martes, diciembre 14, 2021

 Il 2 di Dicembre del 2021


2 centimetri. Solo 2 centimetri. È questo il confine (labile) che potrebbe separare la vita dalla morte. Se il manubrio della bici fosse affondato nel basso addome per altri 2 centimetri, avrebbe potuto danneggiare o rompere una vena importante che transita proprio lì, in quella zona del corpo umano, e avrebbe potuto causarmi un'emorragia interna mortale.

Ovviamente, non potrò (mai) più dimenticare questa data: il 2 di Dicembre del 2021, quando, di pomeriggio, in un giorno normale e di sole, avevo voglia di fare almeno una trentina di kilometri in bici prima di tornare al mio lavoro (di padre e di professore, di amante del cinema e di studioso di letteratura).

2 centimetri. Solo 2 centimetri e poi non avrei più letto nulla, né visto film, né fatto lezione, né scritto articoli, né viaggiato per intervenire nei congressi internazionali.

2 stupidi, semplici, matematici centimetri in più e...sarebbe finito tutto (anche questo "diario virtuale", anche questo blog, sì, queste pagine che chissà chi le legge e perché...e che chissà perché io mi ostino a riempire di parole, a scrivere, quando la vita mi fa scrivere...).

E oggi, 14 di Dicembre dello stesso 2021, la vita ha prevalso sulla morte. Oggi il sole d'inverno sembrava estivo, qui nella città del Sud del Sud della Spagna in cui mi trovo. In cui ancora vivo e respiro. Oggi una persona speciale mi ha fatto ridere e sorridere e mi ha fatto capire quanto sia importante avere ancora tanta voglia di vivere.

E noi qui si vive. 

viernes, septiembre 24, 2021

 In attesa (di ricominciare col circo)


È da un mese che non trovo il tempo per scrivere su questo mio "diario virtuale" e "di bordo". Un mese: quanto dura un mese? 30 giorni o 31, fa lo stesso: il tempo dipende da ciò che uno sente e sperimenta in un determinato momento, minuto, secondo...

Leggo un saggio di Guido Tonelli (un fisico che lavora presso il CERN) dal titolo Tempo: il sogno di uccidere Chronos (Feltrinelli, 2021) e mi vengono i brividi a leggere della fisica quantistica, della teoria della relatività di Einstein, della bellissima equazione di Dirac...Un'equazione che qualcuno ha declinato in senso romantico (e io ho subito girato il messaggio - traducendolo dall'italiano allo spagnolo - a chi di dovere; ha apprezzato molto: "L'equazione di Dirac" potrebbe essere il titolo di un romanzo, certo).

Leggo e passo le notti insonne mentre sono in attesa del giorno in cui ricomincerà il circo: dal 27 (lunedì prossimo) ci risiamo, con le lezioni, sia quelle frontali che quelle da casa e "online" e in "streaming" (siamo davvero spacciati, sommersi quali siamo, ormai, da questi anglicismi onnipresenti e onnipotenti), con la dottoranda che mi chiede consigli, con le mille richieste per email dei colleghi, con i convegni e i congressi, e gli articoli da piazzare sulle riviste che contano (quali contano davvero?) e i capitoli di libro e le presentazioni dei libri etc. etc.

È passato un mese e in un mese è successo di tutto: anche cose che non posso scrivere in questo luogo intergalattico e da internauti. E poi ci sono le cose che sì potrei anche raccontare, ma sono talmente emozionanti che mi mancano le parole (chiacchierare con Nuccio Ordine; festeggiare i 44 anni in sua compagnia e in collegamento dall'Italia; fuggire nella casetta di legno degli anadi (maschio e femmina) in compagnia di una persona speciale; festeggiare di nuovo con Domenico e gli altri amici italiani che vivono in questa città del Sud del Sud della Spagna; preparare tutto in funzione di un viaggio in Italia in cui - se tutto va come deve andare - andremo a presentare un libro presso il "Salone del Libro Internazionale" di Torino e poi un viaggio a Firenze e, infine, a Roma: saranno 4 giorni di fuoco); potrei, sì, raccontare delle belle novità di questi 44 anni iniziati col botto o dell'atroce prosa del mondo, fatta di sudore e sacrifici, di litigate per la prole con la compagna di avventure di sempre, di pranzi in famiglia che ti fanno venire la nausea e screzi stupidi che ti possono costare la vita...

E allora, per ora, attendiamo l'inizio del circo. E che vada come deve andare. Chronos avrà sempre la meglio, anche se ogni tanto ci sforziamo e ci impegniamo a vincere almeno una battaglia contro di lui, tempo distruttore, tempo maledetto che tutto consuma e tutto cancella.

lunes, agosto 23, 2021

Dall'Italia, immersi nella malinconia

Dunque, anche questo ennesimo viaggio di ritorno in patria (il nostos di omerica memoria) volge al termine. 
Sembra ieri che io e la mia compagna d'avventure, insieme alla prole, siamo atterrati all'aeroporto di Bari, per poter scoprire alcune delle incredibili bellezze della Puglia (ci hanno lasciato a bocca aperta certi scorci di Monopoli, Polignano, Alberobello, Giovinazzo, e anche Lecce).
Dopo 6 giorni di Puglia, i restanti 24 giorni di Abruzzo sono quasi volati. Mi sembra davvero ieri che mio fratello mi abbracciava in centro, in uno dei pub più frequentati, per offrirmi una birra nostrana e farmi risentire subito a casa. E invece, appunto, di giorni ne sono passati quasi 20 e il 30 agosto si riparte per tornare in Spagna e io non è che ne abbia molta voglia (anche se, quando sono in Spagna, mi sento come a casa e forse - a tratti - anche meglio che in casa).
Sono circondanto dai Dylan Dog arretrati che devo ancora leggere; dai vari La Repubblica che compro i venerdì per collezionare Il Venerdì (in uno degli ultimi c'è un'intervista a Valentino Rossi che non voglio perdermi per niente al mondo); dai libri di ciò che resta della mia biblioteca di qui e non so se smantellarla tutta e portarmi in Spagna anche gli ultimi volumi rimasti in patria; sono circondato dai ricordi: le foto di quand'ero bambino o adolescente o giovane dalle belle speranze; le agende e i diari dei tempi dell'Università; i computer e i dischetti (i floppy-disk e i dvd) che risalgono alla fine degli anni 90 e all'inizio del 2000...
Non ricordo più se era Oscar Wilde o Flaubert o Victor Hugo a dire che la "malinconia" è "la felicità di essere tristi".
In questi giorni non mi sono mai sentito così felice e, al contempo, così malinconico, ovvero, così felice nella sensazione di essere triste.
C'è qualcosa che non va nel mio rapporto con l'Italia e con le mie radici: c'è qualcosa di strano che non riesco proprio a capire.
Dovrei gioire e basta e, invece, alla gioia si unisce questa strana sensazione di non essere sempre al posto giusto, che un posto giusto non ce l'ho proprio, né qui, dove sono nato, né lì, in Spagna, dove vivo e lavoro, dove amo e soffro e gioisco da quasi 10 anni, incredibile la velocità del tempo, assurdo come il tempo voli via e ci pettina i capelli verso la stempiatura e la calvizie incipiente, ci regala le rughe e ci rimette (sempre) in riga, prima dell'ultima ora fatale, quella che chiuderà (per sempre) la partita...
Mi giro e vedo Baudolino di Umberto Eco, acquistato il giorno in cui uscì nel dicembre del 2000; mi volto a c'è Pedro Salinas che mi sorride da una antologia per Cátedra intitolata Aventura poética...
È tutto un rimescolio di sensazioni e di ricordi: ed è quasi inevitabile che Salinas mi riporti con la mente a una persona speciale che ho lasciato proprio lì, nel paese del Sud del Sud della Spagna in cui vivo e soffro, in cui lavoro e gioisco ed esperimento i piaceri e le delusioni della vita. Lei che canta una canzone per me; lei che scrive "mi manchi" in italiano corretto; lei che promette nuove avventure; lei che non c'è e che io torno ad ascoltare sapendo che questa canzone mi farà stare male.
Intanto, nel mondo, i talebani riconquistano Kabul e parte della popolazione civile scappa o prova a scappare da quella che ha tutta l'aria di diventare presto una dittatura su base religiosa estremista. E io qui che mi lamento, che guardo i libri della mia biblioteca (ecco Volpone, di Ben Johnson, ecco Del Giudice con il suo Atlante occidentale, ecco Jonathan Coe con La casa del sonno) e che penso ad una donna che non è qui e che chissà se ritroverò lì, io che penso alle citazioni di Oscar Wilde (o di Flaubert o di Victor Hugo), e che mi rammarico di non essere riuscito a trovare il tempo per scrivere almeno 2 dei 3 articoli che avevo in mente di scrivere in questo mese di vacanze d'agosto, io che perdo ore di sonno appresso alle canzoni di Lily Allen o di Tecla (una scoperta italiana di questi giorni, come pure Carl Brave che mio fratello voleva invitarmi ad andare a sentire "live" in un concerto tenutosi a Francavilla), io che cerco un senso a questa vita, quando un senso non ce l'ha, come cantava Vasco Rossi, mentre il mondo si sgretola e si sfalda sotto i nostri piedi e chissà chi resterà a testimoniare l'Apocalisse, chissà. 
Tra 7 giorni riparto per la Spagna. Chissà che non mi convenga approfittarne per cercare di stare bene, o, almeno, di vivere con un po' più di tranquillità e di serenità.

jueves, julio 29, 2021

La prima volta (o "una canzone per te")


È la prima volta in vita che qualcuno mi manda una canzone, mi dedica una canzone, "una canzone per te", come direbbe Vasco Rossi (sono curioso di atterrare in Italia per vedere com'è l'ultimo numero di Dylan Dog, un omaggio al Blasco che ha creato una certa polemica, tra i fan dell'indagatore dell'incubo).

