martes, enero 30, 2018

Homo Lubitz (2018), di Ricardo Menéndez Salmón: il mondo apocalittico (che verrà)



Romanzo strano, a tratti lirico ed emotivamente coinvolgente, a tratti angosciante e assolutamente pessimista, come (quasi) tutti quelli che ha pubblicato fino ad oggi Ricardo Menéndez Salmón (una giovane promessa della letteratura spagnola contemporanea o, a detta di altri, una splendida conferma della stessa), Homo Lubitz (appena apparso qui in Spagna) ci offre uno squarcio inquietante di quello che potrà diventare il nostro mondo di qui a pochi anni (di fatto, l'azione si sviluppa nel 2025, ovvero, in un futuro molto prossimo).

La copertina già ci svela in parte il contenuto "distopico" dell'opera: un aereo che sorvola la città e passa attraverso dei grattacieli moderni. 

Il titolo, di fatto, prende spunto dalla cronaca più recente, per la precisione, da quell'Andreas Lubitz che il 24 Marzo del 2015, dopo varie crisi depressive e problemi psicologici già diagnosticati, decise di togliersi la vita schiantando l'aereo che pilotava da Barcellona a Dusserdolf sulle Alpi francesi (provocò la morte di 150 passeggeri).

Il protagonista del romanzo, l'irlandese Richard O'Hara, si trova in Cina, a Shangai, in un hotel di lusso, mentre è in procinto di firmare un contratto da migliaia di euro. Lavora per una grossa azienda farmaceutica che, dopo alcuni esperimenti alimentari, si accinge a immettere sul mercato cinese prodotti lattei che, di norma, i cinesi stessi non possono ingerire per la mancanza (genetica) dell'enzima destinato alla loro digestione.

Intanto, il capo assoluto (e misterioso) dell'azienda propone a O'Hara un altro affare: andare alla ricerca del luogo reale di una fotografia che lo ossessiona da anni. 

O'Hara guadagnerà una cifra ancora più alta se riuscirà a scovare lo spazio "fisico" e "geograficamente rintracciabile" che si vede nella foto. In pratica, diventerà un nomade a pagamento e girerà la superficie terrestre per soddisfare lo sfizio di un ricco senza scrupoli (lo farà in compagnia di Amanda, una tedesca che ha già fatto esperienza della vita e delle delusioni che questa comporta).

Nel mentre, O'Hara ci svela le sue ossessioni, come, per l'appunto, gli incidenti (aerei ed automobilistici). 

I capitoli più scioccanti sono proprio quelli dedicati a queste ossessioni; in particolare, quello in cui O'Hara alterna (come se si trattasse di un "montaggio alternato") la descrizione "in soggettiva" dei pensieri (gli ultimi) di Andreas Lubitz prima dello schianto fatale e di una sorta di lectio magistralis che il regista David Cronenberg imparte ai giornalisti della Mostra del Cinema di Venezia subito dopo la visione del film che ha tratto proprio dal disastro aereo provocato da Lubitz...


Sono pagine che fanno letteralmente venire i brividi sulla schiena. In parte, mi ricordano l'opera teatrale I-Tigi. Canto per Ustica, del geniale Marco Paolini, dove ad essere rievocata è un'altra tragedia aerea, che ancora oggi sembra essere avvolta nel mistero (come si dice in gergo giornalistico) e che pure ha provocato la morte di tanti innocenti.

Le parole che il regista de La Mosca e di tanti altri capolavori scambia con il protagonista nel bagno del cinema sintentizzano, in parte, ciò che Menéndez Salmón intende per "letteratura": un tentativo (onesto) di mostrare il lato oscuro dell'essere umano. Per capire come siamo fatti. Per provare a capire cosa potrebbe diventare questo pianeta se non ci fermiamo a riflettere. Per provare anche ad intravedere la luce in fondo al tunnel.

Homo Lubitz è come un film di Cronenberg, in questo senso: ci colpisce e ci spaventa. Ma alla fine, ci fa anche intravedere una speranza, nonostante il male e l'angoscia, nonostante il disastro perenne che fa sì che i piloti di aereo si schiantino insieme a 150 innocenti, che i terroristi sgozzino in nome della religione, che la biopolitica influenzi così tanto le nostre vite da consentire stermini di massa senza che ce ne rendiamo conto.

