jueves, diciembre 14, 2017

Grazie, Liszt


Di nuovo la maledetta insonnia. Sono le 2 e gli occhi stanchi contemplano il paesaggio esterno: 3 lampioni illuminano con luce al neon il selciato, ricoperto di foglie secche, foglie morte, foglie gialle. È il 10 di Dicembre, è normale, anzi, qui fa più caldo che a Madrid (o che a Roma).

Per non pensare al tempo che non vuole passare, mi metto a leggere un romanzo atroce, uno di quei libri che già so che non potrò smettere di leggere fino alla fine, Resistere non serve a niente, di Walter Siti (solo a lettura finita scoprirò che si tratta del “Premio Strega” del 2013). È un romanzo che parla di un giovane di borgata che, inseguendo la sua passione per la matematica e i calcoli, arriva a diventare un grande esperto di finanza mondiale, uno squalo sullo stile del Leonardo Di Caprio del bellissimo The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (che curioso! Anche questo film è uscito nel 2013).

“Non si scrive quello che si vuole, si scrive quello che si può”, afferma il narratore in prima persona in uno dei primi capitoli del romanzo. E come dargli torto. Mi faccio un cappuccino col caffè decaffeinato, con l’idea di poter trovare la pace interiore. Ripenso a ciò che sono stato nel 1997 (fidanzato con una spagnola arrivata a Roma per l’Erasmus); nel 2004 (dottorando all’Università di Pisa fidanzato con una fiorentina doc); nel 2012 (ricercatore a tempo in zona Campania, senza fidanzata e, perciò, una mina vagante, sempre pronto ad accogliere nel mio letto qualche giovane compagna che avesse voglia di sperimentare l’innominabile); nel 2014 (professore in un’Università spagnola, sposato, amante incallito e imperterrito della mia compagna d’avventure, com’è possibile che abbia sempre più voglia di fare sesso con lei? Cos’è che ci lega così tanto? Perché la libido non decresce, ma, anzi, sembra accrescersi sempre di più?).

Scatta l’effetto nostalgia: m’imbatto in vecchie foto (ma la cartella che le contiene s’intitola “Foto recenti”? Quanto è relativo l’aggettivo se lo applichiamo alle foto che scattiamo nel corso di un’intera esistenza? Quanto?), ci resto di sasso, soprattutto dinanzi a quelle scattate nel mini-appartamento di Pisa, vivevo in una stanza di 10 metri quadri ricolma fino all’inverosimile di libri, libri ovunque, per terra, sugli scaffali di una libreria di terza mano sul bordo del collasso, sotto il letto, sopra la scrivania che si piega sotto l’effetto del peso della cultura, libri letti e sottolineati ed evidenziati all’inverosimile, commentati a penna, a matita, non c’è pagina che abbia lasciato immune dalla mia foga critica o ammirativa, quanti elogi scritti al lato delle frasi che mi sembravano più belle e riuscite e compatte…

All’epoca (stiamo parlando esattamente del febbraio del 2003) avevo l’immagine di Marcello Mastroianni come sfondo del desktop del mio “Acer”: il Marcello che fuma e che veste di nero elegante in 8 ½ di Fellini; mi sono sempre identificato in questo personaggio un po’ solitario (anche se è perennemente circordanto da colleghi e amici) e un po’ dongiavanni (chi non sogna di diventare il Re di un harem pieno di belle donne pronte a soddisfare ogni nostro più turpe desiderio? Chi non sogna di giocare al dottore e all’infermiera con una belleza mediterranea e tutte curve come la Sandra Milo di quel film?).

Nella foto s’intravede un’abat-jour di plastica rossa; sicuramente comprata da un cinese (all’epoca si tendeva al risparmio, la borsa ammontava a circa 800 euro al mese, se non erro, e dovevo pagarci l’affitto e mangiarci e – quando e ove possibile – acquistarci i libri, tutti quei libri che affogavano il mio spazio vitale, ma io ne godevo, non sono mai riuscito a vivere senza essere circondato letteralmente dai libri).

E poi delle fotocopie, di sicuro erano articoli relativi all’argomento della mia tesi di dottorato, quanti anni sono trascorsi da allora, quanti! Quasi 15, accidenti! Una vita fa…
Ascolto Franz Liszt, un pezzo famosissimo, La Campanella, una festa per l’udito, le dita che stuzzicano il piano con un brio, una gioia, una carica emotiva che fa venire voglia di sorridere al nulla.