Ascolto la sua voce ed ho subito i brividi: non sapevo cantasse e, soprattutto, non sapevo cantasse così bene. È una donna incredibile, una di quelle persone che riescono sempre a stupirti; uno pensa: va bene, è brava nel suo lavoro; ok, è molto intelligente; va benissimo, solleva pesi come fosse una culturista; ok, magari corre come una maratoneta e non si stanca mai; ma cantare? E così bene?

Ascolto la sua voce e penso a come le cambia il volto l'atto del cantare: si concentra, non so se per non perdere il ritmo o per non dimenticare nemmeno una parola del testo. Chiude gli occhi e sembra isolarsi dal mondo, c'è solo lei e il microfono, e quella stanza, il cielo in una stanza. Canta e ci mette tanto impegno e tanta passione che sembra stia quasi per commuoversi, perché - diciamolo pure - il testo della canzone è struggente, parla di una donna che avrebbe voglia di dire al suo amante "quanto mi mancherai", o meglio, "moriré de las ganas de decirte que te voy a echar de menos", ovvero, tradotto al volo in italiano: "morirò dalla voglia che ho di dirti che mi mancherai".

L'emozione si palpa nell'aria, si concentra e canta e non finisce e va al ritmo delle note della canzone e sembra davvero un essere alieno, sembra che non abbia più nulla a che vedere con tutto ciò che è "terreno", perché diventa "aerea", diventa "etere" che viaggia sulle frequenze di un cellulare che capta anche l'immagine, il suo volto straziante, tanto è assorta nelle parole e nelle note e nel ritmo...

E allora uno pensa che questo è davvero un regalo inaspettato e si domanda anche se se lo merita un regalo del genere. Uno pensa che è davvero una sorpresa grata e che sarebbe bello poterle dire "grazie" dal vivo e in diretta, e, invece, non può, per ora non si può, e allora uno si commuove quasi fino alle lacrime, perché un gesto del genere non glielo aveva dedicato mai nessuno, prima d'ora, e non sa se mai gli ricapiterà, un evento miracoloso che è pieno di amore, di affetto, di amicizia, di stima, e di un'enorme passione nel canto, nella potenza della voce umana di cantare, nella capacità dell'essere umano di volare alto, al di là dei confini spazio-temporali.


martes, julio 27, 2021

 La scrittura e le immagini



È da un po' di tempo che sono ossessionato da un tema: il rapporto (sempre conflittuale, ambiguo e affascinante, oltre che ancestrale) tra la scrittura e le immagini, ovvero, tra le parole e le immagini che queste riescono a creare da sè, ovvero, tra la parole e le immagini che, a volte, gli scrittori introducono nei loro testi (siano essi romanzi, racconti, saggi, poesie, opere teatrali, etc.).

Va da sè che un conto sono le prime, ovvero, le immagini che il romanziere, il poeta, il saggista, l'autore di un testo teatrale, etc. riescono a creare con l'uso attento (estetico) delle parole e un altro (ben diverso) le seconde, ovvero, le immagini "reali" (reali? quale immagine lo è davvero? Platone docet) che un romanziere, un poeta, un saggista, un autore di un testo teatrale, etc. decide (di sua spontanea volontà) d'introdurre nel testo. Ecco: già solo l'introduzione dell'immagine (una fotografia, la riproduzione di un quadro famoso nell'ambito della storia dell'arte, un pezzo di giornale, una pubblicità, etc.) rompe la linearità dell'atto della lettura e obbliga a fermarsi, obbliga il lettore a pensare e a porsi la domanda: "cosa guardo? cosa rappresenta quest'immagine? cosa vuole dirmi l'autore introducendo nel suo discorso - letterario - un'immagine di questo tipo? che rapporto ha l'immagine con il testo in cui è inserita? e perché?".

Da bravo studente (o da ricercatore responsabile) mi sono andato a cercare la bibliografia più recente sull'argomento e mi sono imbattuto in un saggio molto ben scritto di Michele Cometa, un libro che s'intitola (guarda un po' il caso): La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale (Milano, Raffaello Cortina, 2012). È un saggio pieno d'idee e spunti interessanti, un libro denso, e ricco d'immagini...E mentre lo leggo con la matita in mano penso a quanto è difficile non perdersi nell'immensa massa e mole d'immagini che ci sommergono da quando ci svegliamo la mattina fino a quando andiamo a letto a dormire la notte. Siamo sempre bombardati dalle immagini le più disparate e variopinte. I nostri occhi (la nostra vista) portano a termine un lavoro immenso, se calcoliamo le miriadi, i milioni d'immagini che poniamo alla loro attenzione in modo costante e, a volte, spesso, del tutto involontario.

Questa sera (o, per meglio dire, questa notte: sono le 1:15) dovrei iniziare il capitolo 4, "La Madonna del pensiero", ma invece di leggere mi fermo a pensare a questo fatto del tutto banale eppure straordinario: i nostri occhi guardano tutto, cercano di scannerizzare tutto, tutti i giorni, tutte le volte che un'immagine li punzecchia, li titilla, li stimola, volenti o nolenti (molto spesso nolenti). E noi non impazziamo. Voglio dire: nel maremagnum delle centinaia e centinaia d'immagini che arrivano fino al nostro nervo ottico, noi non soccombiamo, continuiamo a vivere come se nulla fosse, guardiamo ed elaboriamo il dato, e andiamo avanti...spesso senza nemmeno renderci conto di ciò che abbiamo appena visto.

E mentre il camion della spazzatura fa il suo dovere e fa il suo tipico rumore notturno, penso a come è incredibile che la vista svolga il suo lavoro in silenzio: gli occhi non parlano, anche se alcuni sono molto espressivi (e sono lo specchio dell'anima, secondo gli antichi). Gli occhi non emettono frasi, ma vedono e registrano tutto e ci permettono di andare avanti senza inciampare, di capire con chi abbiamo a che vedere (scusate il gioco di parole), di intuire se di una determinata persona ci possiamo fidare oppure no, innamorare oppure no, e così di seguito, in un continuo esercizio d'equilibrismo sul bordo dell'abisso. Gli occhi non parlano, ma sono eloquenti a modo loro e lasciano intravedere verità spesso scomode e lanciano messaggi muti. Pensiamo solo per un momento agli occhi della Monna Lisa di Leonardo; a quelli della Madonna della Pietà di Michelangelo; agli occhi dei molti personaggi con la bombetta nei quadri di Magritte; agli occhi dell'uomo disperato del Grido di Munch.

E poi dall'arte, dalla pittura e dalla letteratura, facciamo un salto più in là e pensiamo a tutti gli occhi di tutte quelle persone che sono state importanti nella nostra vita. Agli occhi di nostra madre; a quelli dei nonni; agli occhi della donna amata; a quelli delle donne amate in passato e ora finite chissà dove e chissà con chi; pensiamo agli occhi di chi ha pianto davanti a noi o agli occhi di ancora ride senza censure davanti a noi... Pensiamoci. E poi proviamo a chiudere gli occhi. Perché l'insonnia è una brutta bestia e perché io devo ancora finire di leggere tutto La scrittura delle immagini. La scrittura e le immagini. Le parole e le immagini. Le parole e le cose.

sábado, julio 24, 2021

 Accettare il presente



Dunque, il punto è questo: facciamo fatica ad accettare il presente, ovvero, a vivere lì dove stiamo e nel momento in cui siamo. Senza dover scomodare Sant'Antagostino, abbiamo una tendenza innata nello spostarci lungo l'asse del tempo tornando (e guardando) indietro, verso il passato e i ricordi ad esso legati, e, al contempo, ad anticipare eventi e pronostici spostandoci (e spiando) in avanti, verso il futuro e i sogni e le illusioni ad esso legati. Nel mezzo, appunto, c'è quel presente che facciamo fatica a vivere in quanto tale e a spremere quanto sarebbe opportuno spremerlo, a goderlo, a viverlo fino in fondo, con tutti i pro e tutti i contra che un'operazione del genere implica (è inevitabile che ci siano "presenti" che vorremmo sfuggire o evitare come la peste; così come ce ne sono altri che vorremmo non finissero mai, come quando stiamo bene con la persona amata o stiamo godendo a letto grazie ad un orgasmo dato o ricevuto dalla persona amata o come quando sappiamo che stiamo per incontrare la persona amata e già solo quest'idea ci eccita e ci spinge a goderne al massimo - Leopardi docet: "Non è tanto la soddisfazione del piacere a dare piacere quanto l'attesa del piacere" - o non era lui? Fa niente, andiamo avanti).

Insomma, abbiamo quasi sempre (quasi tutti) un rapporto piuttosto conflittuale con il "momento presente" e tendiamo quasi sempre (quasi tutti) ad idealizzare i "momenti passati" (o a guardarli con tenerezza e una certa nota malinconica o nostalgica) e ad anticipare i "momenti futuri" (come se non lo sapessimo già che ogni "anticipazione" potrà venire contraddetta dalla realtà fattuale). E questo è ciò che ho sperimentato guardando un film struggente e assolutamente pessimista, uno di quei film che non andrebbero mai guardati quando uno si sente solo e depresso e avrebbe voglia di suicidarsi (in senso metaforico, almeno nel mio caso): mi riferisco a Revolutionary Road, di Sam Mendes, del 2008, con gli splendidi Leonardo Di Caprio e Kate Winslet (due interpretazioni da Oscar, non ci sono dubbi).

