jueves, diciembre 31, 2020

 Propositi per il 31 di Dicembre


L'idea era questa: staccare da tutto e da tutti e guardare i seguenti film:


1 - Nymph(o)maniac (2013), di Lars von Trier;

2 - Mi chiamo Francesco Totti (2020), di Alex Infascelli;

3 - The Hateful Eight (2015), di Quentin Tarantino;

4 - Nessuno siamo perfetti (2015), di Giancarlo Soldi;

5 - Le avventure del Barone di Munchausen (1989), di Terry Gilliam.


E l'idea era anche leggere tutti i libri di John Berger, oltre a Basilisco (2020) di Jon Bilbao e le poesie di Ida Vitale (Premio Cervantes del 2018)...


Purtroppo, gli impegni familiari e quelli professionali, per ora, ad oggi, mi hanno concesso di vedere solo il film di e su Totti (c'è solo un capitano...). Ho pianto e mi sono emozionato come un bambino. Un film bello e fatto bene. Un film che commuove anche chi non ne sa nulla di calcio o non è tifoso della Roma.


Speriamo di rimediare subito. John Berger, intanto, l'ho letto a spizzichi e bocconi e mi ha già conquistato.


E che davvero l'anno nuovo possa regalarci un minimo di tranquillità e di tregua.

jueves, diciembre 24, 2020

 

Vigilia di Natale del 2020


È il 24 di Dicembre, stasera si festeggia la Vigilia di Natale, ma non è come sempre: si resta in Spagna; lontani dall’Italia per colpa di un virus che ha fatto (e continua a fare) strage. Ci siamo già videochiamati alle 9 del mattino; e torneremo a farlo a breve, prima del cenone (il Governo qui ha stabilito che si possono riunire fino a 10 persone appartenenti a 3 diversi nuclei familiari, rispettando sempre la distanza e con l’obbligo della mascherina; in Italia, mi pare che il numero massimo consentito siano 6 e tutti dello stesso nucleo familiare, o sbaglio? Chi mi avvisa? Chi mi aggiorna?).

 

Stanotte ho sognato l’Apocalisse: non è la prima volta che mi capita, anzi, in Italia mi succedeva spesso, come se si trattasse di un sogno ricorrente. Mi trovavo all’interno di un ospedale e crollava tutto; io ero un medico o un infermiere e provavo a scappare verso l’uscita saltando sopra corpi di cadaveri, bambini urlanti, donne incinte con la flebo al braccio e anziani dallo sguardo impietrito dal terrore del terremoto.

 

L’ho raccontato subito alla mia compagna di avventure: “Come nei film che tanto ti piacciono”, risponde sorniona e pensado subito a preparare la colazione alla prole.

 

Se ripenso a questo mese di Dicembre che sta per concludersi sorrido: nell’arco di 2 giorni sono finito sui giornali di Spagna e d’Italia per due diversi motivi; nel primo caso, per il “diario.es”, il mio nome è apparso per un’intervista che feci a uno scrittore spagnolo abbastanza noto che avrebbe dovuto venire nella città del Sud del Sud in cui vivo per presentare il suo ultimo romanzo; è un’intervista a distanza, fatta tramite email, e risale al 12 marzo: il giorno dopo, il Presidente Pedro Sánchez decide di attivare la zona rossa su tutto il territorio nazionale e il lock-down generale, come da noi. A rileggerla, quest’intervista sembra appartenere a un’altra epoca: il tenore delle mie domande, e quello delle risposte dell’intervistato, fa sorridere, fa quasi tenerezza, se uno pensa che di lì a poco sarebbe scoppiata una pandemia globale che avrebbe mietuto milioni di vittime in tutto il Mondo.

Nel secondo quotidiano, La Nazione, il mio nome è apparso nella pagina della cronaca locale di Siena perché un gruppo di colleghe di Lingua e Letteratura Spagnola si è ingegnata nel promuovere i contatti anche senza Erasmus e senza gite: sono stato uno dei Professori invitati a parlare in un ciclo di lezioni a distanza e in videoconferenza con gli alunni delle terze e quarte classi di un Liceo Linguistico della zona. Ho parlato loro del Quijote al cinema e, in particolare, della versione di Orson Welles del capolavoro di Cervantes. È stata davvero una bella esperienza; è stato davvero bello tornare a parlare di Letteratura Spagnola (e in spagnolo) agli studenti toscani, quando erano passati anni, ormai, dalle mie ultime lezioni tenute tra Pisa e Firenze, tra Empoli e San Gimignano, tra Roma e Monterotondo…

 

E così, penso che non dovrei né posso lamentarmi per come mi ha trattato questo 2020; e che questo Dicembre è stato ricco di esperienze positive. Nonostante il covid. Nonostante tutto. Nonostante questa tremenda nostaglia della mia terra e dei miei amici e dei miei familiari, nostaglia che quella lezione ha attenuato, anche se non cancellato.

 

Auguri.

domingo, diciembre 06, 2020

 Ieri notte, per esempio


Ieri notte, per esempio, mi è capitato di salire in terrazza alle 23:32; un'ora inconsueta, ma dovevo salirci, per stendere i panni rimasti in lavatrice dalle 17:00 del pomeriggio. E così, approfittando del sonno della prole, sopraggiunto dopo ninne nanne varie, carezze e coccole a più non posso ed altri trucchi consimili che ogni padre e ogni madre conosce a memoria, sono andato su a finire il mio dovere di marito responsabile e mi sono messo a stendere i panni (i nostri e i loro, quelli minuscoli della prole, noiosissimi quando si tratta di stenderli, richiedono una quantità industriale di mollette, oltre che una biblica dose di pazienza) e mi sono messo a contemplare il paesaggio notturno circostante (novello Leopardi: oh, tu, luna in ciel, etc.).

La luna era piena e illuminava il tutto con una potenza da molti watt (si può applicare questa unità di misura alla luce che produce la luna quand'è al massimo del suo splendore? Ai posteri l'ardua sententia...).

Fatto sta che si vedeva bene tutto; anche il palazzo di fronte, dove, all'ultimo piano, l'ultimo appartamento mostrava un'accoppiata cromatica piuttosto curiosa: se da un lato (il sinistro) una stanza era illuminata con le luci bianche di un neon e lasciava intravedere dalle finestre la sagoma di una donna intenta a stirare (sì, a stirare: allora non solo l'unico a fare i lavori di casa nelle ore più improbabili ed improponibili), dall'altro (il destro) quella che deduco fosse la camera da letto presentava un'illuminazione diffusa di colore rosso acceso, come fosse la camera di un alberghetto a ore o un postribolo a luci rosse da quattro soldi. 

E la domanda è sorta spontanea: chi ci stava lì dentro? Il marito della donna intenta a stirare? O nessuno? E perché proprio quel colore così particolare? Perché quel rosso acceso dai vaghi connotati sessuali?

Certo è che il contrasto luce a neon (bianca) e luce rossa (accesa) era notevole e dava da pensare...

Quando sono tornato giù, mi sono chiesto cosa potrebbe mai avvistare della mia il vicino della casa di fronte (e subito torna in mente il mitico James Stewart della Finestra sul cortile di hitchcockiana memoria, costretto sulla sedia a rotelle, immobilizzato per un incidente alle gambe e alla schiena e, proprio per questo, vispo e attentissimo a sfruttare il binocolo che porta in grembo).

Poi il pianto di un membro della prole mi ha riporato tristemente con i piedi per terra e dall'elemento visivo la mia attenzione si è spostata su quello sonoro: quanto disturbo staremo arrecando ai nostri vicini, agli abitanti di questo palazzo, a causa delle strilla e dei pianti dei nostro pargoli? Quante bestemmie e maledizioni ci avranno già inviato?

