jueves, septiembre 29, 2016


Vite parallele (quando uno si ritrova a vivere all’estero)




Dunque, la questione è la seguente: ho come la sensazione che il fatto stesso di non vivere più in Italia, ovvero, di non essere più fisicamente presente nei luoghi in cui – prima del mio “trasloco” in Spagna – ero solito vivere, abbia innescato un meccanismo bislacco, perverso e anche un po’ grottesco, in base al quale – senza io volerlo né tantomeno desiderarlo o auspicarlo – gli altri (che mi conoscono o che mi conoscevano o avevano una qualche nozione della mia identità) hanno cominciato a “inventarsi” altre, malleabili, modificate versioni di me e della mia vita (come se la mia vita importasse davvero a qualcuno, diciamoci la verità: non dovrebbe importare proprio a nessuno!).

E così l’altro giorno, parlando per telefono con una collega di Pisa, vengo a sapere che qualcuno ha sparso in giro la notizia che ho avuto da poco un figlio e che, ormai, sono così impegnato nei miei doveri di padre da trascurare i miei impegni accademici… Poveretto… un bimbo appena nato… certo non avrà più tempo per fare ricerca… certo la moglie lo aiuterà, ma vuoi mettere? Ora ha altro per la testa…

Io. Un figlio. Neonato.

Storie dell’altro mondo.

Ho provato a chiedere alla mia collega chi fosse l’autore di una simile frolloccata. Ma per il bene dell’altro collega, la mia amica ha sorvolato, commentando semplicemente (come a voler smorzare i toni) che la gente è matta, che ci sono persone che non hanno altro a cui pensare e che, per questo, si mettono a spettegolare degli altri, che non devo dargli troppa importanza, che prima o poi mi dimenticherò di questa stupida diceria…

E allora apro l’email, con la ferma intenzione di dimenticarmi di questa fandonia messa in giro (sotto forma di gossip di bassa  lega) da qualche malintenzionato o cerebroleso o ficcanaso contafrottole e mi accorgo di aver ricevuto un messaggio da parte di un’altra collega, di Roma “La Sapienza”, che mi chiede com’è andato il concorso a Palermo, perché è venuta a sapere da un’altra (di Milano) che hanno orchestrato un concorso per me, ad personam, per farmi rientrare in Italia, tramite la legge promossa dal Governo Renzi per evitare ulteriori fughe dei cervelli all’estero…

Ovviamente, ci resto di sasso. Palermo. Concorso disegnato su misura. Governo Renzi. Rientro dei cervelli in fuga.

Le rispondo che non ne sapevo nulla e che non sapevo nemmeno esistesse una legge del genere (ma siamo proprio sicuri che l’abbia promossa Renzi?); che non ho partecipato ad alcun concorso pubblico per entrare all’Università di Palermo e che magari mi richiamassero in Italia per offrirmi un posto degno, ci penserei! (Anche se non lo so mica se accetterei: le annose questioni italiche che attanagliano gli italiani e chi vive in Italia ormai mi fanno venire i brividi).

Infine, tramite Facebook, vengo a sapere da un amico di Livorno che si dice in giro che io sia diventato Professore Associato in Spagna presso l’Università “Complutense” di Madrid e che guadagni un sacco di soldi e che disprezzo l’Italia e il mondo accademico italiano perché non hanno saputo valorizzarmi…

Anche stavolta chiedo, gentilmente, chi sia l’autore di una simile menzogna. L’amico mi fa il nome di uno che conobbi una volta (tantissimi anni fa) in un congresso svoltosi a Lecce. Uno di quei tipi viscidi che ti chiedono il numero di cellulare con un sorriso falso, che ti fanno domande inopportune sul tuo curriculum vitae, che ti propongono di collaborare con loro e che poi, all’improvviso, spariscono dall’orizzonte per farsi sentire solo via email con lo scopo di invitarti ad andare a visitarli presso la loro Università, come se si trattasse d’un evento mondano imperdibile (e se rifiuti o non rispondi entusiasta sei un “uomo morto”, uno che non merita tanta generosità)…