Ecco: in Revolutionary Road lo spettatore tocca con mano (e vede con gli occhi) che cosa significa per noi, esseri umani, non riuscire a vivere il presente: lei sogna di trasferirsi a Parigi, dove spera che lui torni ad assaporare la vita e l'amore al massimo grado; lui all'inizio si lascia convinvere dalla proposta romantica di lei, ma poi, dinanzi ad un considerevole aumento di stipendio e di contratto, decide che forse è meglio restare negli Stati Uniti d'America, che forse anche nell'ambito di una "normale" vita borghese benestante si può essere felici o si può vivere una vita felice. È a partire da questo contrasto di vedute che scoppia la tragedia: lui non vuole più rincorrere i sogni del passato in nome di un futuro diverso, mentre lei non riesce più ad accettare il presente, dopo un passato tanto roseo e un futuro negato (per colpa del pragmatismo e del materialismo di lui).

Non serve che mi metta a "spoilerare" qui come finisce la storia; ripeto, è una storia tragica, assolutamente cupa e triste e deprimente... E uno, dopo che ha avuto modo di vedere un suo terzo articolo pubblicato sulla pagina culturale di un giornale importante della regione in cui si trova; uno che ha avuto la fortuna di pranzare con uno scrittore di notevole prestigio e alta qualità letteraria; uno che ha goduto di Eros grazie al trasporto passionale e assurdo di una donna eccezionale sia sul fronte fisico che su quello intellettuale; ecco, uno che ha potuto vivere queste esperienze (ed altre che non sto qui a citare), non dovrebbe sentirsi depresso o triste o solitario o angosciato a tal punto da mettersi a guardare un film come Revolutionary Road. Uno dovrebbe avere il coraggio di dirlo: "Ho vissuto queste esperienze e sono state tutte positive ed eccitanti e gratificanti e stimolanti" e non rimpiagere il passato se già paventa che quello che è stato vissuto "al massimo grado" non tornerà più in futuro. Uno dovrebbe accontentarsi e guardare alla vita con allegria e ottimismo, invece che piangersi addosso. L'ho già scritto in un altro "post" del passato: siamo tutti degli eterni insoddisfatti, sempre scontenti di ciò che già abbiamo e desideriamo sempre ciò che non c'è o non è a nostra portata di mano. Dovremmo davvero imparare a "desiderare ciò che abbiamo", come disse una volta il regista Bigas Luna citando - forse - proprio quel Sant'Antagostino che non ho voluto scomodare qualche frase più su... Uno dovrebbe - accidenti - imparare ad accettare il "presente" senza troppe pretese, senza paure, senza rimpianti, senza eccessiva nostaglia. Dovrebbe. Dovremmo. Ma non è (mai) facile e pure questo lo si sa (lo sappiamo).

miércoles, julio 14, 2021

 Il 14 luglio del 2021


È passato più di un mese dall'ultima volta che ho scritto su questo diario di bordo ai confini della realtà (virtuale e reale: ma le due tendono a mescolarsi, diventa complicato, a volte, distinguerle in modo netto).

È passato tanto tempo da quel dì e sono successe cose che hanno stravolto la mia vita: come se un terremoto l'avesse scossa dalle fondamenta (fondamenta che io credevo ben salde, e invece? Può crollare - sempre - tutto da un giorno all'altro; dovremmo esserci abituati a camminare lungo il filo del rasoio, dovremmo saperlo che tutto questo potrebbe scomparire da un momento all'altro, o no? Siamo esseri mortali che fingono di non ricordare che la morte è onnipresente e sempre dietro l'angolo).

Ieri, dopo più di un anno, una ventina (o trentina) di colleghi, alcuni uniti tra di noi da amicizia vera e profonda (tante le battaglie combattute l'uno al fianco dell'altro) siamo riusciti a riunirci e a vederci in un ristorante nella periferia dotato di un numero impressionante di kilometri quadrati per permettere il distanziamento sociale.

Ed è stato bellissimo vedere come tutti avevamo la stessa identica voglia di respirare la libertà e di divertirci e di staccare dagli orrori della realtà quotidiana, dallo stress estremo del lavoro, in un anno orrendo per colpa del virus e delle morti a milioni in tutto il pianeta, tutti con un'incredibile desiderio di dimenticare il passato e di vivere il presente al massimo, come se il futuro non ci fosse o fosse ancora tutto da scrivere.

E io mi sono lasciato andare e ho detto qualche parolina di troppo e fatto forse troppe battutine a sfondo sessuale e cantato Juanes, Volverte a ver, quando non era il caso di farlo davanti a certi colleghi oltremodo politicamente corretti.

E poi c'era lei. E con lei il fuoco della passione arde, ogni volta che ci vediamo gli sguardi parlano senza bisogno di linguaggio verbale, i corpi dialogano a distanza, la passione si trasmette attraverso le vene senza che nessuno se ne accorga o almeno è questo ciò che entrambi pensiamo: circondati da persone adulte, io e lei ci isoliamo dal branco per vivere l'uno nel cervello dell'altra, mentre le mani si divincolano e si cercano, si stringono e si baciano...e i corpi ballano a distanza la stessa danza...

Un mese e passa dall'ultimo "post" intitolato "La meraviglia e la vita (di tutti i giorni)", perché la vita è meraviglia da vivere ogni giorno (tutti i santi giorni), se soli si è disposti a cedere al suo incanto (e all'incantesimo di certi sguardi che ci permettono d'intravedere l'infinito).

Il 31 luglio tornerò in Italia, atterro a Bari, in Puglia, con l'emozione enorme di scoprire una terra che mi ha sempre affascinato. E oggi, il 14 luglio del 2021, io penso a lei e alla gente che ci ha fatto festa, al limoncello di Sorrento bevuto in una terrazza di un attico in pieno centro così bello e accogliente ed elegante da sembrare di essere a Madrid, o a Barcelona, o a Roma, o a Parigi...la città ai nostri piedi, l'orizzonte sconfinato e pieno di stelle.

Siamo tornati a casa alle 3, tutti ebbri di felicità, tutti felici di aver vissuto questa giornata così lunga e densa e piena di risate e di misteri irrisolti e di bocche che si cercano per darsi baci che ubriacano d'estasi e di gioia (a quando il prossimo? Ci sarà davvero una prossima volta?).

Sono troppo poetico, ultimamente. Ma la vita è anche questo: essere troppo poetici, vedere sempre il lato poetico del quotidiano, farsi trasportare dai ritmi e dalle rime interne della lingua, come se non esistesse la prosa (del mondo).

miércoles, junio 02, 2021

 La meraviglia e la vita (di tutti i giorni)

Potrei iniziare questo "post" dicendo che il 27 maggio del 2021 io e una persona a me molto cara abbiamo deciso di "disturbare l'Universo" in un modo del tutto inaspettato e che ci ha dato le vertigini (come quando uno cammina sul bordo dell'abisso).

Oppure potrei iniziare dicendo che questo è un periodo pieno di alti e bassi (ma quale periodo non è tale?) e che è comunque bello vivere la montagna russa della vita di tutti i giorni, proprio perché nocciolo della questione è l'onnipresenza dell'elemento sorprendente all'interno di ognuno dei giorni che ci è dato di vivire.

O ancora, ricorrendo ad Aristotele, potrei parlare della meraviglia, ovvero, della sorpresa che l'essere umano sperimenta dinanzi all'inaspettato e all'ignoto e di come questa stessa sorpresa che ci fa restare a bocca aperta possa diventare il motore che ci spinge a riflettere o, almeno, a cercare di capire. Se uno non si meraviglia, non riflette o non avverte l'impulso a cercare di capire. La meraviglia intesa come curiosità è il "motore" che fa "muovere" il mondo e le altre stelle...

Oppure, ancora, potrei citare Nuccio Ordine e un suo bellissimo articolo in memoria di Franco Battiato apparso per El País, o fare riferimento alla bella notizia del fatto che, finalmente, la mia traduzione di alcuni racconti di un autore spagnolo che ammiro molto vedrà la luce ad agosto...

O ancora rallegrarmi del fatto che molto probabilmente questo sabato 5 di giugno uscirà il mio secondo articolo per la stampa.

O ancora gioire insieme ad una collega che so che andrà a Madrid perché ha vinto un concorso e potrà finalmente coronare il suo sogno di andare via dall'Università privata in cui sta e in cui - come tutti - viene sfruttata a volte in modo indecente. Sì, potrei rallegrarmene e dispiacermene, allo stesso tempo, perché sapere che non ci vedremo più tra i corridoi del dipartimento mi rende triste, nostalgico, malinconico... È una collega bella e intelligente, sensibile e appassionata, una che si merita questo ed altri successi nella vita professionale ed accademica, una che, se continua così, diventerà famosa come Nuccio Ordine...

E poi c`è il sorriso della prole e quello della mia compagna di avventure. Il viaggio imminente della mia mamma e quello dei miei fratelli (lei fra 6 giorni, loro fra 1 mese). E l'idea che il virus prima o poi verrà sconfitto e noi si possa tornare a viaggiare e a sognare ad occhi aperti.

La vita è davvero meravigliosa nella sua assurdità e nelle sorprese che ci offre, negli alti e bassi e nelle montagne russe emozionali che la caratterizzano, nelle sensazioni che ci fanno tremare e ci fanno godere fino a vette inimmaginabili, negli affetti e nelle passioni che si possono scatenare in meno di un minuto ("togliti la mascherina" è una delle frasi pandemiche più normali e quotidiane di questi tempi e, al contempo, l'inizio di un evento che può sconvolgere il ritmo normale del passare delle stagioni, una questione di vita o di morte, l'annuncio di una tempesta o dell'arrivo dell'alba). E noi siamo ancora qui a restare a bocca aperta, a meravigliarci, a goderne, a gioirne.

miércoles, mayo 26, 2021

Suicidio 


Dopo un lauto pranzo a base di pizza e mozzarella di bufala in compagnia della mia compagna d'avventure, di un giornalista e di un avvocato, mia madre m'informa di una notizia sconvolgente: il fratello di un mio amico dei tempi delle scuole medie si è suicidato questa mattina, dopo aver accompagnato i figli (di 10 e 12 anni) e dopo aver fatto la spesa e averla riposta nel frigorifero e negli scomparti della credenza.