È un libro duro, ripeto, e poetico. Ed è questa ambivalenza a renderne la lettura un atto dirompente. Fino all'ultima, incredibile pagina.

viernes, enero 26, 2018

The Third Man (1949) di Carol Reed (o di come un tiramisù può indurre alla cinefilia - prima -  e ad Eros - poi)




C’è una sottile vena di erotismo implicito nel preparare il tiramisù insieme, mentre fuori soffia una tormenta che fa tornare all’improvviso l’inverno da cui credevamo d’esserci congedati per sempre… Le carezzo una tetta, le titillo la pancia, le palpo il sedere, provo a farle il solletico sotto le ascelle, mentre sbatte i tuorli e gli albumi e poi mescola il mascarpone allo zucchero…

E l’erotismo aumenta se pensiamo all’effetto delle vestaglie di flanella: stesi sul divano, con una candela accesa ad illuminare in modo soffuso il salone, sotto il calduccio, intenti entrambi a contemplare le inquadrature sghembe in un bianco e nero fantastico e molto espressionista di The Third Man (1949) di Carol Reed, un “cult”, come si dice, uno di quei film che sono entrati di diritto nell’immaginario collettivo e che hanno scritto una pagina memorabile di una parte della Storia del Cinema, un film anomalo, perché se all'inizio sembra imitare gli stilemi del genere “spionaggio” (la sceneggiatura è ad opera dell’esperto Graham Green), poi (appunto) se ne distacca, per diventare una bella, profonda, tristissima riflessione sull’amicizia e su come le guerre possono modificare il carattere e il modo d’agire delle persone; un film davvero strambo, se pensiamo che tutti i protagonisti passano i primi 40-45 minuti a parlare di Harry Lime (interpretato dal bravissimo e sempre gigionesco Orson Welles), a rimembrarne la morte, a compiangerne la scomparsa, a elogiarne le imprese, fino a quando, alla fine, quasi a fine film, di fatto, spunta lo stesso Lime e lo spettatore, esattamente come accade a Holly Martins (interpretato dal bravissimo e perfezionista Joseph Cotten) non sa che pesci prendere, dubita per un attimo che si tratti davvero del redivivo Lime o se stia assistendo alla comparsa di un fantasma o di un’allucinazione dell’amico che tanto lo ha pianto, fino a quando scopriamo cosa si cela dietro la maschera del personaggio, e veniamo a conoscenza delle malefatte, dei disastri e delle morti che ha provocato rivendendo al mercato nero della penicillina difettosa, e allora lo spettatore cambia idea, si pone il dubbio, non sa che pensare, perché questo Lime ci sta quasi simpatico, come quando, nel primo incontro con Martins, al luna-park, pronuncia quella frase che Orson Welles avrebbe certamente fatta sua sul piano della vita reale:

“In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”.


E uno pensa a quanto doveva essere affascinante, pur nella sua decadenza fisica e morale, la Vienna reduce dalla Seconda Guerra Mondiale; a quanti Harry Lime dovettero muoversi all’interno del suo centro storico; a quante e quali incomprensioni legate alle 4 lingue “ufficiali” che vi si parlavano dovette dare luogo una città come Vienna in quel periodo storico. 

E l’erotismo della fase preparatoria del tiramisù sfuma e vira verso riflessioni razionali pensose; fuori comincia addirittura a piovere...ma poi basta spegnere la candela e cercare su YouTube la colonna sonora del film, basta riascoltare lo splendido motivo musicale di Anton Karas, per riprendere subito quota e cavalcare le onde della passione, abbracciati e avvinghiati entrambi ad Eros…Chissà come sarà venuto il tiramisù...

martes, enero 23, 2018

Pensieri strambi




In questi giorni sto leggendo un romanzo che, tra le altre cose, allude al disastro aereo di Andreas Lubitz, quel giovane tedesco che fece schiantare un aereo della “Germanwings” con a bordo 150 passeggeri su un costone delle Alpi francesi il 24 Marzo del 2015.

Si tratta di un romanzo inquietante, a tratti poeticissimo, a tratti crudele e perturbante (e di sicuro ne riparlerò su questi schermi).
E la lettura del romanzo mi ha spinto a pormi una domanda assurda: che fine hanno fatto tutte quelle coppie di amanti composte da tedeschi nazisti e vittime ebree? Avranno continuato a fare sesso, travolti dalla passione, anche dopo il disastro finale? Avranno provato a normalizzare il loro rapporto, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, o saranno rimasti nascosti, avranno continuato a celare agli occhi del mondo un rapporto così “proibito”, fino a pochi giorni prima, e così “assurdamente naturale”, dopo la fine del Nazismo?

