. Si sente forte. Si sente bene. Ha voglia di sentirsi come un viaggiatore dei tempi andati, un pellegrino che per devozione cammina a piedi fino al santuario del suo Idolo, un errante. Come Ulisse.

Ecco: “The Swimmer” è un racconto che, nelle sue 12 pagine, riesce a riscrivere l’Odissea di Omero, solo che Cheever cambia il set dell’azione, Ulisse ora non viaggia più verso Itaca, si chiama Neddy (o Ned), e intraprende il viaggio da casa sua a casa sua passando per le case (le piscine) degli altri, comuni mortali, statunitensi borghesi e medi, come lui...

E nel corso del viaggio, anche Ned, come Ulisse, dovrà sforzarsi di essere diplomatico, non potrà stabilire una conversazione troppo pedante con nessuno dei vicini, perché non avrà troppo tempo per compiere la sua missione impossibile.

E come Ulisse, anche Ned si ritroverà a bere whiskey con il vicino che odia, perché pettegolo o troppo ottuso, a parlare con l’amante di turno, che si sorprende e non capisce perché stia invadendo la privacy della sua piscina, con una vecchia che gli ricorderà che la sua vita è piena di guai e ispira compassione... E qui Ned capirà che, forse, la sua memoria non funziona più come una volta: sembra che abbia dimenticato fatti importanti, centrali, che la vecchia gli rammenta e che lui sembra impegnarsi a non ricordare. La moglie vuole lasciarlo; le figlie sono in pericolo; la casa va venduta. Come fa Ned a non ricordare questi drammi personali? Davvero la sua memoria è diventata così selettiva da permettergli di gettare nell’oblio problemi di questo tipo?

Ned è un uomo qualunque, dicevamo, uno proprio come noi. E di fatti, si stanca, soffre il freddo, si sente ridicolo quando – per un breve tratto – si trova costretto ad attraversare la strada a piedi nudi e qualcuno, in macchina, lo prende in giro o gli getta una lattina dal finestrino, prendendolo per quello che sembra: un pazzo, un maniaco sessuale o un pagliaccio semi-nudo e ubriaco.

Il viaggio, però, non si ferma davanti agli ostacoli. Ned continua, persiste, insiste, fino ad arrivare all’ultima piscina del suo personale circuito spazio-temporale. E continua a non ricordare. E continua a sperare. E continua a pensare che è un eroe, che è riuscito nell’impresa, che la sua Odissea personale sta per finire.

Non svelerò il finale. Perché sì, Ned riuscirà a tornare a casa. Nudo, infreddolito, coi muscoli indolenziti, ma torna. Il punto (nodale) è cosa troverà, una volta giunto in porto. Quello di “The Swimmer” è un finale che fa piangere e che fa riflettere; che lascia tramortiti, e che fa pensare. Un capolavoro. Una mini-Odissea contemporanea in cui tutti possiamo riconoscerci. Un capolavoro dell’arte del racconto. Un esempio dell’arte della scrittura minimalista ma profondissima di John Cheever.

Qui una versione in pdf del racconto:


E qui John Cheever, mentre legge in diretta il suo racconto (la voce è tremenda, ci dice tutto dei problemi di alcolismo e di tabagismo che ebbe lo scrittore nel corso della sua vita):

lunes, mayo 25, 2015

Tradurre Shakespeare (possible mission)



Dunque, cominciamo col dire che non sono un traduttore di professione; non mi pagano per tradurre libri, anche se, in un passato piuttosto recente, l’ho fatto (due romanzi picareschi della prima metà del XVII sec. che nessuno legge né leggerà mai – si tratta di opere minori di autori minori della letteratura spagnola). E proprio per tale motivo, ovvero, proprio perché ho trascorso quasi 2 anni interi della mia vita a tradurre, so quanto sia difficile portare a termine una missione del genere, soprattutto quando l’opera da versare nella propria lingua sia lontana (o lontanissima) da noi nel tempo: più ci si allontana dal presente e più si fa fatica a capire – faccio un paio d’esempi – il significato dei modi di dire (che magari oggi non si usano più) o dei giochi di parole (il vero grosso scoglio per ogni traduttore di opere letterarie). Già è difficile capirli, i giochi di parole svolti in un’altra lingua, figuriamoci poi tradurli! O renderli comprensibili in una lingua (quella d’arrivo) diversa dalla lingua del testo originale (o quella di partenza). Insomma, per farvela breve: un gran casino, un problema enorme, su cui si ci può sbattere la testa per giorni e giorni e mesi e mesi, senza venire a capo di nulla (e allora ci si salva – in calcio d’angolo – con la famosa nota a piè di pagina, quello spazio tipografico in cui il traduttore trova rifugio quando alza bandiera bianca e sì, lo ammette, non ha trovato un’espressione giusta o adeguata alla lingua d’arrivo… la nota in quanto dichiarazione di fallimento: “Non ho capito e vi confesso che non capisco; questa frase dovrei lasciarvela in originale; si fa quel che si può; si salvi chi può; il gioco di parole è intraducibile”… Intraducibile! Che parola! Fa davvero venire i brividi – se pensiamo che viviamo costantemente nell’illusione che si possa tradurre tutto e da tutte le lingue del mondo).