Non ha lasciato bigliettini né messaggi di addio di sorta. È andato in giardino e si è impiccato all'albero più grande della sua bella casa di montagna, nella città in cui sono nato e vissuto fino ai 18 anni d'età.

Ricordo che l'ultima volta che ci siamo visti sarà stato verso l'estate del 1992 o 1993. Eravamo entrambi dei ragazzini. Adolescenti senza pensieri o coi pensieri tipici di quella tappa esistenziale... Lui andava spesso in bici, mentre io e suo fratello minore giocavamo a calcio, in un prato molto grande e non so se molto simile a quello in cui ha deciso di togliersi la vita proprio questa mattina...

Ed è incredibile come una notizia apparentemente lontanissima da me e dalla mia vita in Spagna riesca a sconvolgermi e a togliermi il fiato. È incredibile che si sia tolto la vita un uomo di 2 anni più di me, sposato, con una moglie maestra all'asilo, lui impiegato in una delle aziende più grandi della zona, due figli di 10 e 12 anni che da stamattina sono diventati, improvvisamente, inesorabilmente orfani...e sua moglie (che non conosco né saprei riconoscere anche se ce l'avessi di fronte) è diventata vedova, senza volerlo, senza poterlo minimamente immaginare pochi secondi prima di ricevere la notizia (e chi l'avrà scoperto in giardino impiccato dall'albero più alto e grande? Sarà stata proprio lei? Saranno stati i figli? Spero proprio di no. Prego affinché sia stato un altro il testimone oculare condannato a scoprire il suicidio).

E le domande sono sempre le stesse: ma perché l'ha fatto? Come ci si può togliere la vita con una vita come la sua? Che problema aveva? Possibile che fosse depresso? Ma perché non ha lasciato scritto nulla?

Domande assurde e senza senso. Perché nessuno di noi potrà mai sapere davvero il motivo che spinge un essere umano a togliersi la vita. A sparire per sempre dalla faccia della terra. A smettere di respirare.


martes, mayo 18, 2021

Franco Battiato 


Sono gli amici e colleghi spagnoli ad informarmi: "È morto Franco Battiato". E la mente corre immediatamente al 1998, a quando, a 21 anni, comprai la cassetta del suo disco di quell'anno, Gommalacca, un'opera piena di suoni strani, di musica elettronica accompagnata dalla voce di Maria Callas, di canzoncine apparentemente allegre e di pezzi dalla malinconia struggente.

Ascolto su YouTube uno dei pezzi che più m'impressionarono, all'epoca, Quello che fu:

Ah! Questo passato
Dove il mio rifugio presso di te
Fu quello che fu,
Dove la polvere più pura sulla tua soglia,
Fu quella che fu.

Sembra di stare ascoltando T. S. Eliot, quello dei Four Quartets. E poi va avanti:

Duri come pietre
Come due amici eravamo insieme.
Preso del tuo cuore
Ho detto che il nostro legame
Fu quello che fu.
Irragionevole,
Non ci poteva niente,
Non potevo immaginarmi senza.
La follia
Fu quella che fu...

E ricordo che quando imparavo a memoria questi versi mi veniva subito in mente la mia ex, una delle storie d'amore più travolgenti e più cinematografiche che abbia mai vissuto (finora), una storia da film alla Pedro Almodóvar.

E poi la canzone continua ed è come se chi canta si spostasse nell'interspazio o nello spazio intergalattico:

L'impero delle parole
La distinzione tra bene e male
La ripida discesa dal cielo alla terra
Disperata
Verso l'incarcerazione
Fu quello che fu
La circumnavigazione
I nomi che si diedero alle cose
La gioia e il dolore dell'esistere
L'enigma del consenso
Le emozionali imprese della specie
Fu quello che fu,
Tutto fu quello che fu.

È come se Battiato (e Sgalambro?) stesse riassumendo la Storia dell'Universo in questi pochi versi, dotati di una poeticità, di una densità metaforica potentissima ("l'enigma del consenso": cosa vorrà dire? A quale consenso si starà qui riferendo Battiato?).

E poi sembra di leggere Nietzsche, in particolare quello di Così parlò Zarathustra (o anche il Sant'Agostino delle Confessioni):

Tutto fu quello che fu.
Quel che deve ancora avvenire
Il sorgere della città di Dio
L'emblema che ci fa forti e sicuri
Oppure pazzi e disperati.
Ti gridavo: sono disperso,
Disperso,
Disperso.

Disperso. Ecco. È così che mi sento ora, rileggendo questo testo, scrivendone in questo diario virtuale e riascoltando la canzone dal computer. Come se Franco Battiato cantasse queste parole proprio per me. Come se me le dicesse per la prima volta. Anche se da una distanza incalcolabile, da un mondo estraneo e lontanissimo da me, da una dimensione che non si può definire con il linguaggio verbale.

È il 18 maggio del 2021: Franco Battiato è morto. E forse non sono il solo a sentirsi "disperso", come dice chi canta in Quello che fu...

jueves, mayo 06, 2021

 Sul giornale



E così, il 1 maggio, quando in Italia i giornali non escono prorio, per la prima volta in vita mia, vedo un mio articolo pubblicato su un quotidiano locale, uno di quei giornali "storici" che sono anche tra i più letti nella regione del Sud del Sud della Spagna in cui mi trovo a vivere...(il primo numero uscì nel 1903...sì che è "storico", il quotidiano in questione).

Fa davvero effetto vedere le proprie parole trasformate in colonne infilate all'interno delle prime 2 pagine del supplemento culturale che esce ogni sabato insieme al giornale suddetto. Fa effetto e fa emozionare vedere le illustrazioni coloratissime e/o in bianco e nero che accompagnano il suddetto articolo.

Il giornalista che mi ha proposto di partecipare mi ha lasciato carta bianca: "Scrivi su ciò che vuoi; su ciò che ti appassiona". E così, il primo mio articolo che porta il mio nome e che appare in un quotidiano letto da tutti i lettori della regione ancora affezionati alla carta stampata, verte su Don Quijote e il cinema (su come il famoso "hidalgo" impazzito a furia di leggere romanzi cavallereschi è finito sul grande schermo sin dalle origini della settima arte, sin dai primi esperimenti visivi fatti dai primissimi registi della Storia del Cinema).

La cosa più assurda è che ho iniziato a ricevere i complimenti via Facebook da parte di sconosciuti, di gente mai vista prima, di lettori che, magari poche ore prima, non sapevano nulla nemmeno della mia esistenza (figuriamoci del nome, o del cognome, o della mia passione per la letteratura spagnola - e chissà quanti si saranno sorpresi a leggere di Cervantes e di Don Quijote nella loro lingua, ma in un pezzo scritto da un italiano...).

E la cosa più bella è stata ricevere anche i complimenti di quegli scrittori e colleghi e professori che, invece, sì che mi conoscono o con cui ho avuto modo di parlare di letteratura o di libri o di letture davanti a una birra, magari seduti in qualche terrazza di qualche bar o caffetteria del centro. 

Incredibile l'affetto che uno può condividire con gente che appartiene ad un'altra cultura, ad un'altra nazione, ad un altro mondo, quando di mezzo ci sono i libri...e, appunto, la cultura, in generale (la cultura ci salva, o può davvero aiutarci ad essere più vicini e più umani).

L'articolo è andato talmente bene che l'amico giornalista mi ha subito fatto notare che è tra i "trending top" (o "topic"?) del momento e che se voglio, in futuro, potrò continuare a scrivere nella pagina culturale. 

La notizia mi ha commesso e sorpreso allo stesso tempo: per ora preferisco di no; ma chissà che in futuro non mi vengano nuove idee. È comunque difficile scrivere in così poco spazio (un giornale obbliga necessariamente alla sintesi) e per un pubblico così "fluido" e "anonimo" per chi si azzarda a rendere, appunto, pubblici i propri pensieri o le proprie riflessioni personali.

È comunque una bella avventura. Ed è stato bello iniziarla in compagnia di quel folle "hidalgo" del Cavaliere dalla Triste Figura e del suo fedele scudiero Sancho Panza.

miércoles, abril 28, 2021

Le paure, le ansie, il tempo che scorre 


Dunque, mercoledì scorso, il 21 di aprile, la dottoressa (medico di famiglia) mi prescrive un antinfiammatorio per la gola e - come da prassi, visti i tempi - un tampone per appurare se ho il virus.

Alle 12:30 mi presento puntuale nella postazione organizzata ad hoc dalla mia ASL (o "Centro de Salud", che è come si dice ASL in spagnolo).

L'infemiera che mi fa sedere sull'apposita sedia è tutta intabarrata; da dietro la mascherina e la visiera riesco a intuire un sorriso falso. Il tono di voce è davvero freddo e poco empatico: "Siediti qui". Io tremo; lei rincara la dose: "È un po' antipatico, un po' sgradevole, ma passa subito". Bene. Penso fra me. Ma proprio a me doveva capitare un'infermiera antipatica?

Ed in effetti il bastoncino spinto fino al cervelletto fa male. Quando torno a casa e mi soffio il naso esce un po' di sangue, oltre al muco d'ordinanza. La dottoressa mi ha avvisato: entro le prossime 24 ore ti daremo il risultato. 

Bene.

In questo mondo pazzo odierno "negativo" è "positivo" e viceversa. Attendo fiducioso. Intanto, rimando una lezione il giorno dopo perché non ho quasi più voce. Passa tutto giovedì. Niente. Cellulare muto. Passa tutto venerdì. Niente. Nessuno che si faccia sentire. Allora, sabato mattino sono io che chiamo la ASL e dò il mio nome e il numero della carta d'identità. L'infermiera mi dice che a breve mi richiamerà la dottoressa, che ci deve essere stato un disguido. Ed in effetti la dottoressa mi chiama di lì a poco, è sabato mattina, sono ancora nel limbo, insomma, me lo vuole dire il risultato?