La luna. Quand'è sveglia, quando è in procinto d'addormentarsi, la prole si diverte a spiare la luna in cielo. Si mettono tutte e due in piedi, dritte sul sofà e scostano la tenda per vedere la "nuna" (così la chiama una delle due, storpiandone il nome corretto). E mi fa un certo effetto vedere con quanta passione due creaturelle s'ingegnano e s'impegnano a cercare la palla bianca luminosa che gira attorno al nostro pianeta. E mi fa ben sperare. E mi fa pensare che quando saranno grandi non avranno dimenticato la lezione che insegnerà loro (credo e spero) la poetica ricerca della luna nel cielo notturno. E che sorrisi quando la scovano! Che allegria! Che contentezza! Sembra quasi che abbiano fatto la scoperta dell'America.

sábado, diciembre 05, 2020

 Into the night (1985) di John Landis e After Hour (1985) di Martin Scorsese: due film allo specchio (e speculari)


L'altra notte, in preda all'insonnia e per passare il tempo, mi sono messo a riguardare After Hour (noto in italiano col titolo alla Enrico Ghezzi Fuori orario), un vecchio film degli anni 80 di Martin Scorsese. Si tratta di uno di quei film che mi ha sempre colpito perché girato con una libertà creativa, un'inventiva, un ritmo accelerato davvero notevoli. Si nota immediatamente che quando il regista italoamericano si mise a lavorare su questo progetto aveva l'urgenza di dire qualcosa, di sfogarsi, di utilizzare il cinema per conoscersi meglio (cosa che aveva già fatto nel 1980 con Toro scatenato (Raging Bull, il titolo originale) e che ha rifatto, ultimamente, con quel capolavoro dissacrante e spettacolare che è The Wolf of Wall Street, del 2013, con un Leonardo Di Caprio da Oscar).

Ma di che parla, esattamente, After Hour? E perché mi piace così tanto?


Diciamo che parla di un uomo qualunque (Griffin Dunn, in foto) che, dopo una giornata di faticaccia a lavorare in ufficio, decide di andare a bere qualcosa in un pub di Soho e che, dopo aver scambiato quattro chiacchiere con una bella fanciulla (Rosanna Arquette), non riuscirà più a tornare a casa. La ragazza lo invoglierà ad andarla a trovare in casa di un'amica scultrice e da lì in poi il film narrerà la sarabanda assurda e grottesca d'intoppi e di incidenti cui dovrà andare incontro questo novello Ulisse prima di tornare nella sua Itaca (sotto forma di scultura imballata e spedita direttamente nel suo ufficio il mattino dopo).


È ovvio che Scorsese prosegue quel discorso sulla violenza, sui rapporti umani, su New York e sull'America in generale che aveva già intrapreso con Taxi Driver (1976); è ovvio pure che con questo film, a bassissimo budget e girato in poche settimane, Scorsese vuole tentare la strada dell'insolito, della sperimentazione, del discorso d'autore sulla società contemporanea. Ma se c'è qualcosa che, secondo me, spicca all'intero del tutto è il modo in cui questo povero Cristo si vede costretto a fare i conti con il sesso (e con l'altro sesso). Non c'è donna che gli si avvicini che non sarà destinata a turbarne la mente, a scombussolare i suoi piani, a sconvorgergli il desiderio di tornare a casa. Questo fotogramma la dice lunga sul "perturbante" freudiano che Scorsese va dipanando all'interno del film:



Se all'attore Griffin Dunn sostituite la faccia di Robert De Niro o di Tom Cruise, ecco, otterremmo lo stesso risultato: un uomo spaesato che teme la castrazione o che, guardandosi allo specchio, finisce con il contemplare un disegnino osceno che sembra parlare proprio di lui e della sua difficoltà a comunicare con le donne (sia a livello verbale che sul piano corporale). Ecco, ci sono dei momenti, nel corso della lunga nottata (o nottataccia) di questo povero Cristo che mi hanno evocato alcune scene di Eyes Wide Shut, dove, appunto, Tom Cruise, il dottore protagonista che Stanley Kubrick resuscita dal Doppio Sogno di Schnitlzer, si vede costretto a cozzare e a scontrarsi con varie donne che incarnano il suo Desiderio di Trasgressione e, al contempo, la sua Condanna alla Castrazione (gioco con le maiuscole, ovviamente, ma i richiami sono tanti: anche il protagonista di After Hour, esattamente come quello di Eyes Wide Shut, viene minacciato di morte; entrambi vivono la realtà come fosse un incubo - o come se la realtà si svolgesse su un piano onirico - i finali dei due film fanno anch'essi rima tra di loro).



Poi da Martin Scorsese sono passato a John Landis. Sì, perché guarda tu il caso, anche lui gira un film su un uomo qualunque costretto a vivere una notte d'incubo a causa dell'incontro fortuito con una bella ragazza: mi riferisco, ovviamente, a Into the Night (tradotto in italiano con Tutto in una notte), che è anch'esso del 1985 (si sono messi d'accordo? Non credo; né so in che rapporti siano Scorsese e Landis; di sicuro la casualità è abbastanza sorprendente).

E di che parla Into the Night? E, soprattutto, perché, in questa seconda visione (notturna, ovviamente) non mi è piaciuto tanto quanto la prima volta che lo vidi diciottenne (diciamo pure che non è piaciuto più)?



Diciamo che Into the Night parla di un uomo qualunque (un ingegnere aerospaziale, interpretato da Jeff Goldblum) che soffre d'insonnia e la cui moglie lo tradisce con un altro. L'ingegnere decide di seguire il consiglio di un amico: quando non riesci proprio a chiuedere occhio, vai in macchina all'aeroporto, prendi il primo volo per Los Angeles e vatti a divertire ai casinò (lì ci sono le donnine disposte a tutto, purché paghi). Il povero Cristo accetta il consiglio e, a partire dall'incontro fortuito con una bella ragazza che scappa da un gruppo di terroristi islamici (o presunti tali), sarà costretto a vivere un vero e proprio incubo ad occhi aperti. La bella ragazza fa rima con la Rosanna Arquette del film di Scorsese: mi riferisco, ovviamente, alla stupenda (e qui giovanissima) Michelle Pfeiffer:



Inutile dire che quest'incontro metterà in crisi il povero Cristo che, attratto dalla ragazza, proverà a farsi valere contro i nemici che la perseguitano e la rincorrono (tra cui David Bowie, uno dei tanti vip che appaiono in diversi cammei all'interno del film), e proverà a dimostrare il proprio coraggio da "macho", nonostante i suoi limiti e il proprio codice morale (la ragazza fugge dagli arabi perché ha sottratto loro - tramite un socio - sei smeraldi dal valore inestimabile).



Di nuovo, la notte (e il buio) saranno un elemento fondamentale del paesaggio sia fisico che mentale del film; di nuovo, i complessi di un uomo in crisi nei confronti del sesso e delle figure femminili diventerà parte importante della trama, come si può evincere da questo bel fotogramma intriso di desiderio e di voyeurismo:



Se nel caso di supra c'è un uomo che contempla preoccupato il disegnino sconcio di uno squalo coi denti aguzzi che sta per estirpare il pene di un omino stilizzato, qui abbiamo a che fare con il lato B della statuaria Michelle Pfeiffer mentre si spoglia in camera del fratello (un patito di Elvis Presley) prima di farsi una doccia: il "recadrage" non fa che amplificare il desiderio dello spettatore di poter sbirciare ancora meglio quel corpo femminile allettante e di poter entrare in camera da letto...ma non può, soprattutto perché il personaggio interpretato da Goldblum non se la sente o lo considera sbagliato (o scorretto dal punto di vista morale).

Ma perché, dunque, a mio modesto parere, questo film non ha la stessa carica di After Hour? Bene, procediamo per ordine e cominciano col dire che, forse, John Landis non avvertiva la stessa urgenza di "raccontare" di Scorsese quando girò questa commedia nera o pseudo-romantica. Non si nota, insomma, quella spinta creativa che c'è nel primo film. In secondo luogo, Into the Night pecca di lentezza: sembra quasi che John Landis giri in modo volutamente statico (o lento) rispetto ad altri suoi capolavori come, per citarne uno, The Blues Brothers (che è del 1980, ovvero, dello stesso anno di Toro Scatenato). Perfino i pochi inseguimenti in macchina che ci sono in questo film sembrano girati al rallenti, rispetto al film precedente. E quando si arriva alle scene più potenzialmente ricche di suspense, la suspense si sgonfia in un attimo (cfr. la scena in cui Goldblum entra nella camera d'albergo della ragazza e scopre i cadaveri sparsi sul pavimento).



After Hour finisce, come accennato sopra, nello stesso ufficio da cui parte tutto, da cui il nostro povero uomo qualunque esce per andarsi a fare una birra in santa pace; solo che questo stesso povero Cristo ora ci appare sotto forma di scultura umana (e invito tutti a guardare il film per capire come diavolo ci finisce a vivere in un corpo da statua surrealista); Into the Night finisce con un tipico happy ending all'americana: lui salva lei, lei ama lui, lui e lei partono in viaggio con il malloppo con il primo volo disponibile.