E insomma: proprio perché non vivo più nella mia nazione, in Italia, c’è chi si sente libero d’inventarsi “altri da me”, degli “io” diversissimi dal mio “io” attuale, delle versioni assurde e grottesche, presentandomi al prossimo come un neo-padre, dimentico dei suoi impegni accademici, o, al contrario, un raccomandato che ha vinto un concorso a Palermo o, infine, un affermato Prof. Associato in una delle più importanti e famose Università della capitale spagnola…

E la domanda a questo punto è: come possiamo pretendere di fermare simili voci da corridoio? Chi ci darà mai la forza per frenare simili gossip? Come poter rettificare le cazzate che spara la gente senza il nostro consenso e alle nostre spalle? La risposta è semplice: non c’è modo. Non ci sono proprio santi. Non si può. Il mondo gira (va avanti) anche grazie alle dicerie, ai pettegolezzi, allo sparlare della gente; il mondo è una palla che rotola in continuazione perché viene smossa in continuazione da gente che – per i più svariati motivi: invidia, gelosia, rabbia, rancore, noia, vuotezza interiore – si dedica a parlar male del prossimo, o a inventare versioni dei fatti che non hanno alcun riscontro con la realtà.

Ergo: mi devo abituare all’idea che nel mio paese d’origine, in Italia, ci sono persone che sono convintissime che io sia un neo-padre, che sia un raccomandato che lavora a Palermo o che faccia la bella vita grazie al mio incarico presso la “Complutense” di Madrid.


La versione “vera”, quella più vicino al reale, la sappiamo solo io, mia moglie e i pochi, cari amici di fiducia. Gli altri, che sparlino pure, e inventino, e ridano, e provino invidia, o noia, o vuotezza interiore, o rabbia, o rancore, o tutte queste cose insieme… Come disse il Poeta: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”.

martes, septiembre 20, 2016

Nessuna passione spenta (o “dei fantasmi del passato”)




A F. (che mi cantava sotto la doccia)


Era da un po’ che ci sentivamo via Whatsapp (quanti segreti custodisce questa famosa applicazione? Quanta parte della nostra vita celiamo all’interno di questo spazio virtuale? Quante foto scottanti? Quante frasi che ci vergogneremmo anche a pronunciare ad alta voce? Quanti messaggi (vocali) sussurrati nel cuore della notte o, al contrario, gridati nel corso di una festa a base di alcol e droga? Quante coppie scoppierebbero per colpa di questo strumento trapiantato ormai in tutti i nostri cellulari?). Diciamo pure che era da quest’estate che, ogni tanto, ci si scambiava qualche saluto, qualche immagine dai posti di villeggiatura (ma dai? Sei davvero in Sardegna? Oppure: ma che ci fai a Marsiglia? O ancora: che bella Genova, ma quando scendi a Roma, disgraziato che non sei altro?). E ultimamente la mia nostalgia di lei mi aveva spinto a scriverle stronzate a ore intempestive (forse inopportune) con l’intenzione (innocente?) di rimembrare il passato (ma ti ricordi di quella volta che ci ubriacammo come pazzi col vino bianco buono e facemmo l’amore come animali e sudammo come porci e poi tu ti mettesti a cantare sotto la doccia? Che cantavi? Cos’era? La Callas o cosa? Sì, certo, la Callas, come no? Io sotto la doccia non la canto mai la Callas, ma sei scemo?! Sarà stata un’arietta da niente, un motivetto per passare il tempo, non canto cose difficili sotto la doccia, sono una professionista io, per chi mi hai presa?). E così, questa mattina, una collega che insegna Storia della Musica (una materia per me affascinante e alquanto misteriosa) mi dice che suona l’oboe, anzi, che si è diplomata al Conservatorio in oboe…