"È negativo, stia tranquillo. E le chiedo scusa, c'è stato uno spiacevole errore meccanico. Non mi hanno mandato il suo risultato nel mio computer. Non so come sia potuto succedere".

La gioia di ascoltare quella parolina: "negativo", fa sfumare la rabbia. Mi accascio a terra. La mia compagna di sventure apre la porta della camera e mi si avvinghia al collo e mi da un bel bacio sulla bocca. Non sono ancora morto. Sono anzi salvo. Sono vivo. Sono...

La notte, preda di una strana insonnia, guardo un video del 2015 in cui Remo Bodei, con la sua consueta eleganza ed erudizione umanista, parla dell'enigma del tempo. Cita Samuel Butler, di cui non ho mai letto nulla, e mi viene subito voglia di leggere Erewhon, una sorta di romanzo distopico che è anche una satire della società vittoriana. Letto al contrario, il titolo segnala un "non luogo" (Nowhere) che mi evoca subito i 3 giorni passati ad attendere la chiamata della dottoressa per sapere il risultato del test al coronavirus. 

Cerco su internet le varie edizioni del libro di Butler, sia in spagnolo che in italiano. Se ne trovano di recenti, ma anche di vecchie, risalenti agli anni 40 o 50 o 60. Sono tentato di comprare un'edizione del 1944 (traduzione a cura di Aldo Solari, la casa editrice - romana - si chiama, di fatto, "Editoriale Romana").

Poi ripenso a come è stato bello, lunedì 26 aprile, tornare a lavoro e guardare faccia a faccia amici e colleghi dell'Università. A come è bello respirare, malgrado la pandemia e le mascherine. A quanto mi piace il mio lavoro, quando la voce torna ad essere quella di sempre. A come è bello ricordare la commemorazione del 25 aprile, la domenica, la festa della liberazione dal nazi-fascismo. È bello sapere che in Italia certe date sono ancora importanti. E si festeggiano.

lunes, abril 19, 2021

 Senza voce

Ecco che la voce scompare, si affiovolisce, flatus vocis dopo una raucedine divenuta faringite (ma posso fidarmi del verdetto di una collega di Glottodidattica? Da quand'è scoppiata la pandemia, siamo diventati tutti esperti, oramai).

È iniziato tutto sabato 17, di pomeriggio: proprio mentre ascoltavo la lettura (o "recital") del libro di microracconti di un grande scrittore spagnolo che ammiro e che mi sono azzardato a tradurre e a proporre ad un editore italiano.

Ho mandato il link su "zoom" anche al suddetto editore e lui...che strano, vero?, non si è degnato nemmeno di una risposta.

Bellissimo l'evento online: al piano, un musicista di fama internazionale; al microfono, lo scrittore che ammiro; al fondo, con interventi brevi e programmati, la figlia dello scrittore, M., che legge i microracconti da me tradotti in italiano (ha fatto l'Erasmus a Bologna e l'esperienza le è servita, a quanto vedo e sento, anche se per lei è quasi impossibile mascherare il suo accento spagnolo, ma anch'esso contribuisce al successo della  performance, aggiunge un tocco esotico che non stona affatto).

Poi la situazione si aggrava e oggi pomeriggio, invece di fare lezione io da solo, davanti al pc, ho ceduto la parola a Nuccio Ordine, che, in un video reperibile su YouTube, ci ha spiegato l'importanza dei classici, la fondamentale "utilità" dell'intuile, la bellezza della letteratura, la potenza delle parole, la centralità della cultura nel mondo in cui siamo finiti (sommersi).

Ed ecco che l'editore ha forse visto il "recital" e mi fa scrivere da due colleghi: una tale S. che si occupa di "editing"; e un tale F. che mi chiede il testo originale in spagnolo per confrontarlo con la mia versione italiana... Mi mettono fretta (o vogliono darsi una mossa), quando è da circa 3 mesi che si parlava di "gioco fatto", e che basta scegliere solo la copertina, il libro è pronto per la stampa, ma ne siamo sicuri? No. Non si può mai essere sicuri quando si ha a che fare con un editore. E chissà come si concluderà questa storia.

Di certo, domani mi toccherà inventarmi qualcos'altro per supplire al mutismo. Solo chi si dedica all'insegnamento può capire quanto sia centrale, basilare, fondamentale, imprescindibile la voce di cui disponiamo. È il nostro strumento chirurgico principale. L'unico mezzo che abbiamo per trasmettere il nostro sapere, anche in un contesto assurdamente virtuale come quello in cui ci troviamo in questi mesi di pandemia e di schermi, di contagi e di stress, di voglia di normalità e di paletti imposti per legge, di paura e di speranza, di videoconferenze e congressi tutti "online" e di distanza "reale" dai nostri affetti più cari.

Fino a quando potremo ancora resistere?

jueves, abril 08, 2021

 Billy Wilder e la Vita privata di Sherlock Holmes (1970) o della voglia di restare in vacanza per sempre



La flanella del pigiama è come un utero materno: mi avvolge in un'atmosfera calda che sa di buono e di antico. Siamo passati dai 30 gradi dell'estate di ieri (giorno festivo, nella città del Sud del Sud della Spagna in cui mi trovo e vivo e lavoro) ai 15 dell'inverno di oggi (ma mia madre mi tiene aggiornato: nel paesino sui monti d'Abruzzo in cui sono nato sta nevicando: il 7 di aprile e nevica, incredibile, nevvero? La mattina dopo si sono svegliati a -5 gradi).

Anche la coperta sotto cui guardo il film disteso sul sofà è di flanella: io e la mia compagna di avventure siamo dei veri feticisti, quando si parla di artefatti prodotti con e di e grazie alla flanella. 

Il film in questione è uno dei capolavori tardivi di quel genio di Billy Wilder, ovvero, The Private Life of Sherlock Holmes, un film del 1970, ovvero, di 7 anni anteriore alla mia venuta su questa Terra.

È un film strano, strambo, dal ritmo cangiante: se nella prima parte veniamo a sapere di una diva russa, una ballerina di altissima alcurnia, che vorrebbe prolungare la specie facendosi ingravidare dallo stesso Sherlock Holmes, nella seconda il famoso protagonista dei romanzi di Arthur Conan Doyle deve vedersela con una spia tedesca che, sotto le mentite spoglie di una ricca belga, finisce in casa sua una notte di pioggia per poi coinvolgerlo in un viaggio fino a Inverness, in Scozia, il paese del mostro di Loch Ness.

Il sesso è onnipresente, da molteplici e variopinti punti di vista: se nella prima parte è lo stesso Holmes a inventarsi un'omessualità che vede nell'amico e fidato Watson il suo lato più intimo e perverso (con buona pace del povero Dottore, che gay non lo è né è interessato a esserlo né a sembrarlo), nella seconda parte è sempre Holmes a dare sfoggio di un rapporto diciamo conflittuale con il gentil sesso. I dialoghi con la spia tedesca finta ricca belga sono pieni di ciò che oggi il codice del cosiddetto "politicamente corretto" definirebbe "machismo". All'epoca, forse, si sarebbe parlato soltanto di misoginia. Fatto sta che quando si tratta di portarsi a letto una donna (o di giacervi), il nostro amato investigatore privato o si finge omo o evita il contatto. Perché?

Mi faccio domande cui non voglio trovare risposte. Lo faccio apposta. Evito anche di digitare il titolo del film su Wikipedia. Rimembro il finale geniale di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) del 1959, con la splendida Marilyn Monroe e mi rammento, all'improvviso, che entro questo mese o a maggio mi toccherà presentare Apocalypse Now al cinema (quando? in che giorno esattamente? non coinciderà mica con qualche lezione online?).

Il sesso e l'omosessualità erano onnipresenti anche in quel capolavoro: in modo più solare e divertente, oserei dire, non con i tratti a volte cupi o da romanzo gotico di questa ennesima prova di regista che non si accontenta di chiosare ma che reinventa, per certi versi, il personaggio romanzesco di Conan Doyle (uno che s'intendeva anche di mostri e di dinosauri: l'essere mostruoso che attraversa le acque del Loch Ness potrebbe avere una lontana parentela con i mostri di The Lost World, ovvero, Un mondo perduto, che è del 1912, e da cui Steven Spielberg trarrà uno dei suoi tanti successi di botteghino nel 1993: di Jurassic Park ricordo perfino un flipper nel bar della periferia del mio paesello d'origine, quando ero adolescente e non sapevo nulla di Conan Doyle).

E forse, sia il sesso che la guerra tra i sessi sono presenti anche negli altri film di Wilder: pensiamo al delizioso Quando la moglie è in vacanza, del 1955, o al mitico L'appartamento, del 1960, con uno strepitoso Jack Lemmon e una indimenticabile Shirley MacLaine...

Il sesso. Un'ossessione. Un'idea fissa. L'ultimo dei miei pensieri quando vado a dormire, il primo dei miei pensieri al risveglio, disse Groucho Marx in qualche suo film da operetta o in qualche albo di Dylan Dog.