Anche solo osservando attentamente questi due finali si può intuire perché Scorsese è un regista che ha usato la macchina da presa per scoprire qualcosa di nuovo (su di sè, sul suo mondo, sull'essere umano, in generale) e perché, al contrario, John Landis l'ha usata per farsi un giretto notturno per le strade di Hollywood (tra cattivi che non fanno mai paura e donzelle che solo dopo tanti ostacoli riconoscono che quello che hanno accanto è un cavaliere che merita la loro attenzione e il loro amore).

Tratto in comune tra i due: la notte, intesa in quanto momento del giorno in cui i pericoli assumono connotazioni (anche) sessuali e non sono le protagoniste femminili ad avere paura del lupo, ma quelli maschili a vedere le donne come lupi pericolosi o che portano sulla cattiva strada.


The End*** Fine***Fin

miércoles, diciembre 02, 2020

 2 Dicembre 2020 (quasi 3)


Su Rai1, alle 23:05, emettono un omaggio a Gigi Proietti che s'intitola "Gigi che spettacolo!". Bastano 2 minuti per capire che sì, che in effetti Gigi Proietti era un genio, sul palco. Intanto, la prole dorme (miracolo? Fino a quando?). Mia cognata, in pigiama, mi si avvicina per augurarmi la buonanotte e chiedermi a che ora le conviene mettere la sveglia se non vuole intralciare le operazioni mattutine dei genitori alle prese con i bimbi che vanno all'asilo. 
"Direi le 7:15; ti va bene?". Mi sorride. Certo. Non c'è problema. Lei è una abituata a fare le levatacce. Domani deve andare a Madrid per un concorso. A Madrid? Ma non è sconsigliato viaggiare a Madrid? Non c'è il confinamento perimetrale? (come in Italia, anche qui in Spagna non si può andare liberamente da un comune all'altro senza autorizzazione e conseguente autocertificazione). Mi dice che il concorso si espleterà in uno stadio. La vita è piena di misteri.

Intanto, penso che domani è il 3 (manca un'oretta affinché il numero 3 faccia il suo ingresso ufficiale sul calendario: dicembre; mancano 21 giorni al cenone della vigilia; ma che Natale sarà il Natale col virus? Ce lo domandiamo tutti, ma nessuno sa la risposta). E che entro il 15 dovrò consegnare l'ennesimo articolo per una rivista scientifica di quelle importanti, che contano, che selezionano solo i pezzi migliori e gli autori più seri. Tremolo alla sola idea di vedere quel numero sull'agenda, cerchiato in rosso, sottolineato con l'evidenziatore giallo.

Intanto, penso che oggi, 2 di dicembre del 2020, è stata una bella giornata: non mi riferisco solo al tempo e alle condizioni meteorologiche, ma alle scoperte fatte, quasi per caso, quasi senza volere.

Una collega veneziana mi manda un suo articolo su Héctor Abad Faciolince: mi basta leggere le prime pagine del testo per innamorarmi di quest'autore di cui, fino a ieri, non sapevo nulla, non ne sospettavo nemmeno l'esistenza. E, invece, il modo in cui questa collega veneziana ne parla (una dama, una donna elegantissima) mi spinge subito a volerne leggere le opere più importanti, a partire da El olvido que seremos (tradotto in Italia da Einaudi: L'oblio che saremo, apparso nel 2009) al diario, intitolato Lo que fue presente (mai apparso in italiano: Ciò che fu presente) e appena uscito in Spagna per Alfaguara.

Sono talmente ipnotizzato dal ragionamento della collega veneziana, talmente travolto dalla trama di questi testi, che ho bisogno di alzarmi dal divano per prendere una boccata d'aria sul balcone e respirare con calma.

Com'è possibile innamorarsi di uno scrittore in modo così diretto, assurdo ed improvviso?

Si parla di un padre, un medico e professore umile e amante della libertà e della dignità umana, ucciso a tradimento a Medellín nel 1987. Si parla del lutto e del tentativo di elaborarlo da parte di un figlio che non sa come reagire. Si parla dei primi gesti di fronte al cadavere ancora caldo e impregnato nel sangue: la moglie gli sfila la fede dal dito; il figlio mette le mani nelle tasche e s'imbatte in alcuni fogli e, tra questi, in una poesia di Borges (da cui poi trarrà il titolo per il libro che dedicherà proprio al padre morto) Si parla di letteratura, di ricordo, di memoria e di scrittura come tentativo di venire a patti con i demoni del passato e del presente. Si parla di dolore e di depressione. Di angoscia e di rabbia. Dell'uomo e dell'essere umano in generale. Di quant'è difficile e duro restare in vita e al mondo quando l'ingiustizia prevale sulla giustizia, l'odio sull'amore, l'indifferenza sulla passione e il compromesso sociale e civile.

Poi mi chiamano da Roma: ma chi può essere? È l'editore intenzionato a pubblicare la traduzione: dopo mesi di silenzio, si fa sentire e mi parla con un tono peculiare, una voce proprio da intellettaule di sinistra degli anni 70. Parla con lentezza, ma una lentezza tale da sembrare quasi una presa in giro (è tutta una messinscena? Mi sta prendendo per il naso?). Parliamo delle fasi da seguire a partire da ora: l'impaginazione; la correzione dei refusi; la scelta dell'immagine per la copertina; i peer review; i diritti d'autore; la foto mia e dell'autore da mandare in quarta di copertina; le eventuali presentazioni in Italia e in Spagna. Parliamo un'ora circa al telefono; l'editore è lento, lentissimo, ma spiega con chiarezza i miei diritti e i miei doveri e, in parallelo, i suoi e quelli della sua casa editrice. Scopro uno scrittore colombiano grazie a una collega veneziana che mi scrive dall'Italia e, stando in Spagna, riesco finalmente a concludere una trattativa con un editore che mi chiama da Roma e che, col mio impegno da traduttore e la sua decisione sovrana, permetterà al pubblico dei lettori italiani di scoprire uno scrittore spagnolo che vive vicino alla città del Sud del Sud della Spagna in cui vivo e lavoro (e amo).

Quanti cambiamenti repentini tutti in un solo giorno. Quanti alti e bassi. Quante curve pericolose. Quanti entusiasmi e angosce assurde, quanti patemi d'animo e spinte a fare sempre meglio.

Domani è il 3 di dicembre. Sono le 23:35. Mezz'ora per scrivere tutto ciò? Il tempo è relativo. Lo sappiamo.


domingo, noviembre 22, 2020

Spade




Ci risiamo. Il problema è sempre quello: il tempo. Quando trovare il tempo (ma aggiungerei anche: lo spazio) per portare a termine 2 articoli che mi hanno chiesto da più di 3 mesi; l'uno su Luis Cernuda (uno dei miei poeti preferiti di sempre, insieme a T. S. Eliot e P. P. Pasolini), l'altro su un argomento a piacere (e, ovviamente, quando ti lasciano spazio per poter scrivere su ciò che più t'appassiona, ecco che arriva il blocco, lo stallo della scrittura: l'idea sarebbe quella d'illuminare almeno un po' l'annosa questione dei rapporti tra "parole e immagini" a partire dalla narrativa spagnola più recente; per dire: tentare di rispondere alla domanda: "Che ci fanno le immagini nei romanzi?" - per "immagini" non intendo soltanto le fotografie, ma anche i ritagli di giornale, documenti d'epoca, cartine, mappe, etc.; ma anche riferimenti ad opere d'arte vere e/o inventate; a quadri, a sculture, etc.).


E così, mentre più d'un collega finisce in quarantena preventiva e domiciliare (troppi i nostri studenti che se ne fregano del virus e della distanza sociale; troppi quelli che, appena fuori dall'aula, si abbassano la mascherina), cerco di fare il punto della situazione, mentre la prole mette a soqquadro la casa e c'è chi suona il piano e chi sbatte le pentole sul pavimento (poveracci quelli che ci abitano sotto!).