L’oboe: non so nemmeno che forma abbia uno strumento del genere, so che è uno di quelli a fiato, come il flauto traverso, ma non ho mai visto un oboe in diretta in vita mia (e se è per questo forse non ho mai visto nemmeno un flauto traverso, dal vivo). E così la collega si mette a ridere e mi chiede se conosco il film The Mission (di Roland Joffé, se non erro, con Robert De Niro, visto tanti anni fa, un ricordo vago, devo assolutamente tornare a vederlo). Le rispondo di sì, ma che, per l’appunto, la visione risale a molti anni addietro; lei mi consiglia di ascoltare la colonna sonora e, in particolare, “Gabriel’s Song”, uno dei motivi musicali più toccanti dell’intero film. E così, io le do retta, cerco subito su YouTube “Gabriel’s Song” (mentre mi domando chi mai sarà Gabriel, se il protagonista del film o uno che svolge solo un ruolo secondario, o l’Arcangelo Gabriele, considerando il fatto che The Mission, da quel che io ricordo, parla di missionari, di colonizzazione del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli, o di una roba del genere, tipo Aguirre, furore di Dio, di Werner Herzog).

E mentre cerco, mi appare una lista, ma con la scritta “Gabriel’s Oboe”, sicché penso: la collega di Storia della Musica deve essersi sbagliata, qui il titolo della canzone mette l’accento proprio sul fatto che questo benedetto (forse in tutti i sensi) Gabriel (o Gabriele) suona proprio il suo strumento preferito, quello in cui lei si è diplomata, e così avvio il video, col tasto del “play”, ma non su uno qualsiasi dei link, no, do al tasto “play” sul video in cui appare il nome di Ennio Morricone e – seconda sorpresa, dopo quella relativa al vero titolo del pezzo – scopro che è proprio lui, sì, accidenti, è lui, il Maestro, l’autore della colonna sonora di The Mission, ma che bello! Sono già in fibrillazione, già pronto a saltare dalla sedia per andare a dire alla collega di Storia della Musica che certo che è un capolavoro quel film! Certo, non può essere altrimenti! La colonna sonora è frutto della bravura del genio, del nostro orgoglio nazionale, del “mago” della musica per il cinema, Ennio Morricone!

Poi mi metto all’ascolto attento: chi non ha mai visto il film o non ha mai ascoltato “Gabriel’s Oboe”, non può avere l’idea dell’emozione che scatena questo motivo musicale… Ci si sente immediatamente trasportati in un’altra dimensione, in un mondo “diverso”, dove si percepisce quasi il soffio del vento al tramonto in un paesaggio mozzafiato, dove si contempla la Natura come fosse il Paradiso, dove – se uno vuole – si può perfino volare… E insomma, mi lascio inebriare dalle note stupende di questo capolavoro di Morricone, quando, ad un tratto, al minuto 6:12, la telecamera fa un leggero travelling sui coristi, perché, a un certo punto, alla musica creata dagli strumenti (un’orchestra intera, con l’oboe, ovviamente, in primo piano), segue quella creata dalla voce umana, ci sono dei coristi che accompagnano il maestro, e – terza e ultima sorpresa, quella più scioccante di questa giornata – la vedo, riconosco la mia ex, è lei, non ho dubbi, o meglio, tentenno, ma poi, dopo il sudore freddo sulla fronte e il tremore lungo la spina dorsale, mi accerto che è proprio lei, quella che cantava sotto la doccia dopo aver fatto l’amore, l’unica ex bionda che ho (o abbia mai avuto), una ragazza speciale, una mezzo soprano all’altezza dei coristi che cantano per Morricone, non ci credo, voglio alzarmi, urlare di gioia, avvisare subito la mia collega di Storia della Musica, dirle: “Guarda, è lei, è una delle mie ex, è quella che canta nel coro!”, ma non sono sicuro che mi capirebbe, anzi, probabilmente, mi prenderebbe per un pazzo scatenato, uno fuori di testa che non sa quello che dice… E allora fermo l’immagine, la metto in pausa, immobilizzo temporaneamente il volto attento di lei, mentre accenna ad aprire la bocca per emettere la frase seguente, concentrata, bella, biondissima, con un vestito nero elegante, una sorta d’uniforme ufficiale del suo coro, che io conosco perché in un paio d’occasioni la seguii nei suoi concerti, tra Piazza del Popolo e Ariccia, tra Velletri e il Parco della Musica disegnato da Renzo Piano… Sono loro, riconosco anche le altre ragazze, gli altri colleghi, sono proprio loro (e non mi sovviene il nome del coro stesso), sono emozionato, ripremo il “play” e mi lascio di nuovo invadere dall’emozione fortissima legata alle note dell’oboe di Gabriel(e)…