Il giorno dopo, lasciamo la flanella e ci concediamo due ore di percorso "benessere": SPA, sauna azteca, russa e non ricordo più di quale altra nazionalità; piscina con i limoni e l'idromassaggio; piscina con acqua di mare (salata); piscina con acqua bollente; piscina con aqua freddissima; l'igloo a -10 gradi sotto lo zero; e poi un massaggio con creme all'essenza di non ricordo più cosa...Siamo a 20 minuti dal centro, ma sembra di essere all'altro capo del Mondo; per un po' dimentichiamo i dolori del vivere quotidiano; lo stress; la rabbia; le incomprensioni; la prole; le tasse; la pandemia; tutto dimenticato...usciamo dal balneario come nuovi. Mancano solo 4 giorni al ritorno all'Università e alla routine, ma io vorrei vivere tutta la vita in vacanza. Magari a guardare tutti i film di Billy Wilder o a leggere tutte le avventure che il Dottor Watson scrisse in memoria dell'amico (e non amante) Sherlock Holmes.


jueves, abril 01, 2021

 Aria di Pasqua

Dunque, l'aria di Pasqua si respira anche qui: nonostante il virus, masse di persone desiderose di vivere un po' di libertà e di ogni età si preparano a riunirsi attorno ad un paio di birre o di bicchieri di vino per provare a distrarsi un po'... Ovviamente, c'è già chi parla di quarta ondata di covid-19 (e proprio come in Italia, anche in Spagna si fanno i conti con l'ansia e lo stress del momento, con infermieri e medici allo stremo e feste proibite organizzate in appartamenti privati da gente senza cervello: molti i giovani senza mascherine e che fumano allegramente insieme a 10-20-30 coetanei, ignari del pericolo delle loro sbronze; molti anche qui i ritardi nella vaccinazione, non solo dei più anziani e dei più deboli).

È dell'altro giorno la notizia di orde di francesi che si trasferiscono a Madrid proprio perché città "aperta" agli stranieri: il corrispondente dalla Spagna per RaiNews24 si sorprende pure lui a contemplare una tale fauna; baristi e gestori di ristoranti sorridono (per il momento) e ringraziano (devon pur vivere del loro lavoro e non posso non comprenderli).

Nel mentre, provo a leggere un saggio di Victor Stoichita che so già che mi appassionerà, obbligandomi a stare sveglio fino a notte fonda: in Effetto Sherlock (2015), il famoso storico e critico d'arte studia e analizza quei quadri e quei film che, da Monet a Hitchcock, pongono in primo piano la problematizzazione dell'atto del guardare. Ho letto solo il primo capitolo, "Ostacoli", che contiene l'analisi di alcuni dei quadri famosi degli impressionisti più noti in cui lo sguardo si scontra con vari tipi di ostacoli, come, ad esempio, le inferriate, e mi sono già innamorato di questo libro. Ho conosciuto Stoichita in spagnolo, qualche mese fa, grazie al suo saggio La invención del cuadro (del 1998) e questa nuova esplorazione critica attorno alla domanda: "cosa vediamo quando guardiamo qualcosa?" non fa che ribadire (dal mio punto di vista) la qualità, la tensione narrativa, la sapienza, l'erudizione mai superba, l'umiltà di chi fa ricerca per passione e per vero amore di sapere di Victor Stoichita.

Nei prossimi giorni, proprio perché non si potrà viaggiare, proverò a godermi un po' di mare e di bici e proverò a guardare un film che fa rima con il diario di Friedrich Reck: Duello mortale (titolo originale: Man Hunt) del geniale Fritz Lang. Si tratta di un film del 1941 che - quindi - in piena Seconda Guerra Mondiale narra di un americano che si reca in Germania per uccidere Hitler. Verrà catturato dalla Gestapo e dovrà sudare parecchio prima di riuscire a sfuggire alle grinfie dei nazisti. Dicevo supra che fa rima con il Diario di un uomo disperato perché anche lì l'aristocratico cattolico che scrive ha sognato di uccidere Hitler. Anzi, avrebbe potuto ucciderlo, all'interno dell'osteria in cui si è imbattuto nell'incarnazione del Male. Ma non ha premuto il grilletto. E Hitler si è salvato. Unica differenza tra Friedrick Reck e il protagonista del film di Lang è che il primo è morto davvero, a Dachau, per mano nazista, mentre il secondo ha potuto immaginare l'assassinio del Nemico attraverso i sogni ad occhi aperti che ha potuto costruire grazie al cinema e al linguaggio cinematografico (dopo suo trasferimento in America forse proprio a causa dell'avvento dei nazisti).

E chissà come si sarà divertito Quentin Tarantino quando, nel finale di Inglorious Basterds (2009), ha immaginato e girato la scena dell'esplosione in cui Hitler, Goebbles e Himmler muoiono urlanti in pasto alle fiamme di un film che non avrebbero mai voluto vedere proiettato su un grande schermo...

La finzione, a volte, ci salva o ci permette di ri-scrivere la Storia in accordo ai nostri sogni e alle nostre aspirazioni più nobili. Cosa sarebbe stata la Storia del XX secolo se Friedrich Reck si fosse lasciato andare e avesse premuto il grilletto della sua pistola?

Buon Pasqua a tutti.


viernes, marzo 26, 2021

 Diario di un disperato (1944) di Friedrich Reck o dell'Apocalisse del Nazismo



In questi giorni di primavera, di sole e di caldo quasi già estivo, leggo uno dei libri più sconvolgenti che abbia mai letto in vita mia. Si tratta del diario di Friedrich Reck (il cognome completo è quasi impronunciabile: Reck-Malleczewen), un aristocratico d'origine ebraica, ma convertitosi al cattolicesimo, che ha vissuto sulla propria pelle gli effetti devastanti del Nazismo e di ciò che egli stesso definisce nelle pagine del suo diario "hitlerismo".

È un'opera scritta di getto; si capisce che chi scrive lo fa per lasciare una testimonianza che possa spiegare l'inspiegabile, che possa offrire ai lettori futuri (e del futuro) una serie di dati obiettivi, anche se inevitabilmente filtrati dalla soggettività di un cattolico e benestante che arriva ad usare la parola "odio" nei confronti di Hitler.

Si tratta di un'opera che fa male, che disturba, che angoscia, che provoca (o può provocare) il pianto, il ribrezzo o la rabbia, soprattutto (mi azzardo ad ipotizzare) per un lettore del XXI secolo, uno che viene dopo i disastri e le tragedie legate alla Seconda Guerra Mondiale e ai campi di concentramento in cui i nazisti pianificavano la distruzione massiva degli ebrei e di chi non sposasse la loro causa assurda...

Il diario comincia nel maggio del 1936. All'altezza di agosto ecco cosa scrive Reck:

"Sono ormai cinque anni che vivo in questa fossa. Da più di quarantadue mesi vivo con odio, vado a letto con l'odio nel cuore, sogno con odio e mi risveglio con odio. Soffoco all'idea di essere prigioniero di un'orda di malvagi babbuini e mi logoro su questo enigma: come è possibile che lo stesso popolo che ancora qualche anno fa vigilava così gelosamente sui propri diritti sia caduto da un giorno all'altro in questo stato di apatia, nel quale non soltanto tollera la sottomissione da parte di uno sconosciuto, ma, al colmo del disonore, non è nemmeno più in grado di percepire la propria ignomia come tale?..." (pp. 16-17 dell'edizione italiana di Castelvecchi Editore - enorme il lavoro del traduttore, che cito: Matteo Chiarini).

Ed è una domanda del tutto logica e razionale: com'è possibile che nessuno abbia visto, nessuno abbia previsto, nessuno abbia frenato la corsa al potere di uno come Hitler?

Segue la descrizione del Nemico: 

"Di recente ho visto Hitler [...]: un viso rotondo stralunato, insulso, flaccido, in cui due occhi vitrei e malinconici spiccano come grani di uva secca. Così triste, così incredibilmente insignificante e rozzo che appena trent'anni fa, nel periodo più oscuro dell'età guglielmina, sarebbe stato impossibile trovare un ufficiale con quel viso, non fosse altro che per ragioni estetiche" (p. 17).

E fanno impressione certi ragionamenti: Friedrich Reck non è un nostalgico dell'antico regime, o non solo; riflette sul volto del mostro e si sorprende del fatto che solo trent'anni prima uno con una faccia simile non avrebbe mai fatto carriera nell'ambito militare. 

E poi c'è il racconto del suo secondo incontro, in diretta, dal vivo, con chi sarà causa della sua disperazione: nel 1932, all'interno di un'osteria, Friedrich Reck sta mangiando quando Hitler entra con le guardie del corpo e pretende di essere servito e riverito. Reck porta una pistola nascosta nella tasca della giacca. E scrive, con tono amareggiato, col senno del poi:

"Se allora avessi saputo quale ruolo avrebbe assunto quell'infame, e gli anni di sofferenza che ci ha fatto patire, lo avrei certamente fatto. Ma allora lo consideravo ancora un personaggio comico, e non sparai" (p. 21).

Un aristocratico d'origine ebraica. Uno che si converte alla religione cattolica. Un conservatore. Un uomo della classe agiata, ma dedito allo studio e alla letteratura. Uno che esercita come medico e che possiede una casa e una terra e che scrive romanzi e saggi di Storia. Non solo arriva ad odiare Hitler, ma si rammarica di non averlo ammazzato quando avrebbe potuto farlo, di non aver avuto il coraggio di premere il grilletto quando ancora lo considerava un pagliaccio...

Il lettore che continua a leggere rimarrà per sempre legato a questa scena: perché il diario non è altro che la "discesa agli Inferi", la narrazione spietata di tutto ciò che Hitler ha fatto all'autore del diario, alla Germania e al mondo intero a partire da quel giorno del 1932 in cui Friedrich Reck lo risparmiò dalla sua rabbia.

Non citerò le moltissime scene scioccanti in cui l'autore ci parla dei morti, delle impiccagioni, dell'uso smodato della ghigliottina, dei processi farsa, dei tradimenti e delle delazioni fatte solo per odio verso il vicino, né dell'atmosfera da incubo che assume la Germania stessa man mano che passano gli anni. Lascio al lettore che voglia scoprire questo testo il piacere disturbante di una lettura che inquieta, che fa tremare, che fa riflettere e che sorprende quasi ad ogni riga.

