lunes, julio 18, 2016


Faces (1968) di John Cassavetes



Ieri (prima di prendere atto delle atrocità di Nizza – una città dove avevamo intenzione di fare tappa questo Agosto nel nostro viaggio interstellare tra la Spagna e l’Italia, passando per la Francia), io e la mia compagna di avventure abbiamo visto uno dei film più spettacolari e belli della Storia del Cinema: mi riferisco a Faces (1968) del grande regista americano John Cassavetes.

Faces è un film che ti cattura fin dalle prime inquadrature: la camera a mano traballa e resta attaccata ai volti (appunto, “faces”) degli attori in un modo tale che a te – spettatore – sembra di stare vivendo la vita dei personaggi del film stesso; ti sembra proprio di sperimentare tutta l’agitazione, l’allegria e la follia che vivono questi ultimi sullo schermo; ti pare di poter sentire il loro alito, di poter auscultarne la respirazione, di poter diventare vittima di qualche loro sputo, lanciato in aria in un momento di particolare fibrillazione. E la mente corre subito al manifesto DOGMA 95 di Lars von Trier e Thomas Vinterberg, i due danesi che, appunto, sul finire degli anni 90 hanno cercato di “rivoluzionare” il cinema d’autore facendo un passo indietro, neutralizzando l’uso (e, a volte, l’abuso) degli effetti speciali per tornare un po’ alle origini, a un “neorealismo” che diventa “iperrealismo”.




John Cassavetes fa esattamente la stessa cosa, ma prima di von Trier e Vinterberg; inspirandosi (a quanto leggo al volo su internet) al Cesare Zavattini del cinema-verità o “cinema documentaristico”, trasforma la macchina da presa in un testimone oculare che si muove a distanza ravvicinatissima dagli attori. Da qui quello strano effetto di sentirsi come all’interno dell’inquadratura, e anche di percepirsi come all’interno di una guerra, quella che il film stesso va sviluppando stando alle spalle o sulla faccia in primo piano degli attori…

La trama di Faces è semplice: un uomo e una donna sulla cinquantina in crisi sentimentale dopo 17 anni di matrimonio; lui decide di rifarsi una vita con una prostituta di cui s’innamora (la bellissima Gena Rowlands, moglie di Cassavetes nella vita reale e sua musa ispiratrice fino alla propria morte), lei finisce con l’andare a letto con un gigoló dopo una nottata di sbronze euforiche con un paio di amiche. Ciò che rende questa trama “semplice” un’opera d’arte è il modo in cui viene raccontata: la tecnica diventa consustanziale agli obiettivi estetici del regista. I primi piani costanti, continui ed iperrealisti ci portano sul campo di battaglia in cui si combatte a suon di dialoghi assurdi una guerra senza fine e senza pietà. Le inquadrature non sono mai banali, anzi, sembra come se Cassavetes si impegnasse a sorprendere sempre lo spettatore (come in quella sena in cui lui, il marito fedifrago, si è appena riappacificato con un cliente della sua prostituta favorita, e lei, Gena Rowlands, appare in mezzo ai due uomini, il viso inquadrato in modo geometrico tra le geometrie perfette delle giacche dei due rivali in amore e nel sesso; e così in molte altre scene, come quella finale, in cui marito e moglie, come sopravvissuti, tirano le somme della loro lotta seduti sulle scale che portano in camera da letto a distanza di pochi gradini l’uno dall’altra).





Insomma, e per farla breve, Faces colpisce perché non dà tregua, non è mai scontato, anche quando i personaggi sembrano parlare del nulla, anzi, direi “soprattutto” quando sembra che non stia accadendo nulla e che si parli solo di sciocchezuole. Eppure…tutta la “macchina narrativa” viene innescata per un tradimento e la richiesta di divorzio di lui contro sua moglie (si lamenta del fatto che non fanno più sesso; per questo il cinquantenne dai capelli bianchi decide di godere dei servizi della prostituta che poi diventa amante). 

Un dramma quotidiano, un dramma qualunque (che comunque dovrebbe farci riflettere: perché gli uomini, all’interno di un matrimonio, sono così portati al tradimento? Perché hanno apparentemente più velleità belliche delle donne? Perché hanno sempre voglia e loro no?) che Cassavetes trasforma in una specie di documentario sulla vita e la società americana degli anni 60. Un documentario crudo, dove allo spettatore non viene nascosto nulla, dove, anzi, allo spettatore è affidato il compito di “presenziare” il dramma fin nei più piccoli particolari (le espressioni del volto dell’attore in campo; le parole che lascia scorrere senza fine; le risate o le lacrime che erompono in un modo così naturale e diretto che uno si chiede quanta bravura debbano aver mostrato tutti in questa messa in scena così spettacolare - penso, in particolare, all'attrice che impersona la "moglie" tradita e adultera; Lynn Carlin si chiama, da Oscar nella scena in cui rischia di morire dopo aver ingurgitato un barattolo intero di barbiturici...). Un film da vedere e rivedere. Un film da gustare in ogni sua inquadratura.

 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...