Under the volcano, di Malcom Lowry (1947): la discesa agli Inferi
di un’antieroe dei nostri tempi
Ci sono romanzi che lasciano il
segno, sin dalle prime righe, sin dal prologo. E ci sono romanzi che, oltre a
lasciare il segno, ti rendono subito partecipi delle ansie, delle angosce,
delle paure e dei traumi dei loro protagonisti. È questo il caso di un classico
della letteratura del Novecento, Under
the volcano, di Malcom Lowry, un romanzo rifiutato dagli editori, scritto e
riscritto dall’autore, e alla fine assurto alla categoria di “classico”, quando
forse nemmeno Lowry ci sperava più…
Mix perfetto di sentimentalismo
non sdolcinato e di romanticismo triste, il romanzo narra la discesa agli
Inferi di un console che finisce col lavorare in un paese del Messico perduto
in mezzo ad una foresta di stampo amazzonico e sito alle falde di due vulcani a
riposo. Laurelle è il testimone oculare dell’autodistruzione del console,
Geoffry, un uomo buono, uno qualunque, che si ritrova a vivere un dramma
moderno quale è il divorzio da Yvonne, sua moglie, giovane e paziente, tornata
a Quauhnahuac (così si chiama il paesino di cui sopra) per tentare di salvarlo
dall’alcolismo (essendo diventato il whiskey l’arma che Geoffry usa contro se
stesso, quasi per morire in vita, o per sotterrarsi con le sue stesse mani).
C’è anche un altro personaggio a occupare il primo piano: il giornaliste free-lance (si direbbe oggi) Hugh, uno che è stato in Spagna allo scoppio della Guerra Civile, un americano che – come tanti all’epoca – ha subito il fascino della lotta repubblicana contro i franchisti e ha quasi finito con l’arruolarsi tra i soldati volontari delle Brigate Internazionali (ma l’intero romanzo è punteggiato dai ricordi di questa fase della storia recente; oltre che da molti ammiccamenti a Don Chiosciotte, personaggio letterario evocato spesso dal Console).
E a proposito di Cervantes e della sua creatura fittizia, è proprio Don Chisciotte a dare il là ad una sorta di monologo interiore di Geoffry, o meglio, alla lettera che questi rievoca e che spedì anni prima a sua moglie Yvonne… Una lettera che mi ha fatto quasi piangere, che commuove e smuove l’animo del lettore, che ci spinge a riflettere sul dolore che può scatenare una dipendenza, sia essa dovuta all’alcohol o sia essa collegata a un amore che si percepisce ormai come finito o spezzato per sempre…
E non resisto alla tentazione di
trascrivere parte di questa lettera, che dà l’idea dello stile cinematografico
di Lowry e che - penso e spero - fa giustizia a un romanzo che strega e lascia il segno e penetra
dentro l’anima del lettore e lo scuote e lo spinge a riflettere e a ricordare e
a piangere e a sospirare:
“Ma, oh, povero Cavaliere della
Trista Figura! Perché , sì, Yvonne, sono così continuamente ossessionato dal
pensiero delle tue canzoni, del tuo calore e della tua letizia, della tua
semplicità e comunicativa, delle tue capacità in cento cose, della tua
fondamentale sanità, del tuo disordine, della tua ugualmente eccessiva lindura…
i dolci inizi del nostro matrimonio. Ricordi i Lieder di Strauss che solevamo
cantare? Una volta all’anno i morti vivono per un giorno. Oh, ritorna a me come
una volta in maggio. I Giardini del Generalife e quelli dell’Alhambra. E ombre
del nostro destino al nostro incontro in Spagna. Il bar Hollywood a Granata.
Perché Hollywood? E quel monastero: perché Los Angeles? E la Pensión México, a
Malaga. E tuttavia nessuna cosa potrà mai sostituire l’unità che noi conoscemmo
una volta e che Cristo solo sa che deve esistere ancora in qualche luogo” (p.
49 dell’ed. Feltrinelli del 1977, con traduzione – un po’ invecchiata, come si
nota anche da questo brano – di Giorgio Monicelli).
Che potenza! Che delirio! Che tristezza
infinita! E uno si domanda: esatto, è così, è proprio vero, dove diavolo (o
dove Cristo) sarà finita quell’unità che conoscemmo una volta con quella persona che amammo in passato? In che luogo?
Dove finiscono le forti intese che cementavano rapporti amorosi che sembravano
destinati a durare per sempre? Lowry, anche lui, è un'antieroe
donchisciottesco, per le domande che si pone e che ci spinge a porci.
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