miércoles, diciembre 17, 2014

LE VOCI E I RUMORI





“A volte la voce di un interlocutore ci colpisce più del contenuto del suo discorso e ci sorprendiamo ad ascoltare le modulazioni e le armonie di quella voce senza ascoltare ciò che ci sta dicendo. Questa dissociazione è, senza alcun dubbio, responsabile del sentimento di estraneità (quando non di antipatia) che tutti sperimentiamo ascoltando la nostra stessa voce: arrivandoci dopo aver attraversato le cavità e le masse della nostra anatomia, ci trasmette un’immagine deformata, come se ci guardassimo di profilo, con l’aiuto di un gioco di specchi”.

È il sempre geniale, erudito, chiaro anche quando complesso, Roland Barthes a parlare (in un saggio contenuto nella raccolta L’ovvio e l’ottuso) e a spiegarmi  perché mi suona “strana” o “diversa” la mia voce quando parlo in pubblico con un microfono (che distorce i fatti ancora di più di quando parliamo senza filtri tecnologici) o quando mi risento via Whatsapp, una volta mandato un messaggio vocale a mia madre (sì, ora anche mia madre ha scoperto questo strumento e ne approfitta per pregarmi di coprirmi bene, se in Italia fa freddo, o per chiedermi se ho mangiato, se teme che i miei ritmi lavorativi stiano diventando così folli e disumani da obbligarmi a chissà quale terribile dieta ferrea o squilibrata – ma non sa che qui, nella città spagnola in cui vivo, nella casa in cui abito, mi nutro molto, infinitamente meglio, di quanto non facessi quando pernottavo a Roma…).

Ma la riflessione del saggista e critico e intellettuale francese va oltre e ci spiega come noi, in quanto esseri umani, ci muoviamo e ci manteniamo in vita anche grazie alla traduzione sonora dei rumori che ci circondano; e qui Barthes fa un esempio chiarissimo: quello del bambino che riconosce ogni piccolo sussurro della sua cameretta e che, se spostato e messo dentro un altro ambiente, si sente smarrito, perso, abbandonato, proprio perché non riesce più a tradurre in modo corretto e istantaneo i tanti piccoli rumori che compongono quella che Barthes chiama “la sinfonia domestica” delle nostre famose e simboliche quattro pareti domestiche.

E poi va ancora oltre perché cita Franz Kafka, il quale, nei suoi Diari, ci parla di come la paura possa nascere improvisamente proprio dalla difficoltà di interpretare correttamente un cigolio della porte, un cadere di pentole in cucina, un sussurro inspiegabile da dietro una tenda, etc.

Tutte cose “intime” e “familiari”, certo, e che però diventano subito “strane” o “inquietanti” o “perturbanti” (per dirla con Freud) se il nostro udito non riesce a clasificarle in base ai suoi parametri razionali di sempre… (e mi vengono subito in mente mille scene da film tipico dell’orrore).


E poi il discorso si sposta proprio sulla psicanalisi e su Lacan e su Freud (una “scienza” tutta fondata sull’ascolto apparentemente “neutro” dello psichiatra nei confronti delle confessioni del paziente) e sull’inquinamento acustico della società contemporanea e sulla sfida di Ulisse nei confronti delle Sirene (il desiderio folle di voler ascoltare a tutti i costi il loro canto, pur sapendo che ciò implicherà la morte) e altri riferimenti che non sto qui ad elencare, anche perché non ho ancora finito di leggerlo, questo saggio, e però so già che mi piacerà, perché, diciamocela tutta, sono davvero pochi gli studiosi, i saggisti, i critici o gli intellettuali che sanno spiegare così bene le cose come fa Roland Barthes e uno si domanda anche che cos’altro avrebbe potuto scrivere e regalarci se la morte non se lo fosse portato via quel 25 Febbraio del 1980 quando, uscendo dall’Università, venne investito da un camion (o da un furgone) e finì all’ospedale e morì quasi un mese dopo, un 26 Marzo dello stesso anno…forse perché non riuscì a sentire o a tradurre correttamente il suono del clacson o della frenata dello stesso camion o furgone o quello che fosse che gli tolse la vita...

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