lunes, julio 30, 2007


From Paris

[recopilación re-inventada (y – cuidado – revisada) de cuentos e imágenes]


I
Parigi. La prima volta che metto piede nella capitale e si mette a piovere, a Luglio, come fosse pieno inverno. Ancora non ho visto molto, ma, nel complesso, l’effetto è “spettacolare”. Anzi, direi: “spettacolar-popolare”. A due centimetri esatti dall’ingresso principale del Panthéon ho trovato due materassi, abbandonati vicino al secchio dell’immondizia da qualche barbone o clochard della zona che di notte dorme nei paraggi, potretto solo dalle stelle. E, cosa curiosa (come il diluvio che non accenna a smettere), a due passi dalla storica e mitica Università della “Sorbonne” c’è un cinema (il “Cinema Champo”, d’essai, ovviamente) in cui danno, proprio oggi e a partire dalle ore 17,30, Ultimo tango a Parigi del nostro Oscar Bertolucci. Quante coincidenze. Saranno queste a farmi sentire come se stessi a casa mia, come se fossi ancora a Madrid o a Roma? Mi affascina il contatto tra la monumentalità geometrica di alcuni edifici e la sporcizia anarchica o giocosa di certe strade (come quei lunghi vialoni madrileni intervallati da bar ogni due o tre metri e passandoci davanti avverti l’odore forte del fritto, dei caffè, del fumo e dell’alcol, della gente che consuma e chiacchiera allegramente, ignara dello scorrere del tempo – ecco una prima, lampante differenza con Madrid: a Parigi l’aria è meno carica di odori, si respira senza troppe interferenze olfattive).
II
Notte. Alyssa è appena arrivata e sistema la sua roba nell’armadio di questo appartamento. Abitiamo in Place d’Italie, zona Sud di Parigi, vicino a un grosso centro commerciale che, guarda caso, si chiama “Italie2”. Non avrei potuto trovare sistemazione migliore: si tratta di un bilocale con un bagno piccolo ma confortevole, una cucina all’americana (“quando ci mangi sembra di consumare un pasto al bar”, ha notato subito la mia compagna di viaggio) e una camera da letto con letto matrimoniale dal materasso comodo anche se un po’ duro. Al piano di sopra (noi siamo al pianoterra) ci vive una spagnola che si chiama Maria Angeles. E’ di Siviglia e non so ancora per quale motivo si trovi a Parigi (se per studio o per lavoro). Mi è capitato d’incrociarla appena arrivato, con ancora le valigie in mano. Si è presentata e mi ha stretto energicamente la mano. “Este es mi hermano”, ha detto presentandomi un ragazzo della sua stessa età (tra i 24 e i 30) con un cappellino da basket sulla testa. Il ragazzo ha sorriso. Gli ho stretto la mano e non ha detto una parola. Secondo me non è il fratello. Maria Angeles, prima di chiudersi la porta alle spalle e di lasciarmi coi miei bagagli e le chiavi di casa in mano, mi sorride. Ha due occhi azzurri luminosissimi e una folta chioma mora. La tipica tipa mediterranea. Molto formosa e decisamente attraente. Alyssa sa che sopra di noi abita una ragazza, ma ancora non l’ha mai incrociata. Meglio, perché sono sicuro che non le piacerebbe affatto avere una vicina così attraente (anche se sarà tale solo per poco). Oggi è Lunedì e Sabato abbiamo il volo del ritorno alla dura realtà. Troppo poco tempo per vedere tutto quello che c’è da vedere.
III
Seconda mattinata di vacanza. Abbiamo comprato le baguettes calde, appena sfornate. E due croissants buonissimi, da affogare nel caffelatte senza esitazioni (la dieta, per questi giorni, va a farsi fottere). “Li hai sentiti anche tu, stanotte?”, chiede Alyssa, assonnata. “La spagnola e il fratello, non li hai sentiti? Ci davano dentro con certa enfasi, non ti sei accorto di nulla?”. “Veramente io non ho sentito niente”, rispondo attonito. Come volevasi dimostrare: quello non era suo fratello. Maria Angeles mente. Ma credo che se lo possa permettere. Potrebbe avere la fila dietro, con quello sguardo e quel fisico.