Non ricordo più se fu Enrique Vila-Matas o un altro a dire che lo scrittore deve (sempre) essere figlio, non può (non dovrebbe) mai essere padre, perché i figli rubano il tempo alla scrittura; poi penso a Sandro Veronesi (padre di 5 figli, se non ricordo male) e capisco che non è un'equazione matematica, anzi: lui scrive anche quando è circondato da figli che fanno rumore (così - mi par di ricordare - disse o scrisse da qualche parte).


Figli o non figli, io non sono uno scrittore (anche se, ovviamente, per il lavoro che svolgo, pubblico da anni e ho tradotto libri di altri; questo blog non conta, è puro "divertissement") e, però, capisco bene quei genitori che dicono d'impazzire quando i figli ti assorbono troppo; è davvero inenarrabile il modo in cui i figli, soprattutto quando sono ancora bambini, ci portano via il tempo, lo spazio e l'energia (un lavoro faticosissimo che sì, è vero, è ovvio, è certo, apporta anche tante enormi e bellissime soddisfazioni, ma, ragazzi, quanto sudore anche, quanta fatica!).


Poi penso ad un altro approccio: le scene con la spada. Mi viene in mente la famosa interruzione tra il cap. 8 e il cap. 9 della Iª Parte del Quijote, quando, appunto, Don Quijote è sul punto di scagliare la sua spada sul bilbaino e cosa succede? S'interrompe la storia, perché - afferma il narratore esterno - il manoscritto finisce proprio lì, sul più bello (Nabokov parla di uno "splendido fermo immagine"). Bisognerà leggere l'incipit del 9 capitolo per capire cosa è davvero successo a quel manoscritto e scoprire come, grazie a un enorme colpo di fortuna e a uno scherzo del destino, Cervantes (che non è il "padre", bensì il "padrastro" o il "padrino" dell'opera) s'imbatterà proprio nel manoscritto interretto all'altezza del famoso duello, e potrà così continuare a leggere come finisce la scontro, dove vanno a finire quelle due spade levate in aria con violenza...previa traduzione di un ragazzo arabo che lo stesso Cervantes paga e fa accomodare in casa sua affinché traduca, perché il manoscritto (del famoso storico Cide Hamete Benengeli) è scritto in lingua araba...


E allora mi viene in mente l'altra scena di una spada levata in aria: quella che si svolge all'interno di un bagno per disabili di una discoteca di Londra nella IIª parte di Tu rostro mañana ("Il tuo volto domani") di Javier Marías: anche lì c'è suspense, anche lì una tensione enorme: Bertram Tupra ucciderà o no il povero malcapitato che sta intralciando il suo lavoro di spia? (consiglio ai lettori italiani: comprate "Il tuo volto domani" e leggetene tutto).


E allora mi viene in mente la scena del duello sulla spiaggia tra uno dei personaggi di 2666 di Roberto Bolaño e un critico letterario (alter ego di Ignacio Echeverría, amico e curatore delle opere postume del grande scrittore cileno). Anche lì c'è di mezzo una spada, o forse due, ci si sfida a duello come se si vivesse ancora nel Medioevo... Ecco: dovrei andarmi a ricercare quella scena e dovrei rileggermela, per capire se c'è anche qui un velato omaggio o riferimento a Cervantes...E poi fare il salto all'indietro, la capriola ermeneutica decisiva per scoprire che, prima del Manco di Lepanto, c'è stato Ludovico Ariosto (che Cervantes amava e leggeva tra i suoi autori preferiti di sempre), il quale, nell'Orlando Furioso, chissà quante volte utilizza il trucchetto delle spade levate in aria e sul punto di scontrarsi tra di loro, di fare letteralmente le scintille, per poi interrompere tutto, perché finisce il canto e bisognerà andare subito a leggersi il capitolo successivo per vedere come narrazione prosegue...nella prossima puntata. 


Riuscirò a trovare il tempo (e lo spazio) giusto per questi scandagli? Ai posteri l'ardua sententia.

viernes, noviembre 06, 2020

 

Carlo Rovelli e Antonio Moresco (con Italo Calvino sullo sfondo)



Nel Sud del Sud della Spagna in cui vivo da ormai quasi 10 anni c’è un amico fisico che si occupa di Metamatematica con cui mi diletto a discettare dei Massimi Sistemi. L’ultima volta che ci siamo visti, dopo il lockdown generale (e totale) che ha messo in ginocchio il Pianeta, siamo andati a farci una pizza nella nostra pizzeria preferita (gestita da italiani – da Napoli a Torino, passando per Roma: tutti bravissimi e gentilissimi – un vero lusso per chi sente la nostaglia della cucina nostrana) e ci siamo messi a chiacchierare delle due sonde spaziali “Voyager 1” e “Voyager 2” mandate oltre i confini del Sistema Solare dai tipi della NASA il 5 settembre del 1977, ovvero, 3 giorni prima che io venissi al mondo e vedessi la luce.

Ovviamente, il mio amico fisico ne sapeva più di me: mi ha spiegato a che velocità viaggiano queste due sonde spaziali; come funziona il concetto di velocità (e di anni luce) quando si sfonda il tetto del Sistema Solare e si entra nello Spazio Interstellare; e – soprattutto – mi ha raccontato del disco d’oro che è stato “caricato” sulle sonde e su cui gli ingegneri aerospaziali della NASA hanno registrato immagini (fotografie e disegni), musica e suoni (naturali e artificiali) per lanciare un messaggio di pace agli eventuali alieni che dovessero imbattersi in queste due navicelle intergalattiche…

Ecco: questa storia del “messaggio lanciato in una bottiglia”, ovvero, del disco d’oro costruito ad uso e consumo di eventuali altri esseri viventi (oltrechè intelligenti) sparsi per le Galassie (di cui nemmeno conosciamo l’esistenza o di cui non possiamo nemmeno sospettare la natura e l’origine, la configurazione fisica e le caratteristiche materiali) mi ha colpito davvero molto, mi ha lasciato a bocca aperta e mi ha spinto (inevitabilmente) a fare ricerche in materia (io che sono di Lettere).

Poi, all’improvviso, m’imbatto in un altro fisico, evidentemente più famoso del mio amico esperto di linguaggio metamatematico: accade una sera, dopo il Tg, quando Carlo Rovelli presenta da Fabio Fazio il suo ultimo saggio, Helgoland (Milano, Adelphi, 2020) che, pur non vertendo affatto sulla “Voyager 1” né sulla “Voyager 2”, m'intriga al punto da ordinarlo su internet e farmelo recapitare a casa.

Ed ecco la sorpresa nel leggere il saggio (sulla “meccanica quantistica”, ovvero, su quella parte della fisica che si occupa di studiare l’infinitamente piccolo, i neutrini e i buchi neri): Carlo Rovelli mi ricorda Antonio Moresco nei suoi momenti più algidi e geniali, quando lascia galoppare la propria immaginazione al di là dei concetti (e delle categorie kantiane) dello “spazio” e del “tempo”. Incredibile! (esclamo da solo). Un fisico che si esprime come un romanziere! Ma com’è possibile?


Vediamo un primo esempio:


“Pensiamo il mondo in termini di oggetti, cose, entità […]: un fotone, un gatto, un sasso, un orologio, un albero, un ragazzo, un paese, un arcobaleno, un pianeta, un ammasso di galassie… Questi oggetti non stanno ciascuno in sdegnosa solitudine. Al contrario, non fanno che agire uno sull’altro. È a queste interazioni che dobbiamo guardare per comprendere la natura, non gli oggetti isolati. Un gatto ascolta il ticchettio dell’orologio; un ragazzo lancia un sasso; il sasso sposta l’aria dove vola, colpisce un altro sasso e lo muove, preme sul terreno dove si posa; un albero assorbe energia dai raggi del sole, produce l’ossigeno che respirano gli abitanti del paese mentre osservano le stelle e le stelle corrono nella galassia trascinate dalla gravità di altre stelle… Il mondo che osserviamo è un continuo interagire. È una fitta rete di interazioni” (id., p. 84).

 

Non sembra, oltre che Antonio Moresco, l’Italo Calvino delle famosissime Lezioni americane? Non è un bellissimo esempio di prosa poetica in cui la “leggerezza”si unisce all’ “esattezza” e alla “molteplicità” (come tutti ricorderanno, si tratta di 3 delle 6 “proposte per il prossimo millennio” che Calvino elaborò in quelle famose lezioni americane che poi divennero un libro).