Sì citerò, invece, una delle ultime domande retoriche che l'autore si pone e ci pone verso la fine del testo. È il 9 ottobre del 1944 (l'autore sarebbe stato arrestato e deportato nel campo di concentramento di Dachau di lì a poco: viene ucciso il 16 febbraio del 1945). E questo è ciò che si domanda Friedrich Reck, un uomo devoto di Dio e che crede nella resurrezione delle anime e dei corpi:

"È il colmo di una situazione tragica e di una vergogna inconcepibile che proprio i migliori tedeschi sopravvissuti, prigionieri da dodici anni di un'orda di babbei, debbano per sua colpa sperare e implorare la sconfitta della loro patria?" (p. 170).

È il colmo, sì. E noi che veniamo dopo di lui e dopo l'Olocausto, dovremmo tenere a mente e fare tesoro di queste parole, scritte in un diario che l'autore tenne nascosto seppellendolo nella terra del giardino della propria casa, prima che qualcuno lo scoprisse e lo rendesse (per fortuna) pubblico. Una lettura che toglie il respiro. Uno dei libri più incredibili che abbia mai letto...

martes, marzo 23, 2021

Sogni (et cetera) 


Dunque, è successo di nuovo: ancora una volta, ho sognato la mia ex, quella con cui vivevo a Firenze anni e anni fa, ormai (quasi una vita fa). Il bello è che, questa volta, ho mescolato e mixato amici e colleghi di qui, di questo paese nel Sud del Sud della Spagna in cui vivo e lavoro (insieme alla mia compagna d'avventure e alla prole) e amici e colleghi di lì, dell'Università di Pisa e Firenze, ma anche qualcuno di Siena...

Il sogno è il seguente (devo scrivere per non dimenticarlo e per raccontarlo a lei, Alyssa, domani mattina appena sarò sveglio e accenderò il cellulare e le manderò il tutto sotto forma di messaggino tramite Whatsapp): sono insieme ad alcuni dei miei più cari amici nonché colleghi dell'Università di qui quando, ad un tratto, qualcuno propone una gita in macchina. Ecco il primo mutamento improvviso: dalla Spagna ci ritroviamo in Italia, a Pisa, dove ritrovo una mia cara, carissima amica e collega dell'Università che mi guarda fissamente, mi riconsoce e mi snobba subito: "Non posso starti dietro, ma ti vedo bene, sei belloccio, gli anni ti donano, stai bene", dice con un sorriso mentre è in attesa di ascoltare un esercito di laureandi, tutti disposti in fila indiana, tutti distanziati di almeno un paio di metri l'uno dall'altro (nel sogno penso: "Anche a Pisa si applicano le procedure anti-covid 19 che esistono in Spagna" - e, nel mentre, mi accorgo pure che nessuno degli studenti in fila indossa la mascherina). Poi ci si sposta in un museo: C., con la quale c'è anche una certa attrazione fisica e un'intesa non solo intellettuale, mi fa notare la bellezza di alcuni quadri di Raffaello (o Michelangelo o Giotto o Leonardo). Le faccio cenno di sì con la testa, ma (sempre nel sogno, mentre sogno) non so se, in effetti, ci troviamo all'interno di un museo (gli Uffizi?) o dentro il corridoio della Facoltà di Lettere dell'Università di Pisa. 

E così, mentre ancora dubito su dove ci troviamo, qualcuno, J., amico e tenore, amante di Pavarotti, propone a tutti di andare a noleggiare una macchina, per fare un giro anche a Siena o a Poggibonsi o a Montespertoli (o forse Empoli?). Io faccio di nuovo cenno di sì e mi ritrovo catapultato in un viaggio senza fine apparente, pieno di risate, di vino (Chianti?), di gozzoviglie, di felicità e di spensieratezza assoluta.

Il sogno sta per finire. Si torna indietro (a Firenze?) e nei pressi della stazione ferroviaria, vicino a Santa Maria Novella, ritrovo la mia ex, Alyssa, con una bella gonna corta e i tacchi a spillo, un'eleganza e una sfrontatezza che non ha mai avuto, un sorriso che mi strega subito, sono subito suo schiavo, sbavo dietro di lei e sia C. che J. che il resto del gruppo se ne accorge. Alyssa si siede su una panchina e, in perfetto stile Basic Instinct, scavalla e accavalla le gambe per farmi vedere che non indossa le mutandine. J. mi dà di gomito, C. arrossisce, io resto a bocca aperta e avrei voglia di baciarla subito (anche se, sempre nel sogno, rifletto e penso che, dal vivo, non era mai stata così pallida; per il resto, la forma, il taglio, la depilazione è tutto come lo ricordo dai tempi in cui stavamo insieme).

All'improvviso, Alyssa svanisce nel nulla. Io resto solo ai piedi della scalinata della stazione e il sogno finisce.

Non c'è spiegazione di sorta, per ora. Certo è che è strano che torni a fare sogni "bagnati" su di lei. 

Intanto, ho appena finito di leggere Boezio: De consolatione Philosophiae non è un libro normale. È un atto d'accusa, una richiesta d'aiuto verso Dio, è un canto alla vita terrena e a quella ultraterrena; è un trattato di filosofia e una confessione metaletteraria; è una raccolta di riflessioni che ti aprono la mente e una raccolta di frasi dall'afflato poetico incredibile. Mentre lo leggevo ritrovavo alcuni versi di Dante, frammenti di Chaucer, pezzi di Boccaccio, strofe di Petrarca e qualche metafora di Shakespeare... Dentro c'è tutto. Anche se Boezio non può (né potrà mai) risolvere i miei dubbi circa l'ultimo sogno "bagnato" sulla mia ex.

lunes, marzo 08, 2021

 Congressi online



E così, dopo l'ultimo congresso dal vivo cui partecipai esattamente il 20 e 21 febbraio del 2020, in Italia, il 25 e il 26 febbraio del 2021 sono tornato a parlare in un congresso internazionale, ma stavolta - ahinoi - online e a distanza.

All'inizio eravamo collegati in 12; poi, poco a poco, la sala virtuale (disponibile solo per quelli che avevano debitamente pagato la quota d'iscrizione) si è andata riempiendo e mi sono visto intento a parlare de La ricotta (1963) e de Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini davanti (si fa per dire) a poco più di 40 colleghi collegati da ogni parte della Spagna e del mondo (c'era anche qualcuno che veniva dall'Università di Buffalo e uno da quella di Miami; diversi partecipanti parlavano dall'Argentina e dal Brasile).

Ecco, ci vuole un certo impegno e una certa concentrazione se si vuole provare a trasmettere un concetto, un'idea, un'interpretazione stando da soli seduti (ognuno) nella propria casa con il viso in primo piano spiattellato su uno schermo di un computer...Non sai mai chi è che ti sta davvero ascoltando e l'assenza dei volti reali degli ascoltatori (o degli spettatori) ti priva del feed-back comunque utile e necessario per capire se ciò che dici ha un senso, se merita di essere preso in considerazione o se, invece, è del tutto vano o uno sproloquio indigesto o un monologo triste...

Poi, una volta terminato l'intervento in queste condizioni avverse, una collega da Madrid chiede di poter attivare il microfono. È una poetessa, oltre che una ricercatrice, che ha la passione per gli studi visuali (o visual studies, che dir si voglia) e che adora Pasolini. Si mette a ricordare il suo rapporto difficile con il padre; la morte del fratello durante la Resistenza; il suo rapporto edipico con la madre che, non a caso, interpreta Maria nella bellissima scena finale della Crocifissione sul Golgota (Pasolini fu profeta anche in questo: sembrava predire la sua "messa a morte", oltre che "messa al bando" con l'identificazione con Cristo). E la collega parla e parla e non riesco a mettere a fuoco dove vuole andare a parare. Poi, d'improvviso, cita un paio dei versi che ho citato da Poesia in forma di rosa (una raccolta che Pasolini scrisse proprio mentre girava i due film succitati, mescolando, spesso, il linguaggio cinematografico a quello lirico) e dice che questi versi l'hanno commossa e le hanno reso Pasolini ancora più umano...E lo dice con la voce strozzata dall'emozione. E allora uno capisce che sì, che è fortemente limitante parlare in un congresso stando connessi da casa a un pc, ma che, malgrado tutto e malgrado la distanza, in quanto esseri umani, riusciamo ancora, per fortuna, a trasmetterci emozioni e parole anche da uno schermo piatto fatto di milioni di pixel e che riproduce la nostra immagine e la nostra voce per milioni di altri utenti connessi da chissà dove...

(Mi auguro, comunque, come tutti o quasi tutti, che si torni presto ai congressi dal vivo; possibilmente, senza mascherine).

jueves, marzo 04, 2021

Racconto nuovo in progress 


Dunque, dopo anni, mi è tornata di nuovo l'ispirazione e, dopo aver letto una novella di un'amica e cara collega, ho sentito l'impulso di mettere la parola FINE a un racconto iniziato circa 2 anni fa. 

La trama è la seguente: una coppia di professionisti (lei critica d'arte, lui psichiatra) va in crisi; lei approfitta dell'inaugurazione di una mostra di un giovane artista presso il MOMA di New York per tradire lui; lui è solito tradire lei ogni volta che viaggia per partecipare a svariati congressi e conferenze internazionali.

In questo triangolo, fin troppo banale, s'inserisce la storia di un paziente dello psichiatra, un aspirante suicida che non la smette di importunare il suo medico con telefonate e appuntamenti in ore impreviste ed imprevedibili.

La cosa più assurda è che tutta questra trama (che ancora non so come risolvere) nasce da un'immagine: lei che torna dal viaggio transatlantico e che dice a lui che è arrivata una strana lettera e lui che la apre e vi trova un proiettile. 