I fantasmi del passato tornano a visitarci nei momenti più impensati; lei non sa che l’ho appena vista in un video del 2002 in cui canta per (e con) Morricone; non può saperlo né sospettarlo; io non so cosa stia facendo a quest’ora del pomeriggio, le 18:39 del 19 di Settembre del 2016 (starà facendo le prove per il prossimo concerto? L’amore con l’uomo della sua vita? Le melanzane alla parmigiana che le venivano così bene?). Il passato torna presente (ritorna dal passato per farsi presente) nei momenti più assurdi e impensabili; il caso gioca con le nostre vite come Dio ai dadi (giammai un colpo di dadi cancellerà l’azione del caso). Ma i cellulari di oggigiorno hanno tutti Whatsapp ed è davvero difficile resistere alla tentazione e così le scrivo (forzo, in un certo senso, la direzione del caso, lo obbligo a far entrare in scena anche lei, la mia ignara ex cantante mezzo soprano): “Scusami se ti disturbo, posso?”. E lei: “Che c’è? Che vuoi mo’?” (ci divertiamo a scriverci in romano, a volte). E io: “Solo una domanda: ma tu nel 2002 hai per caso cantato con e per il Maestro Ennio Morricone? All’Arena di Verona?”. E lei: “Certo, te l’avrò raccontato almeno mille volte, ma tu, come al solito…”. E io: “Non ci posso credere! Ti ho appena visto cantare all’Arena di Verona!”. E lei: “Tu sei tutto scemo”. E io: “Non ci posso credere, sono stato con una corista del coro di Morricone!”. E lei: “Sei proprio scemo, confermo”. E io: “Ma com’è possibile?”. E lei: “Sì, me lo chiedo anch’io. Com’ho fatto a sopportarti tanto?”. E io: “Mi sono emozionato… Eri molto bella anche nel 2002, molto giovane”. E lei: “Sei proprio stronzo”. E io: “Mi sono commosso fino quasi al pianto, fino alle lacrime”. E lei: “E’ quel quasi che non va bene”. E io: “Scusa, hai ragione, sto svariando, è che mi sono emozionato a vederti in azione in quel coro, con Ennio Morricone con la bacchetta che vi dirige all’Arena di Verona”. E lei: “Vedi? Ti sei perso una famosa”. E io: “Sono il solito smemorato…” (a sottolineare, a scusare, quasi, con i punti di sospensione, questo mio enorme vuoto di memoria attorno a quest’evento così importante per lei). E lei: “Faceva un freddo! Me lo ricordo ancora, come se fossi oggi”.