Ma andiamo avanti: a p. 161 si legge la seguente riflessione (a metà tra la metafisica e la letteratura):

 

“La convinzione su cui questo libro si appoggia [e Carlo Rovelli ci tiene a spiegare che senza una “convinzione” forte non si può fare fisica, né matematica, né alcuna scoperta scientifica degna di questo nome] è che noi creature umane siamo parte della natura. Siamo un caso particolare fra tanti fenomeni naturali, nessuno dei quali sfugge alle grandi leggi naturali che conosciamo. Ma chi non si è mai chiesto: “Se il mondo è fatto di semplice materia, particelle in moto nello spazio, come è possibile che esistano i miei pensieri, le mie percezioni, la mia soggettività, il valore, la bellezza, il significato?”. Come fa la “semplice materia” a produrre colori, emozioni, la sensazione viva e bruciante che ho di esistere? Come fa a conoscere e imparare, commuoversi, meravigliarsi, leggere un libro, e arrivare a chiedersi come funziona la materia stessa?”.

 

Ecco: qui riecheggia, di nuovo, la prosa iperbolica e lirica, commossa e commovente, di Antonio Moresco. E io non lo so (né lo posso sapere né, probabilmente, arriverò mai a saperlo) se Carlo Rovelli abbia letto i romanzi di Moresco, ma – per Bacco! – è evidente, è chiarissimo che qui chi si pone questo tipo di domande somiglia in modo strabiliante ai vari narratori che (ci) raccontano (stupiti e dantescamente impossibilitati a dire tutto) i vari Canti del caos (o Gli Esordi, o gli ineffabili Gli increati – che poi, come sanno benissimo i fan di Moresco, costituiscono la famosa trilogia che l’autore stesso ha ribattezzato L’increato, termine che, diciamolo pure, sembra piuttosto vicino al campo semantico delle teorie quantistiche e alle ipotesi che la “meccanica quantistica” continua a porre sul tavolo della ricerca scientifica più estrema ed avanzata). 


Ma potremmo anche ribaltare il punto di vista: dopo aver letto Helgoland, uno si rende conto che in queste opere Moresco assume, dunque, i panni del fisico quantistico, di quello scienziato che s’interroga senza sosta (e senza trovare ancora risposte plausibili) attorno agli enigmi che ci rendono umani, quei misteri che, da sempre, rendono “filosofo” l’uomo (Aristotele ce lo ricorda da sempre: è la “meraviglia” e la “curiosità” a provocare la spinta dell’essere umano verso la “filosofia” – o la domanda “filosofica” – quella cioè legata a doppio nodo all’amore verso il sapere).

 

Ed ecco, infine, un terzo brano che, oltre che a Italo Calvino e ad Antonio Moresco, potrebbe far venire in mente Luigi Pirandello (e le sue teorie sull’ “umorismo”, inteso in quanto atteggiamento perennemente relativistico dell’uomo sulla realtà – e sulle apparenti verità – che lo circondano):

 

“Se guardo una foresta di lontano vedo un velluto verde scuro. Avvicinandomi il velluto si sgrana in tronchi, rami e fronde. La corteccia degli alberi, il muschio, gli insetti, brulicano di complessità. In ciascun occhio di ogni coccinella c’è una struttura elaboratissima di cellule, connesse a neuroni che la guidano a vivere. Ogni cellula è una città, ogni proteina un castello di atomi; nel nucleo di ogni atomo si agita un inferno di dinamica quantistica, vorticano quark e gluoni, eccitazioni di campi quantistici. E non è che un piccolo bosco di un piccolo pianeta che ruota intorno a una stellina, fra cento miliardi di stelle di una fra mille miliardi di galassie costellate di eventi cosmici abbacinanti. In qualunque angolo dell’universo troviamo vertiginosi pozzi di strati di realtà” (id., p. 182).

 

Verrebbe da dire, a lettura terminata, dopo un brano così visualmente efficace e cinematografico (da una panoramica Rovelli si avvicina alla realtà fenomenica con uno zoom attraverso il quale si entra dentro le cellule e poi dentro gli atomi e poi dentro le particelle più piccole e poi…): “e il naufragar m’è dolce in questo mare” (perché Rovelli è anche leopardiano, oltre che pirandelliano, quando scrive così, quando ci mette sotto gli occhi – senza abusare delle mefatore né visuali né d’altro tipo – le cose, gli oggetti e i fenomeni che gli interessa che noi si torni ad osservare con più attenzione, con rinnovato stupore, con aristotelica meraviglia…).

 

E allora lo faccio: chiamo il mio amico fisico esperto in linguaggio metamatematico e gli declamo, per telefono, il brano appena citato. E lui mi risponde: “Ti dirò, caro mio: alla fisica erotica preferisco quella teorica”. E sorride. E rido di gusto. Mentre lui mi parla male del collega (troppo famoso, chissà quanti soldi gli hanno dato per andare da Fazio o quanti ne prende per le lezioni che dà in giro per il mondo) e io continuo a pensare a quanto potrebbe essere contento Carlo Rovelli di scoprire la letteratura di Antonio Moresco e – specularmente – a quanto potrebbe essere felice Antonio Moresco nello scoprire la fisica quantistica così come la spiega (la narra, la canta) Carlo Rovelli nel suo Helgoland.

 

To be continued…

domingo, octubre 18, 2020

 Rinomata enciclopedia di letture





Domenica mattina: la prole scende giù in spiaggia per approfittare di questa bellissima giornata di sole e correre a più non posso in compagnia della mamma (al ritorno noterò la sabbia in mezzo alle dita dei piedini); io ne approfitto per finire di leggere un saggio sull'ekfrasis in terrazza, con la musica di Rai Radio 3 in sottofondo e una tazzina di caffè forte senza zucchero come supporto.

Un punto interessante del saggio riguarda il nostro modo di guardare la Natura, ovvero, di come, quando si tratta di contemplare un paesaggio, tendiamo sempre ad "inquadrarlo" come se si trattasse di un dipinto, ovvero, di un paesaggio dipinto e "visto" dall'interno di un quadro. 

La cornice è fondamentale: senza di essa, lo spazio è una massa amorfa di oggetti, di eventi, di forme e di colori. Il pittore è chi - prendendo spunto dal mondo esterno o dai suoi demoni interiori e dal proprio mondo onirico - ricostruisce questo "caos" e gli dà forma (anche quando si tratta di arte astratta e, dunque, di forme informali o amorfe).

La questione della cornice mi fa venire subito in mente Mondi intermedi e complessità, un bellissimo saggio di Alfonso Iacono (filosofo che ebbi la fortuna di scoprire, leggere e conoscere quand'ero dottorando a Pisa) in cui si parla dei "mondi intermedi" e di come la nostra "coda dell'occhio" ci permette di rimbalzare dall'uno all'altro. Se non ci fosse la cornice, saremmo persi, proprio perché, probabilmente, non riusciremmo a capire di che mondo si tratta. Lo schermo della tv; il rettangolo del tendone che poi si spalanca per mostrarci la ribalta di un teatro; la cornice - appunto - di un quadro; anche il rettangolo della pagina di un libro, il grande telone bianco del grande schermo al cinema, sono tutti esempi di cornici che contempliamo (ed interpretiamo) grazie a quella che Iacono chiama "teoria della coda dell'occhio" (che, ovviamente, è teoria affascinante e molto più complessa di quanto possa parlarne qui).

Poi guardo un paio di uccelli che planano sul cortile della casa di fronte e mi distraggo. Quanti quadri, nella storia dell'arte del Mondo, ci saranno che inquadrano uccelli che planano in un cortile? Quanti pittori avranno provato ad immortalare (e frenare) la corsa degli uccelli in volo?

Poi un amico esperto di fisica quantistica mi chiama per farmi i complimenti: "Ho appena visto l'intervista a Sandro Veronesi e volevo farti i miei più vivi complimenti. Ottima domanda! E si nota che hai letto tutto di Veronesi, anche lui era contento della domanda!". Arrossisco anche se lui non mi può vedere né può saperlo. Un fisico che studia i buchi neri e i neutrini che ti dice queste cose non può non farti arrossire.

Tra le email, una collega di Palermo: anche lei mi ha visto; non ha mai letto nulla di Sandro Veronesi e si fida del mio fiuto letterario; gli darà un'altra chance: "Complimenti! Con la tua rinomata enciclopedia di letture, sei riuscito a stimolare una densa e partecipata risposta da Veronesi, una risposta che mi è sembrata molto intellingente".