Ciò che più colpisce di questa foto – ciò che Roland Barthes definirebbe il “punctum” della foto – è che manca il soggetto principale, il proprietario di tutti quei libri e delle fotocopie e del computer, manco io, perché nella foto c’è solo il fantasma del mio “io” di un tempo, un “io” totalmente diverso dall’ “io” che scrive ora, di notte, in una casa enorme del centro di una città del Levante spagnolo (il Sud del Sud della Spagna e del Mondo), un “io” che non riuscendo a dormire (a chiuedere letteralmente un occhio) si lascia accecare dalla contemplazione estasiata di una quantità enorme di foto del passato, anche se la cartella che le contiene si intitola “Foto recenti”, e uno si rende conto di quanto strambo, relativo, assurdo sia l’uso di quell’aggettivo…


Buonanotte, Franz Liszt. E grazie per la musica.

sábado, diciembre 09, 2017

Stanley Kubrick (o della difficoltà di creare)

In questi giorni di stress e di corsa ai regali per l'imminenza del Natale (non vedo l'ora che arrivi solo perché così potrò tornare in Italia e starmene rintanato nella casa dei miei genitori - in quella casa che mi ha visto crescere e trasformarmi dai 0 ai 18 anni, prima della fuga a Roma - per leggere e vedere i film che ho in lista d'attesa), sono riuscito a finire la biografia che John Baxter ha dedicato a Stanley Kubrick e che pubblicò nel 1997 (ovvero, due anni prima della morte del regista americano – avvenuta nel 1999, pochi giorni prima che Eyes Wide Shut iniziasse a fare il suo cammino sugli schermi dei cinema di tutto il mondo, a partire da quelli della Mostra di Venezia, dove io ebbi la fortuna di vederlo in anteprima assoluta – e 20 anni dopo la sua prima apparizione per Harper Collins) e la prima cosa che uno pensa quando chiude il libro è: “ma quanto è difficile creare? Quant'è dura la vita dell'artista che, dal nulla, e sfidando se stesso e il mercato e le mode del momento, decide di rischiare tutto per poter inseguire una sua particolare, individualissima, perturbante idea del mondo?”.

Spesso paragonato a Howard Hughes, Kubrick incarnò alla perfezione (secondo le tesi di Baxter) l'ideale del regista che è capace di vendersi la casa o di divorziare dalla moglie pur di arrivare al montaggio finale del film che ha in mente. Isolato dal mondo, in una tenuta di campagna inglese, in effetti, Kubrick passò quasi la metà della sua vita a elaborare film lontano dagli “studios” hollywoodiani (sebbene mantenesse un buon rapporto con la Warner Brothers e producesse i suoi film in accordo con la stessa produttrice cinematografica) e lontano dal "gossip" e dalle domande dei giornalisti e dei curiosi, oltre che dalle mode del momento. Anzi, spesso Kubrick dovette frenare o rimangiarsi un progetto o rimandare un film solo perché qualcuno prima di lui lo aveva già anticipato nel tempo: l'idea di Full Metal Jacket, ad esempio, gli venne quando Coppola aveva appena finito Apocalypse Now e Oliver Stone aveva appena mandato nelle sale il suo Platoon...scherzi del destino o gaffe dell'ultim'ora o sfortuna di chi a volte assume i tratti di Fantozzi.

E un'altra delle cose che si pensano a libro terminato è che, in realtà, Kubrick dovette soffrire parecchio a causa della propria genialità, delle proprie ossessioni, delle proprie manie sul set. Era un perfezionista, che riusciva a portare all'esaurimento chiunque decidesse di lavorare con lui (anche se Emilio D'Alessandro, il suo autista personale, riesce a farci vedere anche il suo lato più umano e più tenero, per così dire, nel libro confezionato da Filippo Ulivieri (cfr. il post che ho dedicato a Stanley e me (Milano, il Saggiatore, 2012) quando uscì: bellissima l'esperienza avuta a Roma alla presentazione del libro, gentilissimo Ulivieri e generosissimo D'Alessandro nel raccontare la sua avventura con il regista).



