Pinocchio, o dell’“originalità”
durevole dei “classici”
Italo Calvino sosteneva
che “classico” è un libro che “non ha finito di dire ciò che aveva da dire”. È
una bella definizione, ne converrete... E si attaglia alla perfezione a opere
come, chessò io, l’Odissea (o la sua
versione moderna e modernista: Ulysses di
Joyce); il Don Chisciotte di
Cervantes; L’infinito di Leopardi; o Hamlet di Shakespeare...
E la definizione è
applicabile anche a Pinocchio, un “classico”
sempreverde della letteratura cosiddetta “infantile” che, in questi giorni di
iper-lavoro e di stress costante (devo finire un libro, un saggio che sta
toccando quota 250 pagine!), mi sta aiutando ad andare avanti, a prendere fiato
e a guardarmi intorno con occhi meno angosciati e più allegri...
Credo di non averlo mai
letto Pinocchio per intero. Immagino che
pochi lo abbiamo mai letto per intero. Con Pinocchio succede come con gli altri
“classici”: ecco una seconda definizione “calviniana” di “classico”: quel libro
che “non abbiamo mai letto ma che conosciamo anche senza averlo mai letto”. E
leggendolo, invece, si scoprono subito un sacco di cose interessanti per la
loro freschezza, schiettezza ed originalità. Prendiamo l’incipit:
“C’era una volta...
-
Un re! –
diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete
sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”.
È un prologo che spiazza
perché scombina le carte in tavola: sembra proprio che Carlo Collodi si sia
divertito a scrivere le avventure di questo “pezzo di legno” che poi assume i
tratti (umani) di un bambino e che ne combina di tutti i colori. Dietro questo incipit
io ci vedo l’allegria di scrivere per il piacere di scrivere, senza obiettivi
prefissati, senza una trama già studiata a tavolino, senza una meta da
raggiungere a tutti i costi (“bambinata”, sembra che Collodi definì i primi
abbozzi di quello che solo in un secondo momento sarebbe diventato un “romanzo”
per fanciulli; e mentre lo definiva tale, si scusava con l’editore per come lo
aveva scritto).
Andando avanti, questa
freschezza, questa allegria, questa voglia di scrivere per il piacere di
scrivere (e di raccontare delle storielle interessanti o che possano catturare
l’attenzione del lettore) si percepisce in modo ancora più lampante, come in
questo episodio del cap. V: Pinocchio è da solo e deve cercare di calmare la
fame. Vede un uovo e si prepara a cucinare:
“Detto fatto, pose un
tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa, messe nel tegamino, invece d’olio
o di burro, un po’ d’acqua e, quando l’acqua principiò a fumare, tac!... spezzò
il guscio dell’uovo e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
Ma, invece della chiara e
del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso il quale,
facendo una bella riverenza, disse:
-
Mille
grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiato la fatica di rompere il guscio.
Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa.
Ciò detto, distese le ali
e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio”
(tutte le citazioni da Carlo Collodi, Le
avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1971).
È inevitabile: non si può
non sorridere (o ridere) delle parole del pulcino che fuoriesce dall’uovo e,
così, ottiene la libertà; non si può non meravigliarsi della genialità di
Collodi nel far interagire tra loro un burattino (parlante), un uovo e il
contenuto dello stesso... L’immaginazione dello scrittore è libera (liberrima,
direi) di modificare i dati della realtà per mescolarli e riordinarli in base a
principi che con la realtà hanno poco a che vedere. È come quando Charlie
Chaplin, nel meraviglioso e poetico La
febbre dell’oro, in attesa dell’amata e già prevedendo che la ragazza non
si presenterà alla cena galante che lui le ha preparato con tanto affetto, inizia
a intrattenersi (e a far passare il tempo) creando una coreografia
perfettamente disegnata con tre panini infilzati da un paio di forchette.
Chaplin fa letteralmente danzare i panini e noi spettatori (con lui) restiamo a
bocca aperta, estasiati da tanta eleganza, colpiti dal nuovo uso che si può
fare di un oggetto, di un prodotto comune, come due tozzi di pane.
Ecco, il pulcino educato
di Pinocchio mi fa pensare ai panini ballerini di Chaplin. Non ci sono freni né
tabù né inibizioni di sorta. Quando Collodi si dimentica per un po’ della
morale (e dell’intenzione moraleggiante delle avventure della sua “creatura”) è
davvero capace di sorprenderci, di farci ridere o sorridere, di farci
riflettere su come cambia o potrebbe cambiare la percezione della realtà se
solo si fosse in grado di sposare un nuovo, più creativo, meno razionale e meno
freddo punto di vista. Ovvero (forse): se solo si fosse capaci di tornare (per
un attimo) un po’ bambini...
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