Dopodiché, ci si saluta con uno scambio di emoticon (che stanno lì a sostituire i nostri temporanei, spesso labilissimi, stati d’animo). E per un momento penso a come sarebbe stata la mia vita se, invece che la mia “compagna di avventure”, avessi sposato (o fossi rimasto a convivere con) la mia ex mezzo soprano. Mi domando come sarebbe stata la mia vita oggi (nel 2016), se fossi ancora accanto a lei (una delle donne più belle ed eleganti che conosca – aveva davvero buon gusto nello scegliere i vestiti; anche quando andavamo a fare la spesa, non dimenticava mai la collana o gli orecchini, i braccialetti o qualche altro dettaglio che ne mettesse in evidenza lo stile – la voglia di mostrare al mondo che lei di stile ne ha da vendere, un modo di camminare e di guardare che affascina, una maniera d’altri tempi che, però, non passa mai di moda, davvero difficile, per me, oggi, definire il suo stile).

E mi domando cosa starà facendo ora (mi verrebbe la tentazione di scrivere il suo nome reale, ora, ma non voglio, la rispetto, e non vorrei mai che si sentisse a disagio se un giorno finisse a leggere questo blog – se già non è tra le 3 o 4 lettrici che mi sopportano)… Mi domando cosa starà pensando, dopo la mia “incredibile” scoperta (incredibilmente in ritardo, direi, imperdonabilmente in ritardo, anzi). Fui io a lasciarla (una delle pochissime volte in vita mia in cui il ruolo del “cattivo” è spettato a me); fu lei a soffrire come una matta subito dopo la separazione. Poi passò diverso tempo prima che ci si riappacificasse (il tempo rende umani rapporti che, quando li si sta vivendo, possono portare alla follia più autodistruttiva). E un giorno ci si incontrò a Milano e ci aggiornammo sulle nostre rispettive vite (ma dai, davvero ti sei trasferito in Spagna? E tu davvero hai lasciato i Parioli? Come può una come te allontanarsi dai Parioli? E ora come fai senza Ponte Milvio e quella rosticceria che ti piaceva tanto, quella dove andavamo a mangiare i supplì più boni de Roma?). Milano e la sua nebbia e il freddo ci accompagnarono fino alla Stazione Centrale; poi lei salì sul suo treno per ridiscendere a Termini e io m’avviai verso Linate, per riprendere l’areo per Madrid.

Ho come la sensazione che lei sia ancora qui, con me. E non serve Whatsapp per averne una prova tangibile (o uditiva): ora c’è anche questo maledetto video del 2002; l’oboe di Gabriele, con l’orchestra e il coro diretti dal Maestro Morricone, in diretta dall’Arena di Verona… E lì dentro, in quello spazio-tempo di 14 anni fa…ci sei (sempre e per sempre) pure tu…


viernes, septiembre 16, 2016

39 anni (e vivere ancora nell’incertezza)




«Si mon âme pouvait prendre pied, je ne m’essaierais pas, je me résoudrais. Elle est toujours en apprentissage, et en épreuve», così si esprime Michel de Montaigne (l’inventore del genere letterario che va sotto il nome di “saggio”, una delle teste pensanti più assurdamente geniali che siano esistite sulla Terra) nel cap. 2 del Libro III dei suoi (appunto) Essais…ovvero, secondo la traduzione di Fausta Garavini (nella nuova edizione dell’opera per Bompiani, apparsa nel 2012):
«Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi risolverei; essa è sempre in tirocinio e in prova».

Ebbene, l’8 Settembre (5 giorni fa), ho compiuto 39 anni e, a quest’altezza del mio “cammin”, mi sento esattamente come l’anima di Montaigne: non ho “preso piede”, mi sento ancora del tutto “in tirocinio” o “in prova”, ho ancora molto da apprendere…molto da imparare e da affinare, chissà quante delusioni ancora da assorbire, chissà quante batoste o, più semplicemente, quante esperienze da digerire, interpretare, rendere parte del mio bagaglio vitale…

Non credevo che a quasi 40 anni ci si potesse sentire ancora così “incerti” e “instabili”; poi leggo il Mostro e mi tranquillizzo (quando lui scrisse queste parole di anni ne aveva 55, e aveva appena rimesso mano alla prima e alla seconda versione del suo libro in progress, ovvero, alla prima edizione, uscita nel 1580, quando aveva 47 anni; e alla seconda, pubblicata nel 1583, se non erro, quando di anni ne aveva 50; muore nel 1592, un 13 di Settembre (che è oggi, mentre scrivo queste riflessioni amare), a 59 anni, e uno si domanda: come aveva fatto ad apprendere tanto, un uomo che muore così relativamente giovane? Come?).