Sottolineo mentalmente questo sintagma: "rinomata enciclopedia di letture": ma che vuol dire, esattamente? Sì, lei sa che sono un lettore "forte"; ma è davvero rinomata questa "enciclopedia di letture"?

Un'amica ottantenne di lunga data, una donna eccezionale che ho avuto la fortuna di conoscere qui, nel Sud del Sud della Spagna, mi chiama e mi chiede se sono disponibile per un incontro letterario con le socie di un'associazione culturale per la Terza Età: "Hai mai letto Tagore?". Ecco che la mia "enciclopedia di letture" non è più così tanto "rinomata", né vasta né completa. Perché lo ammetto, io Tagore non so nemmeno chi sia...So che vinse il Premio Nobel, e poco più: "Sì, esatto, nel 1913; vorremmo leggere una sua opera e ci piacerebbe coinvolgerti in un dibattito sulla letteratura e la spiritualità". Accetto subito. Nonostante il momento di crisi, di incertezza e di contagi da covid-19 in rapida ascesa. Il 17 novembre, martedì, di pomeriggio, ci riabbracceremo virtualmente senza poterci stringere le mani e con la mascherina sul volto. Proverò a colmare questa lacuna nella mia non tanto "rinomata enciclopedia di letture".

Gli uccelli sono volati via. Ma fa ancora molto caldo. Sembra quasi estate. E, invece, è il 18 d'ottobre.

viernes, octubre 09, 2020

 Ci ridiamo; ci risiamo


Ecco, ci risiamo: il covid-19 - o coronavirus - torna a farci paura. Invece di guardare Propaganda Live su La7, con il sempre pungente e sempre intelligente Diego Bianchi (detto Zoro), accendo Rai News 24 e l'effetto di dejá-vu è dirompente; durante il confinamento ci passavo le ore davanti a questo tg, intossicandomi di notizie sempre più tragiche ed apocalittiche. Aggiungiamoci un fastidioso mal di gola (forse dovuto al raffreddore della prole, costretta a casa anche se non c'è traccia di febbre, ma le precauzioni non sono mai troppe, di questi tempi e quando uno è padre o madre) e il gioco è fatto. 

Facciamo lezioni online con un filino di voce. Gli studenti capiscono e mi mandano tutto il loro appoggio morale in chat. Qualcuno consiglia anche le ricette giuste: latte caldo e miele; spremuta d'arancia e miele; tisana di zenzero con miele e limone; prendo appunti e, nel mentre, domando, sempre con la voce tremolante: "Quand'è che un testo può definirsi 'letterario'? Cos'è che rende 'letterario' un testo?".

Intanto, provo a guardare il lato positivo: il 12 ottobre qui è festa nazionale, "el Día de la Hispanidad", il giorno in cui la Spagna celebra se stessa attraverso l'impresa di Cristoforo Colombo e la scoperta del cosiddetto Nuovo Mondo e, dunque, non si va a scuola né all'Università. Sono libero. E guarda caso proprio il 12 ottobre, alle ore 17:00, i membri della Società Dante Alighieri potranno dialogare e porre una domanda (ciascuno, da ogni sede all'estero) a Sandro Veronesi. Mi hanno chiesto di intervenire. E sono già emozionato. Potrò intervenire su "Zoom" e fare una domanda a uno dei miei scrittori italiani favoriti...ma...cosa gli chiedo?

Poi mi scrive un caro amico e collega della "Sapienza": mi manda il link ad un altro evento letterario che pensa potrebbe interessarmi. E caspita se m'interessa! Il 13 ottobre, il giorno dopo l'incontro con Sandro Veronesi in diretta streaming da Firenze, potrò seguire la presentazione dell'ultimo saggio di Piero Boitani, Ovidio. Storie di metamorfosi (Bologna, il Mulino, 2020)...Boitani che parla di uno dei più grandi capolavori della letteratura classica. Boitani e Ovidio. Un po' come Boitani e Omero. O Boitani e Ulisse. Non sto nella pelle, come si suol dire. E intanto penso: ma cosa gli domando a Veronesi quando mi daranno il permesso d'intervenire e di attivare il microfono?

Intanto, Conte fa le prime dichiarazioni ufficiali; Mattarella elogia Dante; il Movimento 5 Stelle litiga; il PD latita (come quasi sempre); l'Italia si spacca in due: ci sono quelli pro e ci sono quelli contra la mascherina (Trump se l'è tolta appena atterrato dall'elicottero che lo ha riportato alla Casa Bianca; il Papa è stato criticato perché ha stretto troppe mani e sempre senza protezione né distanza sociale).

Intanto, qui dalle ore 15:00 di oggi, 9 ottobre del 2020, Madrid è davvero e ufficialmente "zona rossa"; non si può né uscire né entrare nella capitale del Regno senza un motivo valido e urgente. Immagino Roma in fase di lockdown... e mi torna in mente quella famosa immagine del Papa - ancora lui - che dice messa sotto una pioggia fina e incessante in una San Pietro deserta; un'immagine spettrale, quasi quanto quella della lunga fila dei camion dell'Esercito Italiano che trasportano i cadaveri destinati agli inceneritori.

Avverto la forte tentazione di aprire il "diario di bordo" che ho scritto proprio a partire dal 13 marzo 2020, da quando il virus aveva fatto il suo ingresso ufficiale nei peggiori incubi dell'Uomo sulla Terra. Non so se aprirlo. O se fermarmi in tempo. 

Intanto (ma quanti "intanto" ci sono in questo post?), bevo il latte col miele e, in effetti, si avverte un certo sollievo. Avrò la faringite? Riuscirò a fare lezione dal 13? E soprattutto: cosa gli domanderò a Sandro Veronesi quando ci vedremo faccia a faccia collegati su "Zoom"?

Ci ridiamo. Ci risiamo. Per non piangere. Per non disperarsi.

viernes, septiembre 18, 2020

 Ritorno a scuola (?)


Il 14 settembre del 2020, in molte città italiane, gli studenti di scuole dell'infanzia, medie e superiori sono tornati in classe. Rai News 24 (che è l'unico canale della Rai che si può vedere in chiaro e in diretta stando all'estero) propone uno speciale; invece del solito tg, con la solita carrellata (a volte assurda) di notizie (a volte assurde), propone lo speciale sull'evento e l'intitola "Forza ragazzi" (o "Ritorno a scuola. Forza ragazzi".

Rido per non piangere e m'intenerisco dinanzi alla testimonianza di una giornalista che, inquadrando in primo piano un bassotto disegnato sulla parete, ci spiega che è così che si insegna ai bambini a calcolare la distanza di 1 metro (la famosa distanza di sicurezza, o distanza sociale). Poi ci si sposta a Roma, dove, in un noto liceo della capitale, un altro giornalista, questa volta un uomo, ci mostra una madre intenta a fare da vigile urbano e a dirigere il traffico degli alunni (questa volta adolescenti) che, in fila indiana, cercano di rispettare le fila e la distanza (c'è anche una mamma che distribuisce mascherine ai più distratti o che redarguisce quelli che la mascherina la usano come sciarpa o, peggio, come braccialetto).

È il 14 settembre del 2020 e dalla segreteria ci comunicano che - vista l'emergenza sanitaria legata al Covid-19 - le lezioni in presenza previste per Lunedì 21 settembre saranno posticipate alla settimana successiva: cominceremo (?) il 28 (?), con obbligo di indossare la mascherina e obbligo di tenere separati di almeno 1 metro gli alunni i quali, a differenza degli altri anni, non potranno assistere a lezione in massa ma si alterneranno: la metà seguirà le lezioni i giorni pari, l'altra metà i giorni dispari, chi resta a casa seguirà la lezione in diretta "streaming" comodamente seduto sul suo letto a casa sua dal suo pc...

È un'inizio d'anno accademico davvero anomalo, questo...Uno pensa: ma come lo racconteranno questo 2020 nei futuri libri di storia del XXI secolo? Come sembreremo, quanta tenerezza ispireremo ai lettori futuri di questi futuri libri di storia?