IV
Il programma della giornata: usciamo a Pont Neuf e andiamo a visitare Nôtre-Dame, la famosa cattedrale. Quello che più mi colpisce sono i gabbiani (o corvi? O semplici e prosaici piccioni?) che volano intorno alle guglie acuminate della struttura e tra gli alberi dei giardini che circondano la pianta dell’edificio. Spettacolare. O “spettacolar-popolare”, come ho scritto sopra: affianco a Nôtre-Dame, un giardino con panchine in cui due giardinieri del comune fischiano in direzione di due fanciulle in minigonna (con questo freddo) e mangiano lo spuntino mattutino fra risate sguaiate e ammiccamenti vari. Vorrei sedermi loro accanto per provare a capire di cosa parlino esattamente, e per mettere alla prova il mio grado di conoscenza della lingua. A francese sono scarso, ma mi difendo per chiedere informazioni di base, tipo strade, monumenti, autobus e fermate della metro. Quella che più mi piace, per la sua brevità e monumentalità: “Tolbiac”. Quella che più m’impressiona, per la sua misteriosa etimologia: “Réamur-Sebastopol”.
V
Grand Amphithéâtre de la Sorbonne. Dopo i controlli all’entrata da parte di due guardiani vestiti in doppiopetto azzurro smorto, assisto alla lezione inaugurale del congresso di esperti cui partecipo in qualità di “ponente”. Un dotto ordinario discetta di Aristotele, Cervantes e Shakespeare. Non riesco a seguire il discorso senza soccombere alla tentazione dello sbadiglio. Mi annoio e così mi alzo, saluto una collega napoletana accorsa anche lei a Parigi per gli stessi motivi accademici e me ne vo in giro a filmare con la mia piccola telecamera acquistata a Mediaworld in super-offerta (meno di una macchinetta fotografica). Salgo le scale che mi portano al secondo piano. Un altro guardiano mi ferma: “Non, non, s’il vous plait; ici non, c’est pas possible”. Chiedo scusa, “je suis desolé”, e, rosso in volto, torno all’ovile. Applausi. Significa solo una cosa: la lezione inagurale si è chiusa. Amen. Che inizino le sessioni parallele. Tocca a noi principianti o semi-tali. Prima però una pausa caffè. I mini-croissants pieni di crema sono ottimi; ma i miei preferiti sono delle madelaines bicolore: crema e cioccolato, o almeno credo. Il caffè è bevibile. Alyssa sorseggia un succo di frutta all’ananas, mentre si annoia tra professori che le presento, che mi presentano o che si presentano da soli, senza il mio seppur minimo consenso. “Chi è lei? Io l’ho già vista, era a Palermo l’anno scorso, non è così?”. “Beh, veramente sì, ero a Palermo, ma non mi ricordo di lei. Chi è lei?”. E lui, sorridente e presuntuoso: “Come, lei non sa chi sono io?”. No, non lo so. E nemmeno m’importa. Certe volte penso: ma è davvero questa la strada che voglio intraprendere?
VI
Museo del Louvre. Mi sta antipatica la Gioconda. Ma ancora di più, mi sta antipatica la gente che fa la fila davanti a quel quadro per fotografarlo (lo sanno anche i bambini che le foto ai quadri vengono sempre male: storte, sbiadite, fuori fuoco; sempre). Mi fermo, invece, estasiato davanti a “Amore e Psiche”, di Antonio Canova. Alyssa prova alcuni scatti, cambia posizione e colore (seppia; no, meglio in bianco e nero). Già che ci siamo, le indico Mercurio, con le ali ai piedi. Lui sì, mi sta simpatico. Sarà perché, come disse un mio amico, e coinquilino a Pisa, vivo di fretta.