Qualche collega mi prende in giro e mi fa notare che di certezze ne ho molte: sono in salute; dimostro meno anni di quelli che effettivamente ho (qualcuno me ne dà 30, addirittura!); ho una compagna di avventure che mi ama; ho un lavoro; ho una casa (anche se non di mia proprietà, dai 18 anni, da quando mi trasferii per la prima volta a Roma, ho sempre vissuto in case in affitto, case d’altri, di passaggio); ho una passione per la lettura che ancora non mi ha abbandonato (e questo dà costanza e certezza agli alti e bassi della vita; i libri come rifugio in cui sostare quando ci si sente male o troppo smarriti o troppo giù di corda – altro che la psicanalisi, altro che le confessioni dal prete, altro che internet…attualmente mi sto immergendo anima e corpo nei casi clinici raccontati con una tenerezza e un tatto unici da Oliver Sacks in quel best-seller che va sotto il nome di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello…). Insomma, dovrei essere sicuro almeno di queste “certezze” e, invece, mi sento sempre davvero di passaggio; temporaneo; con la data di scadenza (lo dicevo al Direttore del Dipartimento di Lingue: “Siamo tutti a scadenza, purtroppo; il brutto è che – a differenza degli yogurt – non conosciamo la nostra data”; il Direttore, un tedesco che si trova a lavorare in Spagna dopo aver vissuto per 6 anni a Roma, mi sorride sornione e mi fa: “Ma vai a lavorare, vai, per favore!”).

39 anni, un brutto numero, come quasi tutti quelli che precedono i “numeri tondi”: a 29 anni ne vuoi avere subito 30; a 39 subito 40 (per non starci troppo a pensare al trauma di essere giunto a questo traguardo importante); a 49, immagino, uno desidera di compierne subito 50 (e vadano a quel paese i “numeri tondi” e i festeggiamenti di rito).

Ho pensato anche d’adottare questo semplice stratagemma: dire a tutti che di anni ne ho 40, così, quando arriverà l’8 Settembre del 2017, ci avrò già fatto il callo.


Certo è che se mi mettessi a rileggermi in questo “diario di bordo” sin dal giorno del primo post, mi scoprirei diverso: ci sono tanti “altri io” (o “altri me”) che gironzolano qui dentro, in questo spazio virtuale che (ne sono quasi certo) continuerà a sopravvivermi anche quando io sarò letteralmente morto. Non ho comunicato a nessuno la password per entrare nella mia email (come è logico ed anche ovvio); e di conseguenza, nessuno potrebbe entrare tramite la mia email nel dominio di questo blog e disattivarlo (spegnerlo per sempre, come fa David Bowman col cervello pensante di HAL9000 in 2001: Odissea nello spazio). Insomma, ha ragione Montaigne, siamo “in prova”, in un costante “tirocinio”, che terminerà solo con la morte; ed è anche vero che “il mio io di adesso e il mio di fra poco siamo certamente due” (cito non verbatim, stavolta, potrei sbagliarmi). Potrei rileggermi e vedere come sono cambiato in tutti questi anni… Vedere quanti difetti, quanti tic, son rimasti identici nel corso degli anni; potrei constatare quante volte mi sono messo a riflettere sugli stessi nodi (magari anche con lo stesso linguaggio, o con espressioni simili, che si ripetono davvero da un anno all’altro, senza che io me ne renda conto). Potrei auto-psicanalizzarmi, ma non ne ho voglia: ho 39 anni e il fisico comincia a risentirne, non ho più la stessa tonicità di una volta, mi stanco prima, ho meno fiato, se fumo una sigaretta, il giorno dopo ho la stessa identica voce di Andrea Camilleri. E allora la finisco qui; mi abituo all’idea di essere un “quarantenne”, o un “diversamente giovane”, come diceva Fiorello, o un “maturo incipiente”, come dice qualcun altro. C’est la vie, non ci si può far proprio nulla.