Ipotesi assurde dal vago sapore fantascientifico. Intanto, da Roma, l'Editore che dovrebbe pubblicare la mia traduzione di un libro di racconti di uno scrittore spagnolo che ho l'onore di annoverare tra i miei amici, mi scrive per dirmi grazie, hanno ricevuto la traduzione, mi fanno i complimenti per il bellissimo lavoro svolto e che a breve si rimetteranno in contatto con me per sbrigare le ultime pratiche (scelta dell'immagine di copertina; onorari e compensi a battuta - o a pagina; diritti d'autore e cessione dei diritti dell'Editore spagnolo a quello italiano; pubblicità sui social; etc. etc.).

Chiedo loro se il libro potrà vedere la luce nel 2020 o se, invece, data l'emergenza sanitaria legata al Covid-19, bisognerà aspettare il 2021. Mi fa anche effetto scriverlo, 2021...sembra davvero d'essere stati catapultati in un racconto di Isaac Asimov, o in uno di Arthur C. Clarke... L'Editore, giustamente, non mi risponde; sono stato troppo impulsivo e ho chiesto troppe cose e non ho saputo aspettare. È la regola numero 1, quando si ha a che fare con gli Editori: bisogna saper aspettare (e che sia lui, l'Editore, a rifarsi vivo, a concedermi audizione, a darmi una risposta certa alle mie - credo - lecite domande).

Per la copertina propongo due fotogrammi tratti da Un chien andalou (1929) di Luis Buñuel. Chissà se davvero un traduttore può pretendere di (o aspirare a) suggerire l'immagine di copertina di una sua traduzione. Ci muoviamo su acque incerte, sabbie mobili dell'anima, corridoi labirintici in cui nemmeno mio fratello, che fa l'Avvocato, saprebbe darmi una mano. L'importante - ti ripeti - è che il libro esca (e che sia ciò che il Cielo vuole).

Poi una collega mi confessa: "Io non lo so mica se la farò a parlare 2 ore di seguito con la mascherina sulla bocca; ho paura di svenire". Le rispondo che non ho mai parlato con la mascherina per così tanto tempo di seguito e che se proprio mi vedrò in difficoltà, ebbene, allora, chiederò ai miei studenti di sedersi tutti nelle ultime file, lontani da me, lontani dalla cattedra, per favore...

La collega mi sorride (il sorriso oggi bisogna immaginarselo, al di sotto della barriera visuale della mascherina maledetta) e mi dice che non sarebbe una cattiva opzione. Poi passa Carmen, la responsabile della reprografia, colei a cui tutti andiamo a chiedere le fotocopie, e ci fa il segno delle dita incrociate, come a dire: "In bocca al lupo, amici, e speriamo bene!".

La parola-chiave di questo settembre 2020 è: INCERTEZZA

martes, septiembre 08, 2020

 

8/9/2020


E così, oggi compio 43 anni. Ancora non ci credo. Mi sembra irreale, anche perché, mentalmente (come succede a tanti, come succede a molti miei coetanei), di anni me ne sento 24 o, al massimo, 26. E dovrebbe essere tempo di bilanci. Ma non ce la faccio più a fare i bilanci. Vorrei imparare a vivere alla giornata. Basta fare programmi. Basta calcolare tutto al millimetro. E se gli articoli che ho nel cassetto non appariranno mai; se il libro che ho tradotto da poco non vedrà la luce; se tutte le conquiste accademiche che uno rincorre non arriveranno mai, ebbene, non fa niente, non è più un problema, non voglio più farne un problema, non sarà affatto un problema (“puoi sempre aprire un’edicola o andare a lavorare in una biblioteca”, mi dice per scherzare, ma poi nemmeno tanto). Si vive una vita sola. Ce lo diciamo tutti, chi piú chi meno, anche se poi pochi fanno tesoro del detto. Nemmeno un virus di dimensioni e letalità mondiali ci ha fatto migliorare o ci ha spinto a riflettere su chi siamo, su cosa vogliamo fare su questo pianeta, su dove possiamo andare e dove sarebbe bene fermarsi.

E allora lascio stare i bilanci e mi dedico a godermi il tramonto. E, dopo i 30 km di turno fatti in bicicletta, mi dedico a farmi una bella doccia, anche solo per il gusto d’indossare il bellissimo accappatoio nuovo (ed elegante) che mi ha regalato la mia compagna di avventure. E domani andiamo al cinema, a vedere Tenet, l’ultimo di Christopher Nolan, se si può. E prima del cinema, una pizza nella nostra pizzeria preferita. Sempre se si può, nonostante la distanza sociale e le mascherine d’obbligo. 43 anni, ragazzi…

lunes, agosto 31, 2020

 Nostoi (o dei ritorni)





E dopo le partenze ci sono gli arrivi, o meglio, i ritorni ("nostos", la si definisce così una parte dell'Odissea, quando, appunto, Ulisse torna a casa, dopo le mille e più avventure vissute tra Scilla e Cariddi, tra Circe e Nausicaa, tra inganni e spaventi).

Fa effetto atterrare in Spagna: è vero, qui le cose vanno peggio che in Italia, il numero dei contagi giornalieri è molto più alto che da noi (circa 3 mila al giorno in più e non smette di crescere - un'amica di Madrid paventa già il ritorno del "lockdown" totale; un'altra, da Barcellona, mi dice che soffre di attacchi d'ansia, ora) e quasi tutti, se non proprio tutti, indossano la mascherina, sia all'interno che all'esterno, non c'è metro quadrato che non venga attraversato e calpestato da qualcuno con la mascherina sulla faccia.

E allora diventa inquietante, ma anche piacevole (piacevolmente inquietante?) tornare a percorrere le stesse strade che si sono percorse durante la quarantena, quando era proibito stare in giro senza motivo urgente e giustificato; ovvero, quando Pedro Sánchez decise che potevamo uscire per fare un'ora di sport (al mattino, tra le 6 e le 9; o alla sera, tra le 20 e le 23) e, se eravamo genitori, per fare una passeggiata (anch'essa di un'ora) tra le 16 e le 19 (perché poi toccava agli anziani, che disponevano dell'ora d'aria esattamente dopo il turno dei bambini, ovvero, tra le 19 e le 20).

Fa effetto subire flash fotografici che ci riportano indietro nel tempo, un tempo che sembra lontanissimo da questo presente (il 31 agosto del 2020, la fine di un'estate davvero anomala) e che, invece, è vicinissimo, se lo calcoliamo in rapporto alla vita media di un essere umano qualunque: quei 3 mesi di chiusura totale sembrano una tragedia già passata, una sorta di ricordo indelebile, ma non più sanguinante, una pagina del libro di storia quando si narreranno i primi anni 20 del XXI secolo, e invece...è ancora qui, altro che! Ancora serpenteggiante, scivolosamente vicino alle nostre narici, alle nostre larigini e ai nostri polmoni (poveri polmoni!).

E domani è l'1 di settembre e si ricomincia: ma fino a quando? Per quanto tempo? E se poi ci rinchiudono in casa come l'ultima volta? E se poi ci si ammala? E se poi tocca a me?

Tanti dubbi, certo, che rischiano di annientarci o di paralizzarci, ma la vita va avanti, dobbiamo tornare a scuola, all'Università, ai nostri posti di lavoro in presenza, non è vero affatto che si può fare tutto da casa e che i computer ci salveranno l'economia, no, dobbiamo andarci dal vivo al lavoro, sperando di restarci, vivi...

Bentornati in Spagna, signori. Questa è davvero la vita (nella seconda patria).

martes, agosto 11, 2020

 Approdi (italiani): Antonio Moresco e il suo ultimo canto (quello degli alberi)


E così, dal 2 agosto del 2020 fino al 28 agosto dello stesso anno, avrò la certezza di stare (di sostare, di vivere temporalmente) in Italia, il mio paese, la mia nazione, la base da cui tutto è cominciato, includendovi in questo tutto anche il virus (l'altro giorno l'ho spiegato ai miei ospiti spagnoli, dopo aver oltrepassato Piazza della Repubblica: "Lo vedete quell'hotel lì? Si chiama Grand Hotel Excelsior e lì pernottarono i primi 2 casi di coronavirus della capitale, due cinesi che sono stati poi ricoverati allo Spallanzani e si sono salvati, sapete?". Qualcuno mi chiede cosa significhi "Spallanzani". Fingo di non aver sentito la domanda, propongo di tornare indietro, di prendere Via Nazionale e di scendere fino ai Fori Imperiali).


