Lazzaro’s
resurrection
Pura casualità, a due giorni
esatti dalla vigilia di Natale, m’imbatto in Non dirlo, l’ultimo “libro” di Sandro Veronesi (Milano, Bompiani,
2015); e se utilizzo la parola “libro” e la metto tra virgolette è per
l’incertezza intrinseca, l’indeterminatezza tutta ontologica, circa la natura
di un testo che non è un romanzo, non è un saggio, non è un’agiografia, non è
un manuale d’insegnamento catechistico, e che forse proprio in virtù di questa
sua “indeterminatezza ontologica” risulta accattivante, cattura l’attenzione
dalla prima riga all’ultima pagina, ti prende allo stomaco, insomma, e mantiene
alta la suspense fino alla fine…
Veronesi – uno che negli
anni passati ha già scritto testi ibridi: si pensi a Occhio per occhio (del 1992), una sorta di reportage in diritta
sulla pena di morte nel mondo contemporaneo, o a No Man’s Land (del 2003), sorta di riscrittura teatrale di un film
sulla guerra in Jugoslavia – si appassiona al Vangelo di Marco (tra i più brevi
e “veloci” dei quattro) per mostrarcene la carica narrativa dirompente e la
tecnica quasi cinematografica nella costruzione della trama. Come fosse un film
di Tarantino, o di Sergio Leone, l’autore ne snocciola i punti salienti,
servendosi di un corposo apparato di note finale che ampliano, descrivono,
raccontano, comparano, studiano e interrogano il testo biblico (come se in
quelle note si giocasse un’altra partita importante: quella dell’autore con i
misteri irrisolti che si celano dietro le parole di Marco).
E tra queste note m’imbatto
nella numero 63 (p. 194), una nota che non posso fare a meno di trascrivere
qui, su questo diario di bordo, perché mi cattura e mi fa riflettere su una
cosa su cui avevo discettato un paio d’anni fa in un congresso sulla poesia
moderna e contemporanea:
“Malgrado la fama che
l’accompagna, la resurrezione di Lazzaro è un episodio anomalo del Vangelo,
tragico, sconvolgente, quasi spiacevole, nel quale Gesù appare sotto una luce
insolitamente gotica. Questo perché quando, piangendo, ordina di aprire il suo
sepolcro, Lazzaro è già morto da quattro giorni, e il testo specifica che “già
puzza”; e quando, obbedendo all’ordine
di Gesù (“Vieni fuori”) Lazzaro compare sulla porta, è una mummia saltellante,
uno zombie “legato mani e piedi con le fasce e col viso coperto da un sudario”.
Giovanni spazza subito sotto il tappeto l’orrore che ha appena sparso attorno a
questo prodigio, ma basta leggere la ricostruzione che ne fa Luca Doninelli nel
suo bellissimo libro dedicato a Giuda Iscariota, Fa’ che questa strada non finisca mai (Milano, Bompiani, 2014), romanzesca
e per questo ancora più vera, per rendersi conto che si tratta di un miracolo
decisamente scandaloso, e che gli altri evangelisti hanno fatto bene a
eliminarlo”.
Ora, il punto nodale è
proprio l’aggettivo “scandaloso”: lo stesso che io adottai per descrivere la
ri-scrittura di questo famosissimo passo della Bibbia (del Vangelo di Giovanni)
da parte di quel poeta moderno e contemporaneo su cui mi concentrai proprio per
parlare del concetto di “ri-scrittura”.
Il fatto che Lazzaro (amico di Gesù) torni alla vita dopo essere morto e dopo essere stato sepolto per quattro giorni è uno “scandalo”; il poeta in questione lo dice velatamente assumendo il punto di vista del risorto: Lazzaro si chiede che senso ha tornare a vedere la luce del sole dopo essere stato mortalmente avvolto dalla tenebra dell’al di là. Perché Lazzaro è stato nell’al di là, che si presenta subito come un luogo freddo, privo di luce e assolutamente triste. E ciononostante, il fatto di tornare nel mondo dei vivi non gli dà nessun conforto, perché appena fuorisce dalla tomba, appena varca la soglia del sepolcro, e può rivedere il suo amico e abbracciarlo, si rende conto che non ha più i sensi, ovvero, il suo olfatto non percepisce più gli odori, il suo gusto non percepisce più i sapori e il suo tatto non percepisce più le mille sfumature delle cose; la sua vista gli permette di vedere, ma i colori si riducono a un grigiore informe e indistinto. Come se su tutte le cose della Terra fosse calata una nebbia che rende impossibile distinguere i colori. Insomma, come se i colori avessero perso il loro spessore.
Ecco. Il “libro”
inclassificabile di Veronesi (e dotato di uno stile agile molto vicino al
registro della lingua orale – non è un caso, dunque, se leggo su internet che
questo stesso “libro” Veronesi lo usa come sceneggiatura di partenza per un
monologo da svolgere a teatro, in diretta, a viva voce) ci permette di entrare
in contatto con i risvolti più originali perché più dirompenti e rivoluzionari
di un testo, come il Vangelo di Marco, alla base di una religione come quella
cristiana cattolica che fa della resurrezione un “mito” fondante. Senza Lazzaro
e, poi, senza la resurrezione di Cristo tre giorni dopo la crocifissione, non
ci sarebbe la buona novella. Non ci sarebbe la religione cristiana cattolica
così come oggi noi la conosciamo.
Eppure, proprio una delle
scene che prefigura la “resurrezione” è permeata di un’aura apocalittica,
paurosa, che ci fa dubitare. Che ci trasmette un certo fastidio. Che ci
sconvolge perché è, effettivamente, “scandalosa” (Lazzaro è davvero un morto
vivente, uno che da cadavere – come Frankenstein – torna a camminare nel mondo
dei vivi).
E allora la domanda è: come
coniugare quella scena “scandalosa” (che solo Giovanni si premura di riportare
nel suo Vangelo) con quell’altra “fondamentale” di Gesù che torna in vita per
trasmettere la buona novella agli Apostoli e all’Umanità tutta intera? Come non
domandarsi circa il parallelismo e il contrasto netto tra l’una e l’altra
scena?
Ovvio che dopo questa nota
al testo di Veronesi non potrò non andarmi a leggere il romanzo di Luca
Doninelli che egli stesso cita come esempio di “ri-scrittura” di questa famosa
scena…Oltre che di approfondimento romanzesco sulla figura di Giuda Iscariota:
un altro personaggio “anomalo”, il “cattivo” che deve svolgere bene il proprio
ruolo (il “traditore”) affinché si compia quella morte che è alla base di
quella seconda resurrezione fondamentale affinché l’Umanità creda… I misteri
della fede…
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