miércoles, septiembre 07, 2016


Kamera Obskura, ovvero, Laughter in the Dark, ovvero, l’arte di Vladimir Nabokov nel raccontare la cecità (e i danni collaterali di quella strana malattia degli occhi e della mente che va sotto il nome di “amore”).




Kamera Obskura, così s’intitolava nel 1935 il libro che poi in italiano è stato tradotto come Una risata nel buio; nel 1938 il Nostro ci ripensa e lo ribattezza Laughter in the Dark, come a voler sottolineare, oltre all’elemento “ottico”, anche quello “comico”, o meglio ancora, “tragicomico” della storia (intanto, cambia anche l’incipit e altri pezzi, per l’allegria – si fa per dire – dell’editore): il fatto, cioè, che la cecità che colpisce il protagonista fa scaturire una serie di scenette familiari comiche, ma anche spaventose, risibili, ma anche perturbanti, umoristiche, ma anche scioccanti…come se ci trovassimo al contempo dentro un film di Buster Keaton (l’uomo che non rideva mai) e uno di Alfred Hitchcok… E dunque veniamo al dunque, ovvero, alla trama di questo romanzo che, seppur non tra i migliori del Nostro, è certamente uno spasso, un grandissimo romanzo, un godibilissimo libro, una vera manna dal cielo per gli amanti della Letteratura (Nabokov mi avrebbe certamente mandato a quel paese per l’uso della maiuscola, ma tant’è – scusa, Vladimir, noi si fa i retorici, porta pazienza, comprendici).

La trama è quella tipica, classica, già vista mille volte in tv o al cinema che vede al centro dell’azione un uomo sposato, ricco, un borghese altolocato che – imprevisti della sorte, scherzi del destino – s’innamora improvvisamente (ma pure “improvvidamente”) di una ragazzina, una sedicenne che lavora in un cinema (la settima arte ha un’importanza fondamentale all’interno di tutta l’opera, e così pure il linguaggio cinematografico e gli elementi visivi, quelli che girano, appunto, attorno all’occhio, all’atto del vedere, all’ottica, alla “camera oscura” di cui sopra). La ragazzina viene da una famiglia povera e disagiata e - da quel che ci racconta il narratore esterno e onnisciente e in terza persona singolare (un narratore che sa veramente tutto di tutti, anche un po’ troppo pettegolo, un fine poeta, quando vuole, e un astutissimo stratega, quando vuole farci commuovere, o convincerci d’un ritratto o sorprenderci con una descrizione inaspettata) - ne ha già passate di tutti i colori. E proprio per questo, fiuta l’occasione giusta per rifarsi una vita: accetta di uscire con Albinus (così si chiama il nostro anti-eroe borghese) e di farsi “regalare” un appartamentino per i loro incontri amorosi. Solo che la moglie di lui, anche grazie all’intervento del fratello, scopre una lettera in cui Margot  (così si chiama la nostra eroina erotica) si fa beccare in tutto il suo splendore (e la sua falsa passione per il nuovo amante). A complicare le cose, ci si mette di mezzo anche Rex, un antico amore di Margot, uno specialista d’arte e di disegno pubblicitario che è l’incarnazione del cinico perfetto, e la morte di Irma, la piccola figlia di Albinus ed Elizabeth (questo il nome della legittima sposa). Ecco, il quadro è quasi completo: dobbiamo solo aggiungere che il tutto si svolge a Berlino, anche se poi, con l’arrivo dagli USA di Rex, l’azione si sposta via via verso la Francia, la Svizzera e poi l’Italia…

Insomma, Nabokov prende ispirazione da una tipica storiella di amore frustrato e passionale per costruire una trama con al centro il tipico triangolo erotico composto da LUI (Albinus) LEI (Margot) e L’ALTRO (Rex).

