martes, marzo 31, 2020


Tutto Poe


In una vecchia intervista (e in molte altre, rilasciate nel corso degli anni), Tiziano Sclavi, l’inventore di Dylan Dog, afferma di aver letto tutto Poe all’età di 6 anni. Leggendo i suoi romanzi e i primi albi della serie del famoso personaggio a fumetti, possiamo credergli.

In questi giorni assurdi, di incubi ad occhi aperti ed insonnia ed incubi ad occhi chiusi, non so bene nemmeno perché, mi sono rimesso a leggere tutto Poe (cosa che avevo già fatto a 14 anni, quando ancora non conoscevo Sclavi). E mi sono accorto del fatto che Edgar Allan ha già inventato tutto, per ciò che concerne il genere thriller, horror e surreale.

Una cosa che colpisce è lo spazio. Edgar Allan Poe è bravissimo a contagiarci (verbo oggi fin troppo abusato e temuto) l’ansia e l’angoscia esistenziale che esperimentano i suoi personaggi a partire dai luoghi che ricrea o che costruisce con la penna e l’immaginazione; Poe è un bravissimo architetto che ri-crea gli spazi reali o verosimili in cui l’ansia e l’angoscia esistenziale che colpiscono i suoi personaggi esplode fino a coinvolgere anche il lettore empirico.

Diciamo pure che è lo spazio a dare la sensazione di una determinata fobia o un determinato modo di patire la paura e il terrore (senza essere dei teorici della letteratura: potrebbe essere plausibile ricostruire le varie fobie che Poe illustra e narrativizza proprio a partire dagli spazi che cita e ri-crea nel suo universo di finzione).

In William Wilson (bellissimo trattato sul tema del “doppio”) è la scuola-orfanotrofio in cui il protagonista incontra il suo sosia a dettare il senso di claustrofobia e di alienazione che lo stesso associa al suo compagno di classe (nato perfino lo stesso giorno! Cioè, i due non si somigliano solo per l’aspetto fisico, ma anche per circostanze legate alla propria biografia). L’ambiente in cui i due si conoscono è descritto come una sorta di carcere di massima sicurezza. E non basta trasferirsi in un’altra città (Oxford, Cambridge, etc.) per cambiare set esistenziale dell’azione: anche in questi casi, il narratore ci parla di stanze buie e fredde, spazi claustrofobici nei quali il suo forte appetito per il piacere (sessuale, gastronomico, alcolico, etc.) sembra non avere fine né pace. Quanto più si trova costretto a vivere “al chiuso” tanto più aumenta questo senso disinibito del peccato a tutti i costi (fino a quando William Wilson non farà la sua apparizione finale catartica).

In La caduta della casa Usher lo spazio è il vero protagonista della storia, come ricorderanno gli amanti dello scrittore americano. Tanto è vero che il nobile che vi abita (amico d’infanzia del narratore) riconosce di essere caduto in depressione (o in una sorta di stato d’apatia totale) per colpa delle pietre, delle stanze, degli specchi e dei tendaggi dell’enorme mansione in cui vive insieme alla sorella (anche lei malata, ma di tubercolosi, a quanto pare). Qui lo spazio determina tutto il ritmo della narrazione, fino al terremoto finale, quando la stessa casa degli Usher sembra sprofondare nel lago in cui, all’inizio del racconto, si specchiava in modo tetro.

Ne L’uomo della folla – forse uno dei racconti più belli e affascinanti di Poe, oltre che uno dei più enigmatici – è la strada, o meglio, le strade di Londra a diventare personaggio fondamentale. La narrazione è affidata in prima persona singolare a un uomo di mezza età che passa il tempo a spiare gli altri passanti dalla finestra della sua locanda favorita. Convalescente da una febbre che lo ha tenuto a letto per molto tempo, una volta che decide di poter uscire di casa, s’intrattiene proprio nella contemplazione dei volti e dei gesti, dei vestiti e delle espressioni degli anonimi passanti. Fino a quando non s’imbatte nel volto di un anziano (sui 65 anni) che cattura subito la sua attenzione e lo spinge ad inseguirlo senza farsi notare. L’uomo spia il vecchio nel suo girovagare apparentemente senza senso per il centro della città, fino ad arrivare (di notte) nella zona più periferica e malfamata, quella in cui vivono i poveri e gli alcolizzati. Non sapremo mai chi sia questo anziano, né perché ossessiona così tanto il narratore. Le strade diventano labirinti nei quali ognuno di noi può perdere la percezione della propria identità.

Ne Il pozzo e il pendolo la vittima della Santa Inquisizione è in attesa di subire una morte atroce. Senza capire bene dove si trova, per colpa dell’oscurità tremenda che lo avvolge, questo povero cristo scoprirà di essere prigioniero all’interno di una sorta di cella dal cui soffitto pende una lama gigantesca che si muove come fosse un pendolo che segnala lentamente, ma inerosabilmente, l’ora della morte. Qui lo spazio è davvero claustrofobico: leggiamo e sentiamo che ci manca l’aria e che, al posto del protagonista, preferiremmo morire d’infarto piuttosto che attendere la fine del viaggio della lama che pende sul nostro collo e sulla nostra testa come una spada di Damocle.

Ancora non ho riletto Il gatto nero, né Il barile di Amontillado, né La verità sul caso del signor Valdemar, Il cuore rivelatore, né Una discesa nel Maelstrom, ma è evidente che in tutti questi racconti meravigliosi lo spazio è uno dei motori centrali che fa partire e accelelare la pulsazione del cuore dei lettori. E chissà perché Baudelaire sentì tanta passione per l’opera di Poe. E chissà se Poe avrebbe scritto ciò che ha scritto se non fosse stato schiavo dell’alcol e di quello stato d’animo distaccato e plumbeo che potremmo definire come lo “spleen” baudelairiano.

domingo, marzo 29, 2020


Canto di D'Arco (2019) di Antonio Moresco: la fine di un ciclo




Ho finito Canto di D’arco, di Antonio Moresco. E come si fa ora a parlare di un romanzo che non assomiglia a nessun altro romanzo scritto prima da nessun altro essere umano? Come si fa a parlarne in un momento come questo, quando l’Italia è in piena crisi sanitaria e, a breve, anche economica? Come si fa a parlare di letteratura di qualità quando la realtà più impellente ci fa sentire quasi in colpa per non essere sommersi in quella stessa crisi?

Non lo so. E però una cosa è certa: Moresco si spinge molto oltre, molto al di là delle Colonne d’Ercole del genere romanzesco; vola alto, talmente alto da coinvolgere nella sua narrazione estrema la luce e il buio; le stelle e i manichini da sposi; gli dèi e gli assassini di bambini; l’amore spirituale e quello carnale; la morte concepita come fine della vita e la vita vista come l’altra faccia della morte; insomma, è davvero complicato per me spiegare come Canto di D’arco viene quasi a suggellare l’intero universo narrativo che Moresco ha costruito ne Gli increati, ovvero, ne Gli esordi (1998), in Canti del caos (2009) e, appunto, ne Gli increati (pubblicato nel 2015 e che poi è diventato il titolo con cui l’autore ha nominato e inglobato l’intera trilogia).

Leggermente irritante in alcuni brani in cui si ripetono ad inifinitum gli stessi termini ossimorici (luce / oscurità; vita / morte; prima / dopo), spesso sconcertante per gli scenari che riesce a mostrarci, scenari che fanno pensare al contempo alle visioni ultraterrene dantesche della Commedia e a quelle di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio, Moresco allarga ancora di più, se possibile, i confini del genere “romanzo” per convogliarvi la lotta antagonica (e ancestrale) tra l’essere umano e ciò che è conoscibile e, in quanto tale, dicibile (forse è la poesia il genere per eccellenza in cui questa lotta occupa il primo piano; Moresco è poeta, in tal senso, proprio perché si preoccupa di una questione che sembra attenere di più al genere lirico che a quello romanzesco).

Il lettore si ritrova così proiettato in tre diversi abissi: dalla città dei morti (perché D’Arco, quando comincia la sua narrazione, lo fa da morto) alla città dei vivi, per poi concludere (ma è davvero una “conclusione”?) nelle molte città di confine, essendo il concetto stesso di confine non solo molto relativo, ma generatore, a sua volta, di nuovi e sconfinati confini.

Come fosse un nuovo William Blake, Moresco non trema né teme di sfiorare l’inverosimile, proprio perché in questi romanzi il verosimile è un limite da scavalcare attraverso una potenza immaginativa che non si arresta davanti a nulla, che non teme il ridicolo, che non scade mai (mai) nel kitch (solo uno che sciommiottasse lo stile di Moresco potrebbe scadervi, infatti, e in modo inevitabile; ma lui, l’autore originale, il vero creatore di questo stile, no).

Cosa colpisce di questo romanzo, dunque? Oltre allo stile, che richiede uno sforzo non da poco al lettore, proprio perché si tratta di un periodare strambo, non quotidiano, anche se caratterizzato da un lessico apparentemente “umile”, e oltre ai contenuti filosofici che innervano la trama (la vita vista non solo e non tanto “dopo la morte”, ma come “passaggio” in cui la morte è “già-sempre-presente”), ciò che colpisce, dicevo, è il carattere del protagonista: D’Arco è uno sbirro che ammette di non essere molto intelligente; è uno sfigato che gira con le scarpe da tennis consumate, con una giacca di pelle scucita, con dei jeans strappati. È uno che, quando cala la notte, prima di rincasare è solito mangiare un kebab e bere una birra nello stesso bar di periferia di sempre. È uno che compatisce e stringe amicizia con un garagista, uno che di notte non dorme mai e che, per far passare il tempo, è solito guardare dvd porno e masturbarsi. D’Arco è uno che s’innamora perdutamente di Quella, una ragazza bellissima trovata per caso all’interno di un cassonetto dell’immondizia. È uno che ha un capo che gli affida sempre missioni impossibili. Ma D’Arco (che non ha un nome, solo questo cognome che potrebbe rimandare al David Bowman – l’arciere – del succitato 2001: A Space Odissey) accetta senza fiatare, anche se si stupisce e si pone domande che non trovano subito risposta. D’Arco, di fatto, è uno che si sorprende e si fa molte domande su tutto, anche sulla sua incapacità di capire cosa sta facendo o cosa sta osservando e, dunque, anche, cosa sta narrando.

Come tutti i romanzi di Moresco, anche questo ci trasmette una profonda pietà e una certa simpatia verso un perdente, che, però, si fa vincente, perché, appunto, accetta sempre le sfide, a testa alta, anche se sa che perderà (o che potrebbe rimetterci addirittura la vita). E forse anche Moresco è così: uno che ha aspettato molti anni prima di riuscire a pubblicare il primo libro e che, nonostante tutti gli ostacoli, nonostante i molti no, e le porte sbattute in faccia, nonostante le critiche, è riuscito poi a dare il meglio di sé, attraverso la scrittura e la letteratura intese non come qualcosa di bello o di rassenerante, di comodo o di puramente estetico, bensì come gli strumenti più utili e idonei per cercare di ampliare la conoscenza che noi in quanto umani abbiamo della realtà che ci circonda, di quella che ci portiamo dentro e dell’incontro (e dello scontro) tra l’una e l’altra realtà. Fino a porre in dubbio perfino la capacità della scrittura e della letteratura di dire questi misteri e questi enigmi abissali. Fino a perderci la testa e la stabilità mentale (è come se a un poeta si chiedesse di scrivere un componimento sui neutrini o sulle ultime costellazioni scoperte dalla NASA; si può scrivere poesia a partire dall’astronomia? La risposta è sì, se si ha l’ardire e la forza di arrivare fino alla fine del Canto di D’arco). Sono molti i brani che ho sottolineato, perché mi hanno turbato, perché mi hanno emozionato o, più semplicemente, perché mi sono sembrati davvero sorprendenti. E se in alcuni casi la narrazione si fa “pura domanda retorica”, come in questo caso:

“A cosa serve la vita se ci vuole la morte per giustificarla? A cosa serve il bene se ci vuole il male per giustificarlo e a cosa serve il male se ci vuole il bene per giustificarlo? E a cosa servono la vita e la morte e il bene e il male se non si sa neppure se vengono prima o se vengono dopo, se possono venire prima solo se vengono dopo e possono venire dopo solo se vengono prima…?” (p. 205),

in altri casi la questione si fa più scottante e riguarda noi tutti in quanto abitanti della Terra, come in quest’atto di denuncia che sembra descrivere (in parte) cosa ci sta succedendo ora che il coronavirus ci ha fatti barricare in casa e ci ha obbligati a privarci della libertà di movimento per non causare la morte degli altri:

“Le donne ingannano gli uomini, gli uomini ingannano le donne, le donne e gli uomini sin ingannano tra di loro e tutti ingannano se stessi. In realtà non credono in niente, credono solo nella loro ingordigia e in ciò che gonfia i loro corpi, le loro menti e le loro anime, hanno bisogno di stordirsi con la loro ipertrofia genitale e la loro tecnologia, con droghe e alcol, con la loro idolatria economica e finanziaria, il loro cinismo, la loro frustrazione e la loro paura, hanno solo bisogno di non vedere, si mettono tutti d’accordo per non vedere, tutta la loro cosiddetta civiltà con le sue narrazioni è solo un motore imballato che gira a vuoto, una valanga di copertura per non vedere, perché se no crollerebbe tutto il castello di sabbia che hanno costruito per nascondere la loro paura della morte, perché hanno terrore della morte, ne hanno terrore perché credono che venga dopo e non prima…” (p. 164).

Se citassimo fuori dal suo contesto questo brano, potremmo pensare che a scriverlo sia stato il papa. Moresco, dopo essere stato in procinto di farsi prete, è passato a militare nei gruppi di estrema sinistra nel corso degli anni 70 e 80. Poi pare sia sopravvissuto facendo lavori saltuari e tutti precari, tra cui il facchino e il portiere di notte (l’ho letto al volo da qualche parte, sarà vero? Non saprei dire, ma siccome anch’io ho fatto entrambi questi lavori, la notizia mi rende l’autore ancora più amico, ancora più vicino).

Sì, potrebbe essere un brano da leggere urbi et orbi da una Piazza San Pietro deserta. E invece fa parte di un romanzo falsamente poliziesco e surrealisticamente di fantascienza che s’intitola Canto di D’Arco, che è uscito l’anno scorso e che parla dell’Umanità tutta agli inizi di questo XXI secolo.

lunes, marzo 23, 2020

A Ghost Story (2017) di David Lowery: quando anche i fantasmi si perdono


In questi giorni tremendi di migliaia di vittime a causa del coronavirus, si prova a farsi forza anche a suon di arte: un buon romanzo, un film che ci cattura, una canzone che ci evoca momenti felici, un quadro che continua ad intrigarci sono tutti mezzi utili per staccare la spina dell'ansia quotidiana, oltre che per provare ad evadere da una realtà fin troppo cruda (e crudele).

E così, decido di vedere per la seconda volta in vita mia un film "horror" atipico qual è A Ghost Story di David Lowery. È un film del 2017 e che io scoprii quasi per caso in un congresso sul "gotico" grazie ad un collega che faceva una sorta di ripasso cronologico del genere all'interno dell'intera storia del cinema. 

A Ghost Story è un film che colpisce perché - senza temere il ridicolo o l'effetto kitch - mette in scena la storia di un fantasma rappresentato nel modo più tradizionale possibile: un essere nascosto sotto un lenzuolo, con due fori per gli occhi (vedono i fantasmi attraverso gli occhi? Hanno davvero ancora gli occhi i fantasmi?) che si aggira nel mondo, apparentemente senza fissa dimora.

In realtà, il fantasma si ritrova subito nella casa in cui abitò con la fidanzata (o è sua moglie?), sopravvissuta nonostante il lutto e il dolore estremo causato dall'incidente che le ha portato via il ragazzo (o è suo marito?).

Passa il tempo e questo povero cristo è costretto ad assistere alla routine di una donna allo stremo; l'osserva mentre ascolta le canzoni che scrisse quando il compagno era ancora in vita; la contempla di notte, quando si butta sul letto, in preda ad un pianto inconsolabile. La guarda impotente anche quando sembra che stia per rifarsi una vita, quando un ragazzo la riaccompagna a casa e gli chiede se può restare (ma lei lo manda via, non se la sente di profanare il letto in cui ha fatto l'amore con chi, purtroppo, non c'è più).

Questo film ci colpisce e ci emoziona perché ci obbliga ad assumere il punto di vista di chi, pur essendo presente, non può toccare i vivi, non può baciare la sua compagna, non può tornare indietro nel tempo per evitare di morire in uno stupidissimo incidente stradale. "Fantasma" è chi è lì, presente, ma, al contempo, assente, perché nessuno lo vede né può toccarlo; lo si può sentire, questo sì, soprattutto quando, all'arrivo di una famiglia ispanoamericana, decide che è ora di far sloggiare i nuovi inquilini (e comincia a frantumare i piatti della cucina, con conseguente spavento e fuga di tutti).


A Ghost Story ci mostra - con lirismo e una colonna sonora davvero bella - l'estrema malinconia che nutre chi continua a essere testimone delle azioni dei vivi e sa che prima o poi anche loro moriranno.



E ci mostra anche come perfino i fantasmi possano smarrire la strada di casa, se si lanciano da un grattacielo del futuro e precipitano nelle praterie dei primi anni della conquista del West. 

La storia di un fantasma che ha (ri)perso la strada di casa; ecco, è qui che si concentra l'essenza di un film che può spingerci fino alle lacrime, soprattutto quando si arriva alla conclusione, quando, finalmente, il fantasma riesce ad afferrare il biglietto che l'amata rimasta in vita gli ha lasciato nell'intercapedine di un muro della casa in cui sono stati felici. 



A Ghost Story è davvero una delle più sconvolgenti riflessioni sul tempo che abbia mai visto in formato di cinema. Una girandola triste, nostalgica, malinconica e piena di poesia che ci insegna che non è mai facile (è quasi sempre impossibile) dirsi certe cose nei tempi giusti e che, a volte, ci vuole tutta l'eternità per arrivare a capire il senso di certi messaggi.

Proprio per questo, A Ghost Story è un film da vedere, soprattutto ora che siamo obbligati a stare reclusi dentro le mura delle nostre case.
Evento annullato

Nel bel mezzo della catastrofe, una collega di Roma m'invia un'email: in quanto membro della Società Dante Alighieri, sono invitato a partecipare come giurato (insieme agli altri soci regolarmente iscritti) del "Premio Strega". Non mi sembra vero: ogni scusa è buona pur di distrarsi, di perdere di vista (anche solo per mezz'ora, per pochi minuti) il disastro internazionale del coronavirus... 

Dobbiamo scegliere tre nominativi e spiegare anche perché  li abbiamo scelti. Nell'elenco, riconosco subito Sandro Veronesi (di cui ho scritto anche in questo diario virtuale e anche a proposito del suo ultimo romanzo, Il colibrì) e Gianfranco Carofiglio (di cui non ho mai letto nulla, sebbene mio fratello, avvocato, me lo abbia consigliato) e Silvia Ballestra, la mitica autrice de La guerra degli Antò (da cui è stato tratto uno dei film a me più cari, anche perché legato emotivamente all'epoca degli studi universitari). E poi c'è anche Valeria Parrella, di cui ho letto soltanto Lo spazio bianco, se non ricordo male, e altri scrittori di cui non ho mai sentito il nome...

E fa un certo effetto navigare sul sito della Einaudi e vedere quanti eventi letterari, quante presentazioni di libri, quante giornate sono state soppresse e cancellate per colpa del coronavirus... "Evento annullato", recita la didascalia, sotto il titolo dell'evento, della presentazione, della giornata...

Penso anche all'intervista e alla presentazione del libro di uno scrittore spagnolo che avrei dovuto svolgere la settimana scorsa; alle letture con le mie "donnine" (tutte anziane, tutte sopra i 75 anni e, perciò, assolutamente costrette a restare a casa); alle semplici chiacchierate con le amiche che condividono la stessa passione per i libri; ai congressi spostati a data da desintarsi (uno in Svezia, dove non sono mai andato e dove avremmo dovuto andare insieme io e la mia compagna di viaggi il prossimo giugno...ma chissà, appunto, chissà se si farà davvero).

Questa pandemia ha messo in evidenza quanto relativi siano i nostri impegni, il nostro lavoro, le nostre passioni, dinanzi ai morti che vengono portati via sui camion dell'Esercito; dinanzi ai malati che riempiono le corsie di ospedali pieni fino all'inverosimile; dinanzi ai medici e agli infermieri che fanno turni massacranti e, a volte, stringono forte la mano di chi esala l'ultimo respiro, perché non ce la fa più a respirare, e muore solo, senza nemmeno l'ultimo, estremo saluto di un familiare...

Sono giorni d'incubo a occhi aperti, questi, giorni in cui leggere "Evento annullato" fa quasi tenerezza, quando in giro, nel mondo, ci sono migliaia di altri eventi "annullati" e quando in giro, nel mondo, ci sono tante, troppe vite che sono annullate per colpa di un microrganismo che ci sta insegnando l'umiltà, lo spirito di squadra, il bisogno, appunto, di riorganizzare le nostre priorità vitali.

domingo, marzo 08, 2020

Il coronavirus o della fragilità umana 


Se c'è una cosa che il fenomeno "coronavirus" ci insegna (o potrebbe insegnarci) è il prendere coscienza della nostra enorme, incredibile, assoluta fragilità in quanto esseri umani e, dunque, mortali (non bisogna scomodare Heidegger per scoprire che "siamo-esseri-per-la-morte").

