martes, noviembre 11, 2014

FRANKENSTEIN IN QUANTO “PARLANTE IN FASCE”


Quando si leggono i “classici” si fanno delle scoperte sensazionali. Magari si tratta di libri letti tanti anni fa, quando ancora non avevamo la stessa “enciclpedia culturale”, quando eravamo ancora dei lettori in erba o dei giovani di buone speranze (o di Great Expectations, come direbbe il caro vecchio Charles Dickens). E il tempo, ovviamente, cambia le carte in tavola, modifica la percezione del “classico”.

È quanto ho sperimentato l’estate scorsa tornando a rileggere Frankenstein (or, The Modern Prometheus), di Mary Shelley, uno dei capostipiti del cosiddetto genere “gotico”, romanzo cult che ha fatto paura a infinità di lettori di ogni parte o latitudine del Mondo, pubblicato nel 1818 e tradotto al cinema un numero svariato di volte (essendo il “mostro” un personaggio perfetto per la settima arte: tutti i mostri lo sono, ma uno come Frankestein – che, è bene ricordarlo, non è il nome del “mostro” bensì quello del Dottore che lo crea – lo è ancor di più, essendo un cadavere che torna a vivere e quale attore non lo è una volta morto e una volta che torna in vita solo grazie alla visione del film da parte dello spettatore che lo vede “agire” in quanto “personaggio”… ma non divaghiamo…).

Ebbene, rileggendo il classico che la moglie del Poeta s’inventò in una tetra notte d’inverno e nel corso di una scommessa tra amici (“vediamo chi riesce a scrivere il racconto di terrore più pauroso”), mi sono accorto di un fenomeno stranissimo che coinvolge il personaggio: Frankenstein (chiamiamolo così, anche se non è il suo vero nome, perché, semplicemente, il “nuovo Prometeo” non ha un nome) non sa parlare la lingua degli esseri umani. È un mostro anche per questo motivo; non può utilizzare il linguaggio verbale che usano gli altri per poter comunicare tra di loro. È privo del dono della parola. Ed è per questo che il lettore assiste quasi affascinato, quasi esterrefatto, alla nascita del linguaggio in Frankenstein quando questi si avvicina alla casa dell’allegra famigliola nei cui pressi si rifugia dopo essere scappato dall’antro dello scienziato pazzo o mad doctor che lo ha creato. A forza di spiare, a furia di captare i suoni dei suoi vicini di casa, Frankenstein inizia a capire il significato delle parole che essi utilizzano quotidianamente per comunicare; Frankenstein impara letteralmente l’inglese grazie agli abitanti della casa nei cui pressi fissa la sua dimora. E come Adamo nel Paradiso terrestre, così Frankenstein, nel limbo in cui è costretto a muoversi –causa del suo aspetto mostruoso non può mostrarsi in pubblico, pena lo spavento e la fuga della persona che gli capita davanti – inizia a nominare le cose che lo circondano, a capire che il verso che fa la rondine che si posa sul ramo dell’albero ha un nome (cinguettare), che ogni cosa, ogni oggetto, ogni elemento che lo circonda può essere “nominato”, e la scoperta ha un che di straordinario, Frankenstein potrebbe imparare qualsiasi lingua, oltre all’inglese, e potrebbe perfino sperare di venire capito da quegli esseri umani che tanto lo temono.

La scena in cui Frankenstein tenta di entrare in contatto con i suoi vicini è memorabile e mitica proprio per questo: perché noi lettori assistiamo al disperato tentativo di un “bambino” del linguaggio verbale, di un “parlante in fasce”, di un poppante della lingua inglese che cerca di balbettare un messaggio di senso compiuto e, nel fare ciò, si dimentica per un attimo dell’ostacolo più grosso che si frappone tra lui e il resto dell’umanità, ovvero, si dimentica di quell’aspetto mostruoso, di essere deforme e gigantesco, fatto di pezzi di cadaveri rattoppati sotto un’unico cervello pensante e senziente, che tanto panico provoca nel prossimo. In questa scena Frankenstein fa letteralmente pena: perché le sue intenzioni sono nobili, ma il suo aspetto è terribile e provoca rigetto. Entra nella casa e non riesce a parlare e a spiccicare bene le parole e la reazione dei vicini è quella di sempre: grida, schifo, terrore.

È anche questa impossibilità di comunicare con gli altri ad aggravare la situazione; il mostro diverrà più “mostro” anche per questo motivo. E giurerà eterna vendetta al Dottore che l’ha creato senza uno strumento così importante come la capacità di sapersi esprimere a parole. Se Frankenstein parlerà sarà per spargere odio e terrore; per lasciare tracce del suo passaggio da animale braccato, per gridare ai quattro venti che non l’ha voluto lui, che non è stata colpa sua, se qualcuno ha deciso di “metterlo al mondo” in quel modo, con quelle fattezze e senza quella lingua che ci rende umani.

È stata una lettura estiva fatta sotto il sole. Ma è stato bello anche così: leggere di brume, nebbie, inseguimenti e rapimenti, coccolato dalla brezza marina e dal rumore (sempre ipnotico) delle onde del mare in bonaccia.

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