Or dunque: fatta questa premessa, chi mi conosce sa che ho tradotto in passato e sa che pur studiando e dedicandomi a tempo pieno alla lingua e alla letteratura di Cervantes, amo leggere e studiare autori e opere di ogni angolo del mondo, con particolare predilezione per l’Inghilterra…

Sta di fatto che, molto probabilmente, se non mi fossi dedicato alla Spagna, avrei continuato a studiare letteratura inglese e mi sarei messo a scrivere la tesi di laurea sull’Ulysses di James Joyce (un romanzo che mi avrebbe portato al suicidio, non ci sono dubbi, ma amo le sfide e adoro i romanzi che ti sfidano, che mettono a dura prova la tua capacità di comprensione, oltre che la tua pazienza). E così, ieri, per una questione di traduzione mal riuscita, per una cattiva interpretazione del testo, e dopo aver fissato un appuntamento con un mese d’anticipo, mi sono recato all’Università per parlare di una questione relativa ad un avverbio della lingua inglese con il maggiore esperto di William Shakespeare che ci sia in Spagna, un luminare della scienza, uno che, in poco meno di 10 anni, ha tradotto 30 opere del Bardo (il che vuol dire quasi TUTTO Shakespeare).

Il Professore accetta di vedermi, dopo che io gli ho mandato per email una specie d’articolo in cui discetto di una traduzione di un altro autore (contemporaneo) spagnolo di un verso di Hamlet. Evidentemente il Professore non solo si prende la briga di leggermi, non solo accetta di vedermi faccia a faccia, ma si preoccupa perfino di correggermi, cioè, di aiutarmi a capire dove potrei correggere il mio pezzo ed esprimermi in termini più corretti dal punto di vista filologico…

Sono emozionato e tutto orecchi, quando mi siedo davanti a quest’uomo sulla settantina (ben portati) e leggermente calvo, con giacca e cravatta anche se fuori fanno 32 gradi, con stile elegante che ricorda subito da vicino lo stile dei docenti delle Università inglesi (uno si sente quasi catapultato a Oxford o a Cambridge – forse anche per la presenza ingombrante di un milione di dizionari inglesi e di un miliardo di testi che a quelle Università possono essere associati: c’è Milton, con il suo Paradise Lost, e c’è Marlowe, il nemico o rivale di Shakespeare; c’è Henry James, coi suoi racconti del terrore e c’è Dickens, coi suoi romanzi avventurosi; c’è il T.S. Eliot dei Four Quartets e c’è il Robert L. Stevenson del Dr. Jeckill & Mr. Hide; c’è il Bram Stoker di Dracula e c’è il Greoffrey Chaucer dei bellissimi Canterbury Tales; e c’è anche il reverendo Sir Laurence Sterne, col suo digressivo e immenso The Life & Opinions of Sir Tristram Shandy

E insomma, io mi sento immediatamente come se fossi in un’altra città e in un ambiente opposto a quello reale in cui fisicamente io e il Professore ci muoviamo e parliamo. E il Professore si cala totalmente nel suo ruolo e comincia a mettermi i puntini sulle “i”, facendomi notare che l’avverbio “behind”, nell’inglese di Shakespeare, ovvero, nell’inglese isabellino, non significava affatto “dietro” o “indietro” o “all’indietro”, bensì “davanti” o “dopo”, ovvero: non indica spazialmente l’essere indietro o lo stare dietro una persona o un’oggetto, bensì l’essere avanti, o davanti, lo stare dopo temporalmente di un evento o di un fatto…  E io ci resto di sasso: ammutolisco, forse impallidisco, improvvisamente, i 32 gradi di fuori si trasformano nel mio cervello (e sulla mia pelle) nei -7 gradi che percepii in Polonia, nella città di Lublin, il Novembre scorso…