VII
Museo d’Orsay. Mercoledì pomeriggio, dopo aver assaggiato due paste al caffè e una alla vaniglia (e il pan au chocolat). Ciò che più colpisce (oltre alla immensa quantità delle opere d’arte contenute in questo immenso spazio) è che si tratta di un’ex-stazione ferroviaria. Ci sono ancora le tracce, esaltate dalla nuova funzione che svolge il luogo: c’è l’orologio centrale, enorme, dorato, che segna i minuti e le ore, così come, in precendenza, segnava i minuti e le ore esatte per i passeggeri diretti a Parigi e da Parigi diretti chissà dove. Ci sono le scale in ferro e le colonne d’acciaio, intrecciate come quelle della Tour Eiffel. Ci sono, sottoterra, i binari ormai morti della ferrovia. Passeggio e mi perdo tra sculture e schizzi e quadri e progetti utopici (lo era anche la Torre, prima che due ingegneri un po’ pazzi proponessero il loro piano a Monsieur Eiffel [ci pensò su due secondi; poi firmò il progetto, se ho capito bene dalla didascalia che ho letto sotto uno degli schizzi] – ci sono anche molte caricature di colui che appoggiò economicamente il piano). Estasi e gioia. Emozione di perdersi nello spazio e nei tempi.
VIII
Museo di Arte Contemporanea. Non troppo distante dai famosi Champes-Elysées. Un artista ungherese di cui non so il nome ha progettato una installazione in cui una ventina di televisori s’incrociano lungo un percorso periglioso emanando ognuno una fetta d’immagine (le varie fette dovrebbero incrociarsi fino a formare un mosaico visuale in movimento: a me, invece, per ora, s’incrociano solo gli occhi). Su uno degli schermi si vede una mano, una semplice mano umana che colpisce ripetutamente, periodicamente, la telecamera, in primo piano. Su un secondo si vede il presidente degli USA, Mr. Bush, in uno dei suoi mille discorsi alla nazione; su un terzo, un dito indice che penetra una mano tra il pollice e l’indice opposti; su un quarto, si vede chiaramente una donna in preda ad un orgasmo (o sul punto di averlo); su un quinto, e questo è l’ultimo che mi fermo a guardare, c’è uno spogliarello, di un’attrice dai seni enormi, una specie di ballerina degli anni 50, prosperosa e simpatica con quell’acconciatura vistosa. Alyssa: “Lo sapevo che alla fine ti saresti fermato lì”. E io: “Ma lo sai che non fanno vedere la fine? Arriva solo fino al reggiseno. Poi basta”.
IX
Passeggiamo tra i fiori dei giardini del Jardin du Luxembourg. Ci sono le tipiche coppiette che mangiano il gelato; il senegalese che, disteso sull’erba, legge un giornale in spagnolo; un gruppo di cinesi o giapponesi che scattano foto ai tulipani. Si respira pace, tutt’intorno a noi. Poi usciamo su Rue de Rivoli e m’imbatto in una libreria di testi in lingua inglese (Galignani, si chiama, con nome vagamente italianeggiante). E qui faccio la mia piccola scoperta: credevo che The Rings of Saturn di W.G. Sebald fosse introvabile; e lo è, almeno in Italia. E invece, qui, a Parigi, lo trovo, in inglese, fresco di stampa, con una bella copertina suggestiva (com’è suggestiva la scrittura di questo genio). Lo compro al volo. E ne approfitto per prendere, dello stesso autore, ma questo in francese, Les emigrants. Siamo emigranti anche noi, oggi. Ora che ci penso, deve esserci anche un racconto di Sebald in cui l’autore descrive com’era la stazione d’Orsay, prima di divenire il Museo omonimo.
X
E’ Giovedì e domani mattina all’alba Alyssa riparte. Penso a cosa starà combinando sopra Maria Angeles. Si sente un certo sciabordare di acqua. Poi il tipico rumore che fanno i tacchi a spillo sul parquet. Forse si prepara per uscire. Magari è lì con il fratello-amante. Che l’attende, impaziente.
Fuori ha smesso di piovere. Alyssa inventa su due piedi un piatto di pasta col sugo al basilico. Fumo una sigaretta fuori dal portone perché so che le dà fastidio. E le sto antipatico quando me ne accendo una.
“Parigi non finisce mai”, le dico, citando il titolo di un romanzo che non ha letto (anche perché non credo sia ancora apparsa la traduzione in italiano).
“Che dici?”, esclama mentre mette la pasta fumante nel piatto.
“Niente. Che a Parigi dobbiamo tornarci”. E spengo la sigaretta.

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