E ho pensato: Eros è un dio che non conosce confini spaziotemporali di sorta e a cui le ideologie d’appartenenza degli amanti risultano del tutto indifferenti. Chi è preso da Eros, anche quando sembra provare repulsione verso l’oggetto del suo desiderio, non può frenarsi. Eros ci fa saltare i freni.



Pensieri strani. E strambi. E anche un po’ assurdi. E chissà che non esistano romanzi che ne parlano (al cinema ne ha già parlato Liliana Cavani, con Il portiere di notte, del lontano 1974). E chissà che non esistano (ancora oggi) ebrei ed ex-nazisti che hanno sperimentato sulla propria pelle un rapporto di questo tipo…

sábado, enero 20, 2018

The Sopranos (o dei personaggi "ambivalenti")




Mentre provo a riprendermi da una settimana intensa (un congresso durato un’intera giornata, con 8 interventi, tra cui quello di una collega della “Sapienza”, che ho ospitato e cui ho fatto ovviamente da cicerone in queste giornate quasi primaverili; le lezioni – ma per fortuna stiamo per giungere alla fine di questo primo lungo semestre; gli esami – sia quelli da preparare che quelli, scritti, da correggere; le cene e la vita sociale molto vivace con la mia compagna d’avventura; le email a cui rispondere e quelle da cestinare subito se non si vuole rischiare l’intossicazione da email arretrate; etc. etc.), riguardo con rinnovato stupore quella che, a mio modesto parere, è una delle serie più belle di tutti i tempi: The Sopranos, di David Chase (andata in onda negli USA tra il 1999 e il 2007).

Come non restare a bocca aperta di fronte alla bravura dello sceneggiatore e dei registi che si alternano nelle varie puntate? Come non restare scioccati dal ritmo della narrazione? Come non sorprendersi della bravura degli attori (primo fra tutti, James Gandolfini, che interpreta Tony Soprano, il protagonista, il boss della mafia del New Jearsy di origini irpine, che è costretto ad andare dalla psichiatra per poter far fronte agli attacchi di panico e ai continui svenimenti)? Come non applaudire di fronte a certi finali (con l’uso sapiente e spesso ironico delle canzoni che fanno da colonna sonora)?

Oggi mi sono re-imbattuto nell’ultima puntata della seconda stagione: Tony Soprano non riesce a dormire; ha gli incubi; suda freddo. Intossicazione alimentare. Ha mangiato cibo indiano e vomita tutto. Intanto, nei vari sogni, si insinua un sospetto atroce: forse Pussy (“Big Pussy Bonpensiero”), uno dei suoi migliori amici e alleati, lo sta tradendo, sta facendo la spia all’FBI… Tony urla e si dispera e vomita e ci pensa e ci ripensa, finché non è lo stesso Pussy a confessare, sotto forma di un pesce immerso nel ghiaccio e pronto per essere comprato al mercato…

Non contento e non del tutto sicuro del messaggio ricevuto in sogno, Tony Soprano e i due fedelissimi Silvio Dante e Paulie Gualtieri vanno a trovare Pussy a casa il mattino dopo l’incubo. E qui, in camera da letto, fingendo che deve tornare a vomitare in bagno, mentre gli altri sono in cucina a farsi un caffè, Tony scopre la verità: le cimici che l’FBI ha dato a Pussy per registrare le loro conversazioni (nascoste dentro una scatola di sigari pregiati).

La scusa che inventa Tony è banale: vuole comprare una nuova barca e invita Pussy ad andare a vederla insieme. Pussy accetta, finché Tony lo fa accomodare in cabina e gli chiede perché: “perché mi obblighi a farti del male?”.

Pussy non sa più che rispondere: sa che a partire da quel momento, non avrà scampo. I quattro amici provano a rimembrare i bei vecchi tempi; Paulie e Silvio gli offrono anche la tequila, che Pussy beve a grande velocità per stordirsi. Infine, chiede un’ultima cortesia al suo ex-migliore amico: “Per favore, non sulla faccia”. E i tre sparano. E Pussy cade a terra.

Sono scene ricche di suspense: i dialoghi, essenziali, ci informano su ciò che c’è da sapere; gli sguardi, i primi piani, tra cane e gatto, o tra gatto e topo, fanno il resto…

Ma la puntata va avanti: Tony viene scocciato dalla madre, cui ha dato dei biglietti fasulli per prendere l’aereo e allontanarsi da casa sua (il rapporto edipico tra i due meriterebbe un discorso a parte, ma andiamo avanti...). La polizia aeroportuale l’ha fermata. Ora ha bisogno di un avvocato. Intanto, l’FBI si reca a casa di Tony Soprano proprio per incolparlo della falsificazione. Meadow (sua figlia appena maggiorenne) s’imbatte nel padre circondato dalla polizia insieme alle amiche. Il giorno dopo riceverà il diploma ufficiale e si dispera e si offende perché suo padre non ci sarà. Ma non è così. Tony riesce a pagare la cauzione e si presenta puntuale alla cerimonia.

