Faces (1968) di John Cassavetes
Ieri (prima di prendere atto delle atrocità di Nizza – una
città dove avevamo intenzione di fare tappa questo Agosto nel nostro viaggio
interstellare tra la Spagna e l’Italia, passando per la Francia), io e la mia
compagna di avventure abbiamo visto uno dei film più spettacolari e belli della
Storia del Cinema: mi riferisco a Faces (1968)
del grande regista americano John Cassavetes.
Faces è un film
che ti cattura fin dalle prime inquadrature: la camera a mano traballa e resta
attaccata ai volti (appunto, “faces”) degli attori in un modo tale che a te –
spettatore – sembra di stare vivendo la vita dei personaggi del film stesso; ti
sembra proprio di sperimentare tutta l’agitazione, l’allegria e la follia che
vivono questi ultimi sullo schermo; ti pare di poter sentire il loro alito, di
poter auscultarne la respirazione, di poter diventare vittima di qualche loro
sputo, lanciato in aria in un momento di particolare fibrillazione. E la mente
corre subito al manifesto DOGMA 95 di
Lars von Trier e Thomas Vinterberg, i due danesi che, appunto, sul finire degli
anni 90 hanno cercato di “rivoluzionare” il cinema d’autore facendo un passo
indietro, neutralizzando l’uso (e, a volte, l’abuso) degli effetti speciali per
tornare un po’ alle origini, a un “neorealismo” che diventa “iperrealismo”.
John Cassavetes fa esattamente la stessa cosa, ma prima di
von Trier e Vinterberg; inspirandosi (a quanto leggo al volo su internet) al
Cesare Zavattini del cinema-verità o “cinema documentaristico”, trasforma la
macchina da presa in un testimone oculare che si muove a distanza
ravvicinatissima dagli attori. Da qui quello strano effetto di sentirsi come
all’interno dell’inquadratura, e anche di percepirsi come all’interno di una
guerra, quella che il film stesso va sviluppando stando alle spalle o sulla
faccia in primo piano degli attori…
La trama di Faces
è semplice: un uomo e una donna sulla cinquantina in crisi sentimentale dopo 17
anni di matrimonio; lui decide di rifarsi una vita con una prostituta di cui
s’innamora (la bellissima Gena Rowlands, moglie di Cassavetes nella vita reale
e sua musa ispiratrice fino alla propria morte), lei finisce con l’andare a
letto con un gigoló dopo una nottata di sbronze euforiche con un paio di
amiche. Ciò che rende questa trama “semplice” un’opera d’arte è il modo in cui
viene raccontata: la tecnica diventa consustanziale agli obiettivi estetici del
regista. I primi piani costanti, continui ed iperrealisti ci portano sul campo
di battaglia in cui si combatte a suon di dialoghi assurdi una guerra senza
fine e senza pietà. Le inquadrature non sono mai banali, anzi, sembra come se
Cassavetes si impegnasse a sorprendere sempre lo spettatore (come in quella
sena in cui lui, il marito fedifrago, si è appena riappacificato con un cliente
della sua prostituta favorita, e lei, Gena Rowlands, appare in mezzo ai due
uomini, il viso inquadrato in modo geometrico tra le geometrie perfette delle
giacche dei due rivali in amore e nel sesso; e così in molte altre scene, come
quella finale, in cui marito e moglie, come sopravvissuti, tirano le somme
della loro lotta seduti sulle scale che portano in camera da letto a distanza
di pochi gradini l’uno dall’altra).
Insomma, e per farla breve, Faces colpisce perché non dà tregua, non è mai scontato, anche
quando i personaggi sembrano parlare del nulla, anzi, direi “soprattutto”
quando sembra che non stia accadendo nulla e che si parli solo di sciocchezuole.
Eppure…tutta la “macchina narrativa” viene innescata per un tradimento e la
richiesta di divorzio di lui contro sua moglie (si lamenta del fatto che non fanno
più sesso; per questo il cinquantenne dai capelli bianchi decide di godere dei
servizi della prostituta che poi diventa amante).
Un dramma quotidiano, un
dramma qualunque (che comunque dovrebbe farci riflettere: perché gli uomini,
all’interno di un matrimonio, sono così portati al tradimento? Perché hanno
apparentemente più velleità belliche delle donne? Perché hanno sempre voglia e
loro no?) che Cassavetes trasforma in una specie di documentario sulla vita e
la società americana degli anni 60. Un documentario crudo, dove allo spettatore
non viene nascosto nulla, dove, anzi, allo spettatore è affidato il compito di
“presenziare” il dramma fin nei più piccoli particolari (le espressioni del
volto dell’attore in campo; le parole che lascia scorrere senza fine; le risate
o le lacrime che erompono in un modo così naturale e diretto che uno si chiede
quanta bravura debbano aver mostrato tutti in questa messa in scena così
spettacolare - penso, in particolare, all'attrice che impersona la "moglie" tradita e adultera; Lynn Carlin si chiama, da Oscar nella scena in cui rischia di morire dopo aver ingurgitato un barattolo intero di barbiturici...). Un film da vedere e rivedere. Un film da gustare in ogni sua
inquadratura.
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