miércoles, diciembre 12, 2018

La fragilità dei corpi



Siamo deboli e mortali, questo lo si sa; basta poco a ferirci, a trapassare il sottile velo della pelle che riveste i muscoli e i tendini, le ossa e le cartilagini. La spina di una rosa, un ago che cade per terra, uno spillo, perfino un foglio di carta (se lo si sfiora dal verso sbagliato) sono sufficienti a fiaccarci la pelle e a permettere la fuoriuscita anche di quantità ingenti di sangue.

Siamo deboli, mortali e preda di malattie. Basta andare all'ospedale e vedere lo spettacolo che ci si presenta davanti (e non mi riferisco soltanto alla sala d'attesa, dove l'ansia si respira e si taglia col coltello, ma anche alla sala chirurgica). Indossare la vestaglia azzurra (o verde) al contrario (per cui schiena e natiche restano allo scoperto e al freddo) è già di per sé un'azione che ci mette a nudo e che mette a nudo la nostra impotenza e fragilità, che ci fa sentire ridicoli e inermi. Indossare, inoltre, la cuffietta (fatta di un sottilissimo strato di carta, quasi trasparente) ne è la riprova (e allora sì che ci si sente totalmente spiazzati: dottore, faccia di me e del mio corpo ciò che vuole, faccia come vuole, ma mi salvi).

Siamo deboli, mortali, prede di malattie e sempre bisognosi dell'aiuto degli altri. Perché senza gli altri siamo persi, perfino quando l'altro è un perfetto sconosciuto, come quest'infermiera che mi chiede di togliermi tutto ciò che di metallico indosso (le monete sono dentro la tasca dei pantaloni; la cintura di cuoio con la fibbia di ferro giace a terra accanto alle scape; il cellulare è dentro la tasca del giaccone; cos'altro potrei mai indossare di materiale metallico? La fede...mi fa, con tono sommesso, quasi vergognandosi...la fedina...è vero!, esclamo a voce fin troppo alta, trattandosi di una sala chirurgica, e mi sfilo il simbolo d'amore eterno per riporlo su un piano di ferro impoluto su cui sono predisposti gli attrezzi del mestiere, mestoli e pentole, garze e bisturi, ferri di ogni forma dall'uso a me ignoto).

Senza gli altri siamo ancora più deboli e inermi e impotenti, ed è per questo che mi fa tenerezza l'anziana signora che mugola di dolore accudita dalla figlia: "Che c'è mamma? Che vuoi? Hai freddo?". E la figlia si avvicina al volto della madre e le carezza la fronte con una tenerezza e un tatto, una dolcezza e una malinconia, una saggezza ancestrale che mi fanno venire voglia di piangere. Questo è amore. Non ci sono dubbi. E la donna malata continua a lamentarsi e la figlia continua a cullarla con le sue parole di rassicurazione: "Dopo andiamo a farci un altro giro in macchina, ti va?", le chiede e lei allora si calma e fa di sì, dice "sì" e le sorride, e il volto della figlia s'illumina - per un istante - della gioia che esprime istantaneo il volto della madre.

 Il pane perduto di Edith Bruck Pubblicato nel 2021, questo libro potrebbe assumere un valore etico ancora più dirompente se ne immaginassi...