Il finale è una sorta di riassunto della doppia vita del boss: mentre a casa si festeggia la neo-diplomata, con i fedeli alleati al seguito, la telecamera ci mostra con eleganza e quasi al ralenty le mille attività illecite che permettono ai Soprano di fare la vita dei ricchi.

Ultimo scambio di sguardi: quello fra Tony, con il sigaro in bocca, e Carmela Soprano, sua moglie.

È raro vedere tanta ambivalenza in un solo personaggio come questo: la moglie (ultra-cattolica e osservante) sa che se vivono nel lusso è perché suo marito sguazza nel crimine. C’è anche la moglie di Pussy, che si domanda dove diavolo si sia cacciato il marito (che ancora non è arrivato). E Tony sorride, ci sorride, sornione, immerso nel fumo del sigaro.


Alla prossima puntata…

jueves, enero 18, 2018

17 Gennaio del 2018

Appena comprato il nuovo computer. E come sempre, uno ha il timore di toccare il tasto sbagliato, che si blocchi al primo movimento, che non accetti i DVD che uno già s'immagina di poter guardare in tutta calma sotto le coperte (anche se poi la batteria si surriscalda e ci si scotta le gambe).

Il feticismo legato alle macchine. Mario Perniola ci aveva anche scritto un saggio: Il sex appeal dell'inorganico, s'intitolava, se non erro...pubblicato sul finire degli anni 90.

Intanto, reduce dal successo di un congresso organizzato nuovamente da me e con l'appoggio pratico e l'aiuto morale di altri 4 colleghi, mi preparo a sconfiggere l'insonnia per l'eccessiva stanchezza fisica.

Alle prossime puntate...(la tastiera, comunque, scorre via liscia...)

martes, enero 09, 2018

Iniziamo il 2018




Mio fratello mi chiede qual è la prima canzone che ho ascoltato allo scoccare del 2018; gli rispondo con sincerità: "Non me lo ricordo" (ero annebbiato dai fumi dell'alcol; siamo finiti a danzare in un locale del centro di una città spagnola che è perfino patrimonio dell'Umanità "de cuyo nombre no quiero acordarme"....).

E allora provo ad applicare il giochetto alla prima canzone che ho ascoltato nel mio mp3 durante il primo giro in bicicletta: Bella Belinda, dell'intramontabile e immenso e instancabile Gianni Morandi... Che pezzo! Che allegria! Che accordi di base! Belinda che parla con l'insalata; le lacrime che scendono nella minestra; unica al mondo, scende le scale, come volando...Partiamo bene. Decisamente bene.

Primo romanzo letto: La figlia oscura (2006) di Elena Ferrante (cfr. sotto- non so se si è capito che mi è piaciuto moltissimo);

primo film visto al cinema: Wonder Wheel (2017) di Woody Allen (un nerissimo Woody, dal pessimismo più che leopardiano - forse ne riparlerò "su questi schermi"; un film duro, che, a mio giudizio, va visto in rapporto agli altri due gioielli della versione "dostoyevskijana" di Allen, ovvero, Crimini e misfatti, del 1989, e, ovviamente, lo straordinario Match Point, del 2005);

primo saggio: Dieci lezioni sui classici (2017) del bravissimo e sempre appassionante (e appassionato di letteratura) Prof. Piero Boitani (che ci aiuta a riscoprire tutta la bellezza di Omero, Saffo, Eschilo, Sofocle, Euripide, Pindaro, Tacito e tanti altri amici della nostra cultura);

prima serie televisiva: The Young Pope (2016) di Paolo Sorrentino: e in tal caso sì che ci spenderò due parole (in un futuro prossimo, spero) perché questa sì che è una bellissima serie, 10 ore di film in perfetto stile-Sorrentino (quanto si sarà divertito a girare con la complicità di 4 attori "mostruosi" come Silvio Orlando, Diane Keaton, Javier Cámara e, soprattutto e ovviamente, Jude Law? Quanto?).