Ricalpesto i prati, le strade, gli asfalti delle città in cui sono stato felice (come la capitale, appunto, che conosco a memoria, ma anche come la città sui monti abruzzesi in cui ho passato l'infanzia e l'adolescenza e parte della prima giovinezza, o la città sulla costa adriatica in cui ho assaporato per la prima volta il sapore della salsedine sulla pelle e l'odore della brezza sulle labbra) e mi risento subito a casa, subito felice, gioioso, allegro, energico, con il cuore davvero ricolmo di gratitudine (e dobbiamo essere tutti davvero grati, di poter essere ancora vivi, di averla scampata bella, dopo tanto dolore e dopo il confinamento).


Poi smetto di fare da guida turistica e in libreria acquisto l'ultimo libro di Antonio Moresco, Canto degli alberi (Sansepolcro, Aboca, 2020), mentre in edicola acquisto l'ultimo albo della serie regolare di Diabolik e Eva Kant. Io sono Eva, che è un numero speciale dedicato alla dolce metà del famoso criminale in calzamaglia.


Mi riservo per i momenti di calma la lettura dei due fumetti, mentre apro subito la prima pagina del libro di Moresco, un libro che è difficile definire "romanzo", ma non è neppure un "reportage" del confinamento da covid-19, ma nemmeno una sorta di "autobiografia" scritta in diretta dal confinamento, no, è tutte queste cose insieme e nessuna di esse...


E leggo a p. 70 qualcosa che mi fa pensare sia al mio ultimo post (sulla mia ossessione nel fotografare le rovine o i luoghi abbandonati e in rovina) sia alla tremenda esplosione di un deposito di grano nel porto di Beirut che ha causato centinaia di morti e che potrebbe causare una nuova guerra civile nel Libano e nelle zone limitrofe:


"Le borse crollano. Le economie collassano. Solo poche settimane di epidemia hanno mostrato tutta la fragilità del sistema economico su cui si regge la vita della nostra specie su questo pianeta, la sua feroce astrazione, la sua follia. Ciò che si riteneva invincibile, che si poneva come dimensione unica che fagocitava e annichiliva tutte le altre, a cui ogni altra cosa era e doveva essere sottomessa, è tenuto in scacco da un microscopio invasore chimico che ha lo stesso andamento virale della nostra specie e delle sue strutture psichiche, sociali e mentali" (id., p. 70).


Un'amica libanese mi spiega che è proprio a causa del confinamento (imposto dal governo per frenare l'espansione dei contagi) che ci sono stati così tanti morti: moltissimi i suoi amici e parenti che si sono ritrovati sbattuti contro le pareti di casa, di un ufficio, di un supermercato con le mascherine ancora addosso, a causa del "lockdown"...E si domanda cosa sarebbe successo se la gente non fosse stata colta da questa nuova bomba atomica in perfetto stile Hiroshima rinserrata nelle proprie case, ma a spasso e in giro per le strade di Beirut...


Poi continuo a leggere ed è incredibile come Moresco sia capace di ribaltare il Mondo e le prospettive che crediamo di avere sullo stesso: l'anonimo narratore (che sembra coincidere con l'autore) si ritrova bloccato nella sua casa di Mantova, la sua città natale, e cammina per le strade deserte di notte interrogando gli alberi. Che cos'è un albero? Come fanno gli alberi a crescere perfino dai muri e sulle statue? Cosa fanno le radici, mentre i rami e le foglie si diramano nello spazio aereo? Che connessione c'è (o ci può essere) tra lo spazio aereo di queste parti dell'albero e le radici, che sono le proboscidi più nascoste e più caparbie nella lotta di espansione nel - e attraverso il - sottosuolo?


Sono arrivato a p. 124. Ma non ho le forze per andare avanti, oggi, nella lettura. Ripenso al post scritto qualche tempo fa, ispirato a una frase di Maurice Cousins, e ripenso al disastro di Beirut. Ripenso ai miei, che hanno sofferto anche loro il confinamento, esattamente come Moresco a Mantova, e penso che io a Mantova non ci sono mai andato. Il virus è ancora tra di noi, circola, come si suol dire. E l'Italia è ancora un paese meraviglioso in cui poter viaggiare e contemplare una natura e dei paesaggi davvero da film. Gli alberi pensano e sono saggi. E chissà che noi non si debba apprendere qualcosa anche dagli alberi, oltre che dallo stesso Antonio Moresco.


Domani, però, leggerò Diabolik. Non posso continuare a deprimermi in questo modo.

sábado, agosto 01, 2020

Ogni cosa edificata è destinata a crollare



Ancora lui, ancora Mark Cousins, dal suo bellissimo saggio Storia dello sguardo (Milano, il Saggiatore, 2018, p. 134):

"Ogni cosa edificata è destinata a crollare, ma nel periodo precedente alla sua caduta, un edificio e la città di cui fa parte ci concedono sguardi di tipo progettuale, contemplativo, condensato, oppressivo, educativo, casuale e futuro. L'ordine presente è il disordine del futuro".

Ecco, un pensiero del genere mi aiuta a capire perché, da un po' di mesi a questa parte (diciamo pure dallo scoppio del coronavirus a questa parte), mi sia messo a fare foto ai ruderi, alle case abbandonate, ai supermercati fuori mano ormai messi in affitto e perció dismessi, con quegli enormi parcheggi vuoti frequentati solo da erbacce e da buste della spesa espatriate lì da chissà dove (e uno si domanda: ma dove sono finiti i clienti che lì ci facevano la spesa quotidiana?).

Ho anche pensato di usare la macchinetta fotografica buona, quella che ci regalarono 6 anni per il matrimonio, una Sony che fa delle foto bellissime. Perché non la smetto proprio, anzi, da quando sono riuscito a uscire da casa dopo il confinamento, è dinvetata - mi ripeto - una vera e propria ossessione quella di immortalare i resti, ciò che il tempo ancora non ha cancellato del tutto, i pezzi di mura o di abitazioni in cui l'assenza dell'uomo è lampante e dà da pensare).

C'è un quartiere, qui vicino, fatto di tanti palazzi di 5 o 6 piani (costruiti durante il cosiddetto "boom del mattone" - e del business edilizio) completamente abbandonati. Fa impressione vedere come quello che, nel 2007 o nel 2008, era l'incarnazione di un ordine perfetto e futuro e ambito o vagheggiato da molti (mi compro l'attico, in una zona periferica, ma almeno vivo in uno spazio più grande dei soliti 30 metri quadrati del centro) sia diventato oggi l'emblema del disordine e della decandenza presente (gli appartamenti, ancora tutti invenduti, sono di fatto rimasti vuoti, non ci sono mobili, né suppellettili che attestino la presenza dell'uomo, solo le finestre, tutte ovviamente rotte, vuoi dal passare del tempo vuoi dagli atti vandalici).

Mi vengono in mente anche le Twin Towers (perché il quartiere di lusso di cui parlo è vicino a un palazzone che presenta due torri laterali che potrebbero evocare quelle americane). Ecco. Le Torri Gemelle sono state (sono e saranno per sempre, credo) l'emblema simbolico del XXI secolo del fatto che "ogni cosa edificata è destinata a crollare", anche quella che emana più prestigio, forza, bellezza, potenza (e i terroristi islamici estremisti non scelsero a caso il loro bersaglio).

Anche le due torri di questo palazzone che immagino sia popolato di uffici prima o poi cadranno o verranno abbattute per dare spazio ad altri palazzi, o ad altri uffici.

Ed è incredibile e pazzesco constatare come uno sguardo "anacronico" o "eterocronico" possa essere allenato proprio alla contemplazione della decrepitudine 'in potenza' dei luoghi del presente e di quella vissuta, realizzata appieno, fattasi carne, per così dire, dei luoghi del passato che, nonostante il peso del loro stesso passato, continuano a richiamare la nostra attenzione di testimoni oculari inermi di fronte a tanto sfacelo (quanti quintali di calcestruzzo ci saranno voluti per tirare su un palazzo di 5 o 6 piani in una zona della periferia prima praticamente desertica?).

Continuo a leggere e a godermi questo saggio sullo sguardo, mentre il calendario mi (ci) ricorda che è il primo d'agosto. Domani si torna in Italia, coronavirus permettendo...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...