Un esempio fra tanti: quando, prima di Eyes Wide Shut e subito dopo Full Metal Jacket, Kubrick torna all'idea di fare un secondo film di fantascienza (quell' A.I. che poi avrebbe girato Spielberg, anni dopo la morte del collega) decide che è ora di appoggiarsi a un esperto e ordina a Aldiss, uno dei suoi più fedeli collaboratori, di contattare Hans Moravec, uno dei maggiori esperti al mondo di “Intelligenza Artificiale”.

Aldiss ci riesce e gli comunica che in quel momento Moravec è in Giappone per un ciclo di conferenze e Kubrick (secondo la testimonianza di Aldiss):

Ok, trovalo in Giappone”.
Ah, Stanley, come faccio?”
Chiama la Warner a Tokyo. Digli di muovere il culo e trovare Moravec”.
Ma Stanley, è mezzanotte a Tokyo...”
Un'ora più tardi Moravec era al telefono” (cit. John Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Torino, Lindau, 1999, p. 466).

E allora uno si ferma a riflettere: Kubrick era un solitario, un regista autoritario, uno inflessibile, eppure, doveva pur avere una qualche qualità speciale, una capacità invidiabile, se davvero riusciva (dal suo cottage inglese immerso nei boschi) a parlare con personalità ed esperti mondiali da ogni parte del Globo. E l'ambivalenza sorge anche contemplando le molte foto che appaiono nel libro: a partire dalla copertina, dove un Kubrick ancora relativamente giovane sorregge nella mano destra un obiettivo attaccato ad un'occhio e poggia paternalmente la mano sinistra sulla spalla di Gary Lockwood nei panni dell'astronauta di 2001: A Space Odissey. L'ipotetico spettatore che non avesse mai visto nemmeno un film di Kubrick potrebbe facilmente pensare che si tratta della foto di un padre con il figlio, intento a fargli forza, a infondergli coraggio e a fare il tifo per lui poco prima che inizi il gioco (la partita del film).

Ma possiamo citare anche un'altra foto in cui Kubrick, in una pausa sul set di Orizzonti di gloria, completamente avvolto in un giaccone enorme di fustagno, sorseggia un caffè americano in compagnia di Kirk Douglas e di quella che poi sarebbe diventata la sua terza moglie, Christiane Harlan. Kubrick ha la testa avvolta in un cappello di lana e sembra davvero un superstite della Prima Guerra Mondiale, un soldato scampato alla morte e alle bombe nelle trincee, le mani inguantate, lo sguardo rivolto all'orizzonte, mentre gli altri due attori ridono e scherzano, anche loro sorseggiando del caffè bollente.

O come in un'altra foto dal set di Arancia meccanica: Kubrick, già più vecchio, con la barba incolta e i capelli scompigliati, sembra un prete intento ad officiare la messa a pochi passi da un enorme crocefisso. Sopra di lui, un secondo crocefisso sembra osservarlo dall'alto in basso. E' lo spazio che ricrea la cappella all'interno del carcere minorile in cui finirà Malcon MacDowell dopo che i “drughi” si saranno ribellati e lo tradiranno. Uno spettatore ingenuo contempla la foto e pensa che a breve quest'uomo barbuto leggerà brani dal Vangelo secondo Matteo.



Kubrick e la difficoltà di creare. Kubrick e la genialità di un regista che sapeva benissimo che cosa stava girando e che, per questo motivo, era capace di sferzare la forza psichica e fisica di chi gli stava attorno. Kubrick e la serietà di chi gioca a un gioco rischioso: quello di ri-creare il mondo a partire dalle immagini e dal montaggio cinematografico sperando di avere (sempre) il controllo assoluto e totale sul risultato finale. Kubrick e il cinema come arte che ri-produce (all'infinito) la bellezza di inquadrature che sono rimaste (e forse rimarranno anche in un futuro lontano) nella retina di milioni di spettatori. Kubrick e la difficoltà di generare questo tipo d'immagini indelebili.

sábado, diciembre 02, 2017

Intertestualità

Stanco e senza quasi voce (mal di gola maledetto, che arriva puntuale al primo abbassarsi della temperatura), mi reco in aula come il condannato a morte verso la sedia elettrica. Tanti, troppi alunni seduti in attesa del prof. che li illumini.

