miércoles, enero 03, 2007

In questi giorni di vacanza, pieni di sorrisi, di gente nota, di parenti che non vedevi da mesi e di amici persi di vista (forse) per sempre, sto leggendo un saggio di Giorgio Agamben che s'intitola (genialmente, come molti altri dei suoi libri) Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone (Torino, 1998 - fra due anni sono dieci anni che circola, incredibile, ma vero). Lo leggo dopo aver finito un romanzo spagnolo che non mi ha convinto - El cielo de Madrid, di Julio Llamazares, anche questo un titolo accattivante, peccato, sarà per la prossima volta - e in attesa di leggerne un altro americano - Everyman, del più volte nominato al Nobel prof. Philip Roth, il genio che scrisse, tra gli altri, Portnoy's Complaint, nell'ormai lontanissimo 1972 o era 74 o 75 o 80, non ricordo.
L'ultimo cap. del libro di Agamben si riallaccia al sottotilo: "L'archivio e la testimonianza". Si parte da un aneddoto legato a Benveniste, uno di quelli che ha rivoluzionato la cosiddetta linguistica, o scienza che studia il linguaggio. Mi fermo a riflettere su questa frase, che cito, alla lettera: "Come l'essere dei filosofi, l'enunciazione è ciò che vi è di più unico e concreto, perché si riferisce all'istanza di discorso in atto, assolutamente singolare e irripetibile e, insieme, è ciò che vi è di più vacuo e generico, perché si ripete ogni volta senza che sia mai possibile fissarne la realtà lessicale". Qualsiasi delle molte (sciocche) enunciazioni che ho emesso e lasciato per iscritto in questo blog rispecchiano dunque questa duplice identità; sono bifronti, nel senso che, come l'essere dei filosofi, racchiudono o presentano di volta in volta i caratteri del singolare e irripetibile come quelli del ripetuto e rinnovabile, ripetibile ad infinitum. E nessuna di esse può avvicinarsi alla verità (o al sommo essere immoto e immobile) perchè sempre - solo - parziale riflesso della stessa. Oggi fa freddo, domani nevica, questa notte c'è la luna piena sono fatti di lingua assoluti e relativi, insieme. Il che non vuol dire niente, evidentemente. E ci perdiamo in mezzo ai riflessi. Di riflettori che non illuminano che piccole porzioni di realtà (mentre fuori fa freddo e nevica e la luna è piena, un barbone muore all'ingresso di un tunnel che porta a Piazza Venezia e una formica ruba un pezzo di uvetta da un panettone lasciato incustodito all'uscita di un grosso supermercato sueraffollato, soprattutto in questi giorni di vacanza natalizia).
Poi smetto di enunciare enunciazioni. O di scrivere frasi vuote di sensi. O di senso. Sarà pure freddo e fuori potrebbe anche nevicare e la luna essere al massimo del suo splendore. Ma io ho sonno e questi tasti sono duri e io faccio fatica a tenere gli occhi svegli. Volevo dire: aperti. O, come disse Kubrick: "Eyes (wide) shut".

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