E insomma, non possiamo lamentarci, anzi, possiamo dirci pienamente soddisfatti, e se l'annata continua di questi passi, allora sì, potremmo dirci davvero felici...


viernes, enero 05, 2018

Un romanzo sull'angoscia della maternità: La figlia oscura (2006), di Elena Ferrante



Scoperta per puro caso, molti anni fa, dopo la visione del film che Mario Martone trasse dal suo primo romanzo, Elena Ferrante riesce sempre a sorprendermi e a lasciarmi tramortito dopo la lettura. Se L'amore molesto  (1992) sconvolge per il modo originale, lirico e spiazzante con cui l'autrice narra il complicato rapporto della narratrice con sua madre e con la città di Napoli; se con I giorni dell'abbandono (2002), ti lascia letteralmente con il fiato sospeso per il modo che l'autrice ha di narrare la fase immediatamente successiva a una seperazione e, dipoi, al divorzio, ebbene, con La figlia oscura (2006) turba e spiazza il lettore per la maniera che ha di raccontare la maternità, ovvero, la costante e continua battaglia tra madri e figlie a partire da una trama apparentemente banalissima e, in realtà, profondamente strutturata e architettata affinché il lettore s'immerga in una feroce radiografia di come ci trasformiamo quando smettiamo di fare i "figli" e diventiamo a nostra volta "padri" e "madri", di come la genetica che trasmettiamo alla prole ci si rivolti contro come un virus incubato a nostra insaputa per anni, di come quel feto che la donna porta in grembo, una volta fuoriuscito al mondo esterno, può svilupparsi sotto forma di un essere umano che ci ripugna o ci assorbe e ci ammorba oltre i nostri limiti e la nostra stessa forza di volontà.

Leda è una professoressa universitaria di Letteratura Inglese che, dopo anni e anni di sacrifici, riesce a trovare una più o meno stabile situazione lavorativa che, comunque, non le ha permesso di digerire tutto il dolore e il senso di colpa nati dal divorzio da suo marito e dalla fase di separazione auto-inflitta durante la quale, per ben 3 anni, ha deciso di staccarsi letteralmente dalle figlie, di abbandonarle a sé stesse e al padre.

Per cercare riposo e pace interiore, Leda va in vacanza da sola in un paesino del Sud dove s'imbatterà in una tipica famiglia napoletana caratterizzata dal chiasso, dalle risate a crepapelle e un po' volgari, dalle mangiate in spiaggia, oltre che da legami familiari affatto nitidi, né scontati. In particolare, Leda stringerà amicizia con Nina, una ragazza poco più che ventenne, incinta e già madre di Elena, una bimba di 3 anni affezzionatissima a Nani, una bambola semicalva, brutta e dal corpo e il volto impiastricciati dalla biro che, nel corso della trama, andrà occupando una posizione sempre più centrale, convertendosi (quasi) in un simbolo di quei nodi oscuri, esistenziali che Leda non riesce a sciogliere (né nei confronti delle figlie, ormai maggiorenni ed emigrate in Canada col padre, né in quelli del suo passato di figlia ribelle e moglie che, in nome della propria indipendenza, ha mandato all'aria il matrimonio).

Attraverso una scrittura apparentemente semplice e piana, un lessico quotidiano apparenemente banale, Elena Ferrante va disegnando l'enigma attorno a cui ruota tutta la scrittura del romanzo con finali di capitolo ricchi di "suspense", riflessioni aforistiche che aprono gli occhi sulla morbosità a volte funesta che lega i genitori ai figli (e viceversa) e con un linguaggio ricco di metafore (soprattutto "liquide", o legate all'ambito acquatico) e di immagini liriche che non ti aspetti (soprattutto quelle legate alla graduale e inarrestabile antropomorfizzazione della bambola, un esserino che sembra quasi muoversi di vita propria).

Un romanzo duro che ti colpisce per la struttura narrativa, per la ricchezza degli echi che evoca, per il coraggio oserei dire "morale" che mostra l'autrice (ancora oggi chiusa e protetta nell'anonimato di quello che si suppone sia un "nome d'arte", a dispetto dell'enorme successo internazionale della tetralogia - che, a questo punto, non vedo l'ora di affrontare - intitolata L'amica geniale, e sviluppata dal 2011 al 2014) nel descrivere l' "Ingegneria [...] e insieme necessità furibonda della riproduzione" (cit., La figlia oscura, Roma, e/o, 2006, p. 34).

Non lo so se in Italia esistono scrittrici capaci di farcela così bene e con tale coraggio come Elena Ferrante...un'autrice che a volte mi ricorda Anna Maria Ortese e altre volte Elsa Morante(e chissà che, in quest'ultimo caso, la rima assonante tra i due cognomi non sia affatto casuale).

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...