Stanco e stressato, con la testa a Roma (dove una casa editrice abbastanza seria ha appena ricevuto il nostro "visto si stampi" - il che vuol dire che, a partire da quel momento, il libro va in stampa e non sarà più possibile apportare correzioni o ripulire gli inevitabili refusi), mi accingo a spiegare un concetto non certo facile: che cos'è l'intertestualità e come funziona. Che vuol dire che i testi (soprattutto quelli del cosidetto "postmodernismo") dialogano tra di loro, a distanza, a volte sotto forma di parodia, altre sotto forma di omaggio, altre ancora (la maggior parte delle volte) come ri-scrittura di un modello appartenente a un'altra epoca, un altro contesto culturale, un'altra ideologia...

E non so né come né perché, mi rammento della famosa scena della carrozzina ne La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (del 1925!): è una scena mitica, ogni cinefilo che si rispetti la conosce a memoria:


L'esercito sta trucidando il popolo ribelle e una madre prova come può a difendere il figlioletto, ma un soldato le spara e mentre la donna si accascia a terra, spinge senza volere la carrozzina del bimbo... E la carrozzina, ovviamente, comincia a scendere lungo la scalinata, inesorabilmente, inevitabilmente, e Ejzenstejn, che ha inventato il montaggio alternato, riesce a creare una suspense immane con l'alternarsi (appunto) di primi piani (delle vittime) e campi lunghi (del paesaggio), di movimenti inarrestabili dei soldati e di movimenti sincopati del popolo innocente... Dura 2 minuti, ma sono intensissimi, gli studenti trattengono il fiato, è incredibile come un film del 1925 riesca ancora oggi a sorprendere e a scioccare lo spettatore.


Bene, e ora guardate cosa fa Brian De Palma nel 1987 ne Gli intoccabili, un gangster-movie americano tipico:


Il bambino nella culla è un po' più grandicello di quello del film russo: la scena è molto più lunga (circa 7 minuti) e, soprattutto, il finale è specularmente opposto a quello di Ejzenstejn. Perché? Una ragazza coi capelli neri lunghi alza la mano: "Perché qui i buoni vincono e i cattivi perdono".

La ringrazio e le rispondo che ha ragione: ma non solo. Qui De Palma spettacolarizza la scena de La corazzata Potemkin, perché il bambino si salva in mezzo a una pioggia di proiettili e di mafiosi intenzionati a fare fuori chiunque gli si pari innanzi. Perché qui l'agente amico di Kevin Costner arriva (proprio all'ultimo momento) a frenare la corsa spericolata della carrozzina parandola come fosse un pallone sul punto di finire in rete (anzi, ha perfino il tempo di lanciare una pistola carica all'amico rimasto a secco).

Omaggio? Parodia? Ironia? Ri-scrittura?

Possiamo rifletterci un po' su, ma è quasi inevitabile constatare come tra la Russia degli anni 20 di Ejzenstejn e gli USA degli anni 80 di De Palma c'è un vero e proprio abisso. E il fatto che l'americano non possa fare a meno dell' "happy end" la dice lunga su un certo modo d'intendere la vita, e il cinema, e la realtà tutta (da parte dello stesso regista, ma anche da parte della politica degli "studios" e di Hollywood tutta...). Riflettiamoci. Riflettetici. E poi tornate a leggervi l'Odissea e, in parallelo, aprite Ulysses di Joyce.

La voce completamente svanita, il bruciore in gola mi paralizza, ma mi faccio violenza e esco dall'aula con in mano lo zainetto pieno d'acqua. Sta piovendo a dirotto. Il cielo è nero. E tira un vento che fa tremare le auto. Le chiome degli alberi sbandano come alcolizzati sulla via del ritorno. È il primo giorno del mese di Dicembre. E siamo riusciti a portare a termine una lezione che sembrava un macigno. Un'alunna che si era seduta nelle ultime file mi si avvicina con un ombrello in mano e mi chiede se accetto una caramella alla menta: "Per il suo mal di gola", aggiunge. Ha un sorriso bellissimo. Vorrei abbracciarla forte forte. Mi trattengo e accetto, la ringrazio e affronto la tempesta. Iniziamolo bene quest'ultimo mese di fatica prima delle vacanze natalizie. Dai.


 Un incubo (letterario) La fortuna (o il caso o  il destino o chiunque si trovi a gestire le nostre vite terrene) ha voluto che, un paio di ...