E però stiamo parlando della Letteratura con la “L” maiuscola, sicché, tutto è molto più complicato e affascinante di quanto sembri a prima vista; e con il termine “vista” tocchiamo il punto algido di questo meccanismo narrativo che va in crescendo, fino al climax finale; dopo aver finalmente capito che Rex gli sta attaccato alle calcagna per amore di Margot e perché, fondamentalmente, grazie a lei sta progettando di prosciugargli il conto in banca, Albinus si arrabbia, afferra una pistola e minaccia l’amante. Questa riesce a calmarlo, ma Albinus non sopporta le corna, non accetta nemmeno l’idea (l’ombra) di un tradimento da parte sua dopo quello che è successo con Elizabeth e così, dopo aver riposto l’arma, parte sgommando alla volta di San Remo (lasciando Rex da solo in un hotel). E’ proprio durante la fuga da Rex che un incidente automobilistico rende Albinus cieco e Margot può tranquillamente continuare a stargli vicino, con in più la compagnia “occulta” del socio in affari. Ecco, sono queste le scene più assurde, atroci, divertenti, grottesche, surreali di tutto il libro: le scene in cui Margot e Rex si fanno le linguacce, si baciano, si toccano, si carezzano, in presenza del povero cieco che sospetta, ma non sa con certezza chi è quell’ombra, quel fantasma, quell’alito che gli passa accanto…

Sono pagine che tengono il lettore attaccato al testo; sono pagine dense che fanno ovviamente pensare a Lolita e alla gelosia assurda che attanaglierà l’animo di Humbert Humbert in quello che è (davvero) il capolavoro di Nabokov (Margot è, effettivamente, una Lolita ante-litteram); sono pagine che creano una tensione altissima, una suspense degna (appunto) di un Alfred Hitchcock. Sono pagine, infine, che ci mostrano come per Nabokov l’amore sia davvero sinonimo di cecità (della mente), ovvero, di malattia che parte dagli occhi (l’innamorato non sa vedere la realtà o il corpo esterni che ha di fronte con obiettività e razionalità) e che poi si propaga al cervello (Albinus fa discorsi assurdi e non si rende conto – se non molto tempo dopo – del doppio gioco dell’amante).

Era tutto già scritto nell’incipit:

“C’era una volta un uomo che si chiamava Albinus, il quale viveva in Germania, a Berlino. Era ricco, rispettabile, felice; un giorno lasciò la moglie per un’amante giovane; l’amò; non ne fu riamato; e la sua vita finì nel peggiore dei modi” (p. 9 dell’ed. Adelphi del 2016).

Come se si trattasse di una favoletta, Nabokov, sin da queste prime righe, è pronto per trasportarci nel suo mondo; un mondo in cui si posso leggere chicche come questa:

“Si sedette davanti allo specchio (gli specchi avevano un sacco da fare quel giorno) […] (id., p. 50)

O come questa:

“Irma osservò i peli bianchi che spuntavano dal grande e complicato orecchio del dottore e la vena a forma di W sulla tempia rosea” (id., p. 124).

O come questa:

“Quel futuro gli apparve come uno di quei lunghi, polverosi, scuri corridoi in cui si può trovare una cassetta inchiodata al muro o una carrozzina per bambini vuota” (id., p. 139).


Letteratura con la “L” maiuscola (scusaci di nuovo, Vladimir), scrittura dotata di uno stile inimitabile, ritmo per l’udito di chi sa riconoscere questo stile che cattura sin dalle prime righe. Nabokov allo stato puro, insomma. Leggete Una risata nel buio. Non ci dormirete la notte.

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