Se qualcuno mi chiedesse da dove mi è venuta in mente questa scena, non saprei rispondere. Certo, c'è una leggere allusione a David Lynch e all'inizio di Lost Highway (1997); certo, c'è il solito groviglio della coppia che si tradisce perché stanca della routine o di certi rituali quotidiani che portano allo sfinimento e alla rottura del legame passionale, visto e stravisto in mille altri film e letto e riletto in mille altri romanzi; certo, c'è perfino il tono sornione di Tony Soprano nelle parole che lui, lo psichiatra, rivolge a lei, l'esperta di arte contemporanea.

Ma se dovessi dire davvero da dove ho pescato quest'immagine del proiettile, non saprei proprio cosa rispondere.

Come finisce la storia? Ecco un'altra domanda importante. 

La trama, per quanto scontata o poco originale, è totalmente frammentata; fatta a pezzi; con salti costanti tra passato e presente e viaggi continui tra Fiesole, Madrid, Atlanta e New York. A Madrid ci vivono, i due protagonisti; a Fiesole ci vanno per staccare la spina e allontanarsi dallo stress dei rispettivi lavori; ad Atlanta lei conosce lui, il giovane artista di cui dovrà presentare l'opera al MOMA; a New York ci viaggiamo insieme perché è lì che si trova il MOMA, tra Quinta e la Sesta...

Ci sarebbe anche una breve scena a Senoia che, a dispetto del nome italianeggiante, è un paesino più o meno vicino ad Atlanta e set in cui sono state girate diverse puntate di The Walking Dead, la serie di zombies ambientata proprio ad Atlanta, Georgia, Sud degli Stati Uniti d'America...

E poi frammenti di foto di carcasse di animali morti; una breve citazione da Un chien andalou di Luis Buñuel; diverse riflessioni sulla morte e sul suicidio; la guerra civile ormai scoppiata tra gli indipendentisti catalani e il resto della Spagna...

E il finale? Ecco. Non c'è ancora un finale. E non so se applicherò il detto di Strindberg (o forse era di qualcun altro) secondo cui: "Se a p. 1 appare una pistola, alla fine della trama quella pistola dovrà esplodere un colpo" o "da quella pistola dovrà uscire una pallottola".

Il bello (o il brutto) della questione è che, proprio perché ancora in progress, si aprono mille alternative e possibilità; il mio sogno: fare in modo che il finale sia inevitabile ed inequivocabile, ovvero: "non può non finire così".

E vediamo che fine farà la pallottola arrivata per posta a Fiesole e spedita da chissà chi e per quale motivo...

lunes, febrero 15, 2021

Un San Valentino di merda 




È il 14 febbraio. Nessuno dei due crede a San Valentino, ma ci piace comunque regalarci qualcosa il giorno prima (o quello dopo). Anche quando si poteva andare a cena fuori, nell'era pre-virus, ci piaceva evitare le masse degli innamorati o i prezzi lievitati di bar e ristoranti e andare a mangiare in qualche bel ristorantino nascosto il 13 o il 15 sera.

Quest'anno, con la prole inevitabilmente (e allegramente) tra le scatole, decidiamo di comprare dell'ottimo pesce fresco e un paio di bottiglie di vino bianco da servire freddo e con cui sbronzarci stando nel salotto di casa. L'intimità del focolare. La dolce ebbrezza dell'essere liberi senza dover rendere conto a nessuno al di fuori di queste quattro bellissime mura...

Sembra scorrere tutto liscio, fino a quando, andando in bagno, lei si accorge che lo sciacquone non va, è lento, fa un rumore strano.

"Tira di nuovo la catena", le dico urlando dal mio, di cesso. E lei esegue gli ordini e io osservo come l'acqua fuorisce non dal water, bensì dal tappo di ferro circolare posizionato proprio al centro del bagno. 

"Porca troia!". È la parolaccia che uso di più; quella che mi vien fuori con più spontaneità e naturalezza.

Passano i minuti e dal piatto-doccia inizia a fuoriuscire anche merda. Così pure nella vasca del suo, di bagno. La prole urla e l'acqua si propaga per tutta la casa ad una velocità assurda. Il vicino ci suona il campanello: "Abbiamo delle perdite d'acqua! Fuoriescono gli escrementi dalla vasca!".

Ma il vicino ha già notato le mie scarpe bagnate, i pantaloni ripiegati sopra il ginocchio, il secchio pieno e il mocho-vileda marrone. E la puzza. Cristo, come puzza tutta la casa! L'olezzo sembra penetrarti fin nei pori della pelle. Chiamiamo il presidente del condominio, l'assicurazione, io chiamerei anche i pompieri, la polizia, chiunque possa accorrere a frenare questo disastro...svelti, subito, forza, andiamo...

Intanto, proviamo a mettere la prole in salvo: la vicina del piano di sopra ci fa entrare in casa sua e ci offre ospitalità temporanea. Arriva il presidente del condominio che chiama l'amministratore anche se è San Valentino, anche se è domenica sera, anche se sono le 21,30, che per la Spagna, e in generale, è l'ora di cena. Niente, non risponde nessuno. La prole urla e piange: non riconosce la casa dei genitori. Quella è la casa di un'altra, una signora in pensione che prima faceva la maestra alle elementari. La mia compagna di sventure prova a trasmettere calma, ha i pigiami belli asciutti e già pronti. Io resto sul fronte a spalare merda e acqua, piscio e acqua, pezzi di carta igienica e acqua.

Dopo un'ora arrivano due idraulici sui trent'anni con un macchinario mai visto prima. 

"È una sonda", ci spiegano. "Proviamo a ficcarla dalla sua tubatura e se l'intoppo è lì, in mezz'ora è fatta".

Bestemmio in turco. Spengo il pc rimasto sintonizzato su Rai 1 (una serie, un film per la tv, una storia di qualcuna che lotta per farcela anche se è donna e anche se è sola, non ci capisco nulla).

La puzza si espande su tutto il pianerottolo. L'intoppo non si sblocca. I due idraulici provano a far passare le sonde dal cesso del vicino, la vasca è ormai un florilegio di escrementi di ogni ordine e grado (la moglie del vicino un Ecce Homo sgomento e sul bordo delle lacrime).

Si avvicina la mezzanotte e il rumore del macchinario è terribile e snervante, come un trapano che ti si conficca nelle orecchie. Poi, finalmente, a mezzanotte e mezza, i due eroi ci dicono che sì, che ce l'hanno fatta, che siamo salvi, che i nostri cessi dovrebbero tornare normali.

Chiamo per telefono la mia compagna di avventure che scende e porta a letto la prole già addormentata. Di notte ho gli incubi. Sogno fiumi d'acqua marrone che inondano anche il garage. E la terrazza. La macchina è piena di merda. I libri! Mio Dio! I libri! Come faccio a salvarli da una simile onta?

Il primo messaggio che trovo sul cellulare è quello di Alyssa, la mia ex, che non se la sta passando granché bene, diciamo pure che sta attraversando un periodo di merda (metaforica, non reale, come quella che ho spalato io per quasi 2 ore di seguito).

"Ho sognato te e tua moglie. Lei ci provava con me. In una festa in maschera. Siamo messi bene, vero?".

Le rispondo senza fare il minimo cenno al San Valentino di merda appena vissuto sulla mia pelle: "Beh, come trio mi alletterebbe parecchio". Poi aggiungo che è solo uno scherzo e che prima o poi le racconterò come ho trascorso il 14 febbraio.

Intanto, penso alla dolcezza del suo sorriso e come la sua voce continua ad avere un certo fascino sulla mia pische e sulle mie parti basse. E penso alle coppie intente a raggiungere orgasmi. Alle centinaia di giovani aggrovigliati tra lenzuola che saltano per aria e materassi che scivolano a terra per l'eccesso d'impeto. Alle reti a molle sottoposte a un su e giù che non da tregua ("un po' di dolce su e giù", lo chiamavano quando si stava insieme). Penso ai milioni di baci che si sono scambiati milioni di amanti nel Mondo nonostante la pandemia. Penso a quelli che, ignari del pericolo, si sono baciati o hanno fatto sesso nonostante il rischio del contagio. Mentre io e l'amministratore eravamo intenti a pregare gli altri condomini di non usare il bagno, per favore, di evitare di tirare la catena per evitare l'effetto a rimbalzo dell'acqua fecale che dalle fogne del palazzo risaliva nei miei due bagni e in quello, attiguo, del vicino. Come diavolo si fa a convincere una decina di famiglie, con i rispettivi membri, a non cacare o a non pisciare, a non fare uso del water, quando la merda di quello che vive nel piano di sotto non la vedi né la senti? Come si fa a mettere un freno agli intestini degli altri?

E la mia ex che mi sogna in atteggiamenti ambigui, con la mia compagna di avventure in versione lesbica. E le palle che girano e i nervi a fior di pelle che continuano a non farmi dormire nemmeno quella misera mezz'oretta sacrosanta della siesta. E poi la dottoranda che non la smette di tempestarmi d'email facendomi domande interessantissime, ma cui non riesco a trovare una risposta logica. E, infine, Clint Eastwood che da La7 dice una frase storica memorabile: "Vale sempre la pena rischiare se vuoi davvero qualcosa", o una roba del genere, mentre s'ingegna a scappare dalla prigione di massima sicurezza in cui è rinchiuso per non so quale orrendo reato (Fuga da Alcatraz, s'intitola il film: del 1979, per la regia di Don Siegel; mai visto e sembra molto bello).

Quante cose diamo per scontate! Come l'efficace e regolare funzionamento di un water! E quanto abbiamo ancora da imparare, nonostante il virus e il lock-down, circa i nostri bisogni primari...

Certo è che un San Valentino di merda di questa portata non lo dimenticheremo mai.

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...