jueves, mayo 08, 2008



L'asino di Sancho

Esiste una branca del "cervantismo" (disciplina interna all'ispanismo che si dedica a indagare il senso profondo e i significati presuntamente nascosti di tutte le opere di Miguel de Cervantes Saavedra, "regocijo de las Musas" in quanto autore del famoso - e qui già citato più volte - Don Quijote de la Mancha) che si occupa dei famosi "descuidos" presenti nel romanzo del folle idalgo. I "descuidos", ovverossia, quegli errori plateali, quell'insieme d'incongruenze presenti nel testo e che rompono la verosimiglianza (o interrompono improvvisamente la coerenza narrativa della trama) spingendo il lettore a comportarsi esattamente come lo spettatore che, al cinema, va a caccia di "bloopers", ovvero di quegli errori di cui il regista non si è accorto nel montaggio finale dell'opera (un microfono che appare all'improvviso dall'alto dell'inquadratura; un attore che nella scena successiva indossa una maglia d'un colore diverso da quella che aveva nella scena precedente, e così via).
Tra i vari "descuidos" (o "bloopers") ce n'è uno che è passato alla storia e di cui si accorse subito lo stesso Cervantes (fornendo spiegazioni alquanto raffazzonate nella "Segunda Parte" del Quijote: il furto dell'asinello su cui viaggia il buon Sancho Panza. Non sto qui a ricostruire la storia della spiegazione razionale (o più o meno logica) che diede l'autore dopo essersi accorto del fatto che, in un determinato capitolo della "Primera Parte" (il 23, se non erro), si narrava di come Sancho perdesse il proprio asino (per un furto compiuto da Ginés de Pasamonte, addirittura) e tornasse a cavalcarlo al fianco del fedele Rocinante di Don Quijote nei capitoli seguenti (sono stati scritti - e continueranno a pubblicarsi - un mucchio di saggi su simili questioni). Ciò che colpisce il lettore è lo stile e il tono in cui è scritto il lamento del povero scudiero:
"Oh, hijo de mis entrañas, nacido en mi misma casa, brinco de mis hijos, regalo de mi mujer, envidia de mis vecinos, alivio de mis cargas y, finalmente, sustentador de la mitad de mi persona, porque con veinte y seis maravedís que ganaba cada día mediaba yo mi despensa!"
In questo brevissimo brano scorgiamo la cosiddetta "ironia superiore" di Cervantes, un'attenzione tutta umana per i dolori terrestri e un'acuta capacità di alternare al tono grave il tono basso (Sancho calcola quanti soldi riesce a guadagnare grazie alla fatica tutta fisica dell'asino).
Sancho è disperato, d'ora in poi dovrà montare in groppa a Rocinante o andare a piedi o, peggio, rifarsi del maltolto rubando un altro cavallo o asinello a qualche viandante. Don Quijote, che è suo amico, prova a consolarlo. Poi gli promette di procacciargliene almeno tre, in ricompensa dei suoi servizi (stessa identica promessa farà nel cap. 25, quando redige la lettera a Dulcinea che lo stesso Sancho dovrà recapitarle).
Come finisce il brano in questione? Con queste parole, sintetiche ma efficaci:
"Consolose Sancho con esto y limpio sus lagrimas, templo sus sollozos y agradecio a don Quijote la merced que le hacia [...]".
La paura è passata; l'angoscia pure: i due sono di nuovo pronti ad affrontare le innumerevoli e assurde avventure che Don Quijote sogna nei suoi sogni di pazzo innamorato di letteratura. Non basta il furto dell'asino per fermarli; e poi sono amici, si danno una mano, come suolsi dire, l'un con l'altro. Nei capp. successivi Sancho ritroverà (o dirà di ritrovare) l'amato animale. Il figlio delle sue interiora, l'invidia dei suoi vicini, la gioia di sua moglie, il divertimento dei suoi figli... tutto è bene ciò che finisce bene... e il lettore sorride, nel leggere le spiegazioni più o meno valide che ci offre l'autore nella seconda parte di un romanzo talmente "in progress" che fa acqua da tutte le parti, si perdono i pezzi, si scordano gli asini, ci si dimentica di quante volte Don Quijote cena nella stessa locanda, e via di seguito...

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