E il Professore continua (spargendo sulla cattedra un’infinità di opere del grande classico inglese, oltre a mille appunti presi a mano e molte fotocopie che – a fine colloquio – avrà la bontà e l’enorme e inaspettata generosità di regalarmi – insieme alle sue traduzioni dell’Hamlet e del Macbeth, manco fosse Natale, che giornata splendida è stata la giornata di ieri!).

“Ecco, guardi qui” – mi fa il Professore, dandomi sempre del “lei”, senza mai passare a una confidenza che, in effetti, non c’è stata prima né può esserci ora, anche se siamo seduti l’uno di fronte all’altro, anche se si percepisce che ci stiamo entrambi simpatici, e si capisce che abbiamo le stesse passioni e le stesse manie e lo stesso immenso stupore e la stessa immensa stima di fronte al Bardo – “ecco, sì, guardi qui, dall’atto I, scena III, v. 117: è Macbeth a parlare, dopo la profezia delle tre streghe: loro gli preannunciano che prenderà il posto di Glamis e poi strapperà il titolo di Barone a Cawdor e, infine, diventerà Re… Ecco, legga qui: “The greatest, behind”, che io traduco con: “Il più grande, dopo”, ovvero: la cosa più importante, il ruolo più prestigioso, “dopo”, “behind” nel senso temporale di “più in là”, o “più avanti nel tempo”, o “in un futuro imminente”. Ecco: cosa gliene pare?”.

Ripenso al mio pezzo: e a tutte le volte che, mentre leggevo Shakespeare, traducevo letteralmente “behind” con “dietro”; e ora provo quasi vergogna a capire che non sempre è così, che non sempre, nell’inglese che parlavano i contemporanei della Regina Isabella, “behind” voleva dire “indietro”, e mi sento subito di abbracciare il Professore, di dirgli “grazie”, di dirgli: “Lei mi ha aperto gli occhi, Professore”, e di confessargli, infine: “Come avrei fatto a capire senza di lei, Prof.!”.

Non dico né faccio nulla di tutto questo, ovviamente: ma quando poi il Professore mi allunga le due copie delle sue versioni di Hamlet e di Macbeth e mi fa capire che sono per me, che posso portarmele a casa, che sono un suo regalo per me, non riesco a trattenere l’espressione di giubilo: “Che forte!”, come un bambino davanti al nuovo giocattolo…

Che idiota, invece! E come ho fatto a non vederlo prima, come ho fatto a non capire! Perché non sono andato a leggermi l’Oxford English Dictionary, quello storico, che mi spiega come stavano le cose quando Shakespeare scriveva roba, che non finiremo mai di capire, e di leggere, e di tradurre… Come ho fatto a non capirlo prima, e quanto è complicato tradurre, e com’è sorprendente il momento in cui capisci e pensi che sì, che tradurre si può, che tradurre correttamente un’opera – per lontana che essa sia rispetto al nostro presente – si può fare, missione possibile, anche quando appare impossibile… E grazie ancora, Professore. Per il tempo speso insieme, per i due libri e per le due belle dediche…


lunes, mayo 18, 2015

MEMORIE INVOLONTARIE (alla maniera proustiana)



Che cosa diavolo ci facevo io alle ore 15:51 a Pisa, in Via Matteotti 4, presso la mensa universitaria del Polo Piagge, il giorno 29 di Novembre del 2013? La domanda me la faccio mentre contemplo preoccupato e anche alquanto straniato uno scontrino fiscale che – non si sa bene per quale oscura ragione – ho conservato come fosse un segnalibro all’interno di un romanzo di Milan Kundera che s’intitola (bellissimo titolo, non c’è che dire) La vita è altrove...

E più contemplo e mi giro e mi rigiro tra le mani lo scontrino e più mi trovo d’accordo con l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere, perché, cari amici lettori di questo blog (ma chi siete? Possibile siate molti di più di quelle tre o quattro lettrici di lungo corso che mi sopportano sin dai tempi che videro la nascita del presente “diario” virtuale “di bordo” di uno che vive “ai bordi”?), è proprio così, accidenti: la “vita” è (sempre) “altrove”, o, come diceva non mi ricordo più chi (forse Oscar Wilde) la “vita” è “ciò che ti passa davanti mentre sei concentrato a fare altro” (o non sarà forse una mia citazione originale? No, non credo di essere così tanto originale, non sono mica un Oscar Wilde, io! Sono solo uno che legge molto e, quindi, deduco che questa cavolata la devo aver letta da qualche parte).

Ma torniamo a Bomba: che cazzo ci facevo io a Pisa quel giorno della fine di Novembre del 2013?

Provo a fare mente locale; provo a chiedere aiuto alla mia memoria. Dal 2004 al 2007 io ci ho vissuto a Pisa e ci passavo quasi tutti i giorni, davanti a Piazza dei Cavalieri, vuoi perché dovevo raggiungere la Facoltà di Lingue vuoi perché mi immergevo – una volta varcata la soglia – negli anfratti sotterranei della mitica Biblioteca della Scuola Normale Superiore... E giorno sì, giorno no, io ci passavo spesso, davanti alla mensa universitaria del cosiddetto Polo Piagge (anzi, quando avevo ancora il tesserino in quanto schedato come “studente dottorando”, io ci mangiavo in quella mensa, per 2,50 euro avevi diritto a un primo, un secondo e un contorno con dolce, se non vado troppo errato e non idealizzo troppo quei mitici tempi in cui s’era davvero “giovani di belle speranze” – o di Great Expectations, come direbbe Charles Dickens...).

E poi, cosa è successo “poi”? Poi, intendo, dopo il 2007? Dunque, vediamo: dal 2007 al 2011 incluso, mi sono trasferito a Firenze (un tiro di schioppo da Pisa, un’oretta di treno, o di macchina, tanto per intenderci con quelli che non conoscono la bellissima Regione Toscana)... E fin qui tutto bene: da Firenze, ero solito spostarmi a Pisa per congressi, per conferenze o – più semplicemente – per rivedere e riabbracciare prof. e colleghi e amici con cui ho mantenuti i contatti anche una volta che sono diventato “fiorentino”, per così dire... E poi? Poi dal 2012 ho vissuto a Salerno e dal 2013, prima di fare il salto dall’altra sponda (la Spagna, da dove attualmente scrivo queste fregnacce), di nuovo a Roma, da cui mi ero allontanato nel 2003 (alla fine del) proprio per trasferirmi a Pisa e fare il dottorato... 

Memoria? Mnemosine? Ricordi? Dove siete? Perché non mi schiarite le idee come Cristo comanda? Dove vi siete cacciate?

Insomma: se nel 2013 sono stato a Pisa deve essere stato per forza di cose per questione di poco, un viaggetto da Roma, magari in treno, magari con quel Regionale (tremebondo) che ci mette esattamente 4 ore e 30 minuti e che quando scendi alla Stazione Centrale di Pisa (provenendo dalla Stazione Termini della capitale) ti senti più vecchio di almeno 10 anni (e noti degli strani capelli bianchi che prima non avevi mai visto sulla tua nuca). Un qualche congresso? Una conferenza? Forse la presentazione di quel romanzo che traducesti e che venne presentato davanti a un pubblico piuttosto interessato presso l’Aula Magna di Giurisprudenza (perché quell’Aula Magna? E perché a Giurisprudenza?)? I segni interrogativi si moltiplicano. E ora capisco che è inutile invocare Memoria, o Mnemosine, o chi per loro... Se certi ricordi sono svaniti è perché così lo ha ritenuto opportuno il nostro cervello. 

O forse no, sono solo assopiti, dormono nella nostra coscienza e sono pronti a tornare in vita non appena quella che Proust chiamava la “memoria involontaria” riterrà opportuno farli resuscitare sul piano del presente (quanta importanza assumono, allora, l’immaginazione e il caso affinché questa “memoria” involontariamente ci permetta il lusso di riscattare e far risorgere certi ricordi del passato remoto...).

E ripenso a Kundera e mi ridico che sì, è proprio così, la “vita” è (sempre) “altrove”... E noi vaghiamo in questo altrove, a volte senza meta... consci che prima o poi s’arriverà in porto (e ci si capirà – forse – qualcosa di più).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...