sábado, abril 12, 2008


Cervantes, "el manco desconocido"




Chi era davvero Cervantes? La domanda se la sono posta centinaia (se non migliaia) di critici, cervantisti e non; è una domanda che sorge spontanea quando siamo davanti ai creatori di opere immortali, dei capolavori letterari che riteniamo "opere classiche", come lo è, nel nostro caso, la storia dell'idalgo (cittadino, tradusse Franciosini) Don Quijote de la Mancha.

Per motivi che “no vienen aquí a cuento”, ho avuto il piacere di seguire le orme di questo autore nelle maschere che si creò all’interno delle varie opere pubblicate in vita. L’autoritratto più famoso (quello anche più ironico ed auto-ironico) lo troviamo nel prologo alle Novelas ejemplares (1613, se non erro, dunque: pubblicate 2 anni prima della II parte del Chisciotte e ben 8 dall’uscita della I): qui Cervantes ci si presenta innanzitutto come “scrittore”, cioè: come l’autore di quella determinata e ben articolata lista di opere. E questo già colpisce, se pensiamo che all’epoca gli scrittori non conoscevano il copyright e non avevano un’idea precisa di cosa fosse essere “autori” (quando oggi una firma diventa spesso un marchio di fabbrica da pubblicizzare del tipo: “Stephen King, l’autore di Shining”). Insomma, Cervantes non è tanto (e non è solo) quello che pubblica La Galatea o Don Quijote, ma anche quello che si azzarda a “novellare” in lingua spagnola sulla falsariga del modello boccaccesco come mai nessuno prima di lui aveva osato fare…
Quando poi passa a descriverci com’è fatto fisicamente, quando si mette a disegnare il proprio autoritratto, beh, a questo punto il lettore non può non apprezzarne il tono giocoso (non si può non sorriderne): non fa che elencare i difetti della pelle pallida e del viso allungato, del naso pronunciato e dei capelli scoloriti e non più biondi, della mano sinistra ferita nella famosa battaglia di Lepanto (nel 1571, quando aveva appena 24 anni, coraggio