martes, octubre 17, 2006


Che poi cosa vuol dire essere scrittore? O fare lo scrittore? Ma è poi davvero un mestiere? Non potremmo considerarlo piuttosto un passatempo tra le mani di gente che sa costruire montagne, castelli, prati di carta, fatti di parole stampate su libri? Scrivere non è facile: basti pensare al Barton Fink del film omonimo dei fratelli Koen. Basta guardargli i capelli (l'acconciatura assurdamente sparata in alto che ha) per rendersi conto che quello non è un individuo normale, o col quale andresti a prendere un caffè per parlare del più e del meno. O basti ricordare Jack Torrance (alias Jack Nicholson) in Shining di Stanley Kubrick per tremare all'idea di vivere la crisi della pagina in bianco, quando non sai più cosa dire nè cosa scrivere, quando ti blocchi e vivi il blocco dello scrittore, l'immaginazione che si ferma e non dà più i suoi frutti (come dovrebbe fare sempre e ogniqualvolta la chiamiamo per darci una mano a trasmettere qualcosa di bello, di dotato di senso, al povero lettore che ci leggerà - quanti messaggi gettati in mare all'interno di bottiglie svuotate del loro vino e finite chissà dove, destinate a perdersi infinitamente sulla superficie del mare o a incagliarsi tra gli scogli coi pesci che ci nuotano attorno senza sapere magari che lì, proprio lì dentro, dentro quella bottiglia, si nasconde la chiave per entrare nella porta che conduce a una grotta in cui è nascosto il tesoro più grosso, quello dell'isola - che non c'è nè ci sarà, se non fosse per la fantasia, o l'immaginazione fervida di uno scrittore che non vuole crescere perchè crede ancora nel valore simbolico, romantico, se vuoi, dei messaggi infilati in una bottiglia gettata sul mare dell'esistenza, l'insostenibile, labile, mobile e pesante mare dell'esistenza). "Vieni qua, Dany, non ti faccio niente, solo quella testolina te la spacco", cito a memoria ricordando quel film (nella traduzione o versione italiana la frase assurda con cui Jack riempie il suo foglio è la seguente: "Il mattino ha l'oro in bocca", così, ripetuta per migliaia e migliaia o forse solo centinaia di fogli, comunque ad infinitum...).
Barton Fink si lamenta col suo vicino di stanza in un sordido albergo di Los Angeles (la sordidezza è attutita solo da un quadretto in cui una donna, una giovane fanciulla, prende il sole, in riva al mare, sotto un ombrellone colorato che la protegge dai raggi dell'estate rovente) e gli dice che fare lo scrittore è difficile perchè non è affatto facile scavare nell'interiorità e sondare gli abissi labirintici della nostra mente, si corre sempre il rischio di perdere il contatto con la realtà e i risultati sono spesso mediocri. Mi viene in mente un altro film, di David Cronenberg, Il pasto nudo, tratto da The naked lunch del "beat" mezzo matto William Burroughs. Si dice che avesse ucciso la moglie in preda ad un attacco di gelosia e di ansia creatogli dall'uso smodato di droghe sintetiche. Una volta scrissi un racconto in cui si narravano le vicende di uno scrittore che impazzisce e che va in cerca di uno spacciatore. S'imbatte nel dottor Hoffman. Avevo letto sul giornale che un tale dr. Albert (o Adolf) Hoffman aveva sintetizzato per primo l'LSD, sperimentandone gli effetti sul suo stesso corpo. Stanley Kubrick ricorse allo stesso acido per inventarsi il finale (o pre-conclusione) di 2001. A Space Odissey, quando David Bowman finisce con il penetrare in un tunnel fatto di colori psichedelici, verso l'infinito, e oltre. Così recita la didascalia (ora che ci penso, è curioso: un film di fantascienza che si suppone racconti eventi che risalgono al futuro più remoto, al 2001, ormai passato, per noi che viviamo il 2006, e che, ciononostante, fa ancora ricorso alla didascalia per spiegare allo spettatore cosa succede e cosa vedrà di lì a poco, come nelle comiche di Buster Keaton o di Charlie Chaplin o di Stanlio e Ollio). Ebbene, anche in quel film di Cronenberg il mestiere di scrittore è costellato da ostacoli di ogni sorta, soprattutto di natura psichica. Il protagonista se ne scappa in Marocco (o era l'Algeria o la Tunisia?) per fuggire ai guai con la legge o per ritrovare l'ispirazione (non ricordo più bene, ma non ha molta importanza) e si mette a scrivere, ma, a un tratto, ha le allucinazioni, vede scarafaggi enormi, prende un drink al bancone del bar e parla con una sorta di lumaca gigante parlante (una specie di cavalletta enorme con gli occhi lucidi e la pelle viscida). Usa l'insetticida, fa derattizzare la sua stanza, ma niente, l'ispirazione non viene e il sonno della ragione genera mostri, come diceva un altro che d'arte s'intendeva.
Intanto, c'è chi, come Calvino, ritrovò tra i primi il diario intimo di Cesare Pavese, il famoso Il mestiere di vivere e si rende subito conto che lì dentro c'è tutto, l'inizio e la fine, il processo doloroso attraverso cui un uomo, fatto di carne e ossa, si giudica e prova a giustificarsi e a trovare una ragione all'arte di scrivere, oltre che al mestiere, sempre duro, sempre faticoso, di vivere. Le ultime parole di quel diario sono terrificanti, se pensiamo che di lì a poco Pavese si sarebbe suicidato (con una forte dose di barbiturici, o impiccandosi, o sparandosi in bocca, non ricordo più bene). Scrivere aiuta a vivere, a volte. E altre volte uccide. O conduce a pensieri di morte. Leggo un romanzo di Enrique Vila-Matas: s'intitola El mal de Montano e a un certo punto racconta di quando Calvino trovò quel diario. Il narratore, che è anche uno scrittore di professione, immagina d'incontrare il fantasma di Pavese. O meglio, Pavese va a visitare la sua casa, di notte, da morto. Il protagonista non può evitare di considerarlo un compagno di viaggio. Quasi un'ombra che lo ha accompagnato da sempre, da quando ha iniziato a scrivere. Non c'è dubbio: scrivere è faticoso. Un po' come viaggiare. Che è anche un po' morire. Come è difficile vivere. La stessa cosa. Lo stesso campo. Lo stesso sfondo.
Poi ripenso a uno che se ne intendeva: Cervantes chiude il suo ultimo capolavoro, il Persiles, con un prologo scritto quando ormai l'opera è compiuta. In quel prologo famosissimo e molto citato nell'ambito della letteratura spagnola si augura di poter scrivere ancora le opere annunciate in passato e che non hanno mai visto la luce. E soprattutto, si augura, una volta morto, di poter rivedere i suoi amici. Di poter ancora godere della loro compagnia, quando ormai sarà solo un morto in più nel mondo dell'al di là (dal quale nessun viaggiatore ritorna, come ci insegna Amleto). Non solo: saluta i dolori e le gioie, le amarezze vissute in vita, le sofferenze patite e quelle dimenticate, addio amici, non vi rivedrò più nè voi rivedrete me. Ma spera e continua a sperare. La scrittura aiuta anche sul punto di morte. Non ci sono dubbi. Basta sperare. E scrivere.

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