E fa un certo effetto vedere certi quartieri di Roma completamente deserti, come se un'epidemia mortale avesse già sterminato gli abitanti del luogo; come se l'Apocalisse fosse già arrivata (e, anzi, fosse già terminata).

Passeggio lentamente con la prole smuovendo il passeggino all'ora del crepuscolo (l'ora più poetica della giornata, a mio modesto parere) e mi sento come il protagonista di quel bellissimo romanzo che è The Road (2006): l'uomo che si dona al figlio pur di non farlo morire ammazzato da orde di barbari; l'uomo primitivo che - alla fine della civilità - si trova costretto a ripartire da zero e a re-imparare ad affrontare gli ostacoli che gli frappone la natura avversa (la pioggia, la neve, il freddo, l'oscurità più impenetrabile) e che lotta con gli elementi proprio affinché il figlio non cada a terra e diventi massa preda dei soprusi dei cattivi (loro sarebbero i buoni: ma come segnare il confine tra i cattivi e i buoni in un mondo senza più legge come quello che Cormac McCarthy disegna nel suo capolavoro distopico?).

Guardo gli altri bambini spagnoli che giocano a calcio spensierati e immagino come sarà questo campetto tra 100 o 200 anni; osservo le bimbe che si dondolano e ciondolano da uno scivolo e mi domando fino a quando quel ferro rimarrà così lucido e intatto, ovvero, fino a quando non verrà corroso dalla ruggine. 

Vedo due vecchiette sulla sedia a rotelle portate a spasso da due badanti giovani e belle, truccate e coi jeans attillati (probabilmente latinoamericane). E mi domando fino a quando continueranno ancora a smuovere quelle carrozzine con le ruote da grandi, fino a quando ancora coloro che trasportano non diverranno semplici corpi senza più vita né respiro, liberi di riposare in pace (si spera).

Insomma, non c'è angolo di mondo che non interpreti dal punto di vista del pessimista che crede davvero che la fine sia vicina. E non oso immaginare quanto questo pensiero (o questo tipo di punto di vista) non sia in circolo in Italia in un momento come questo, quando Fiorello e Jovanotti, quando giornalisti e medici, sindaci e dottori specialisti non si stancano di ripetere le solite frasi: "State a casa; evitate di uscire; evitate di diffondere il virus; lavatevi bene le mani; se tutti fanno la loro parte, potremo farcela e vincere questa battaglia".

E come si fa a non pensare all'Italia, al proprio paese, quando si vive all'estero e i mezzi di comunicazione di massa s'ingegnano (e s'impegnano) a martellarti con continui comunicati ansiogeni sul numero crescente dei morti e dei contagiati.

Poi guardo la prole e vedo che sorride. È apparso il tramonto: un cielo che da rosso diventa arancione e poi quasi viola; un paesaggio da togliere il fiato. La bellezza della natura in un mondo che ci sorpasserà (perché questi tramonti ci saranno anche quando noi - mortali - ce ne saremo andati). La bellezza di una natura che non smettiamo di maltrattare e che, ciononostante, ci regala di questi spettacoli ogni giorno (basta saper guardare e alzare lo sguardo dai cellulari o dalle mille distrazioni che ci bruciano i neuroni). La bellezza di un mondo che ora molti vivono come prigione, perché è così che diventa il mondo quando ti dicono che è pericoloso anche andare fuori a fare la spesa, quando i cinema, i teatri, i musei, le scuole e le Università sono chiuse per decreto del Presidente dei Ministri. La bellezza che perdura e resiste e che non conosce virus di sorta e che sta lì, disponibile per tutti coloro che sappiano coglierla al volo e che sanno darle il giusto valore. Siamo mortali, certo, e proprio per questo dovremmo essere in grado di capirla la bellezza, anche quando sembra che tutto vada in malora (come quando il padre del ragazzo di The Road lo rassicura e gli ricorda che lui è lì, che ci sarà sempre, che sarà sempre al suo fianco - anche se dovesse essere l'ultimo gesto che compirà in vita; esserci, far sentire la propria presenza, in procinto del trapasso finale).

P.S.: erano anni che la lettura di un romanzo non mi provocasse così tanti incubi; erano anni che non sentivo l'urgenza di comprare la versione originale del romanzo stesso (oltre a quella in italiano e in spagnolo). McCarthy, che grandissimo scrittore...

Letture pasquali Provo a leggere, in queste vacanze pasquali, tra una corsa in bicicletta in alta montagna e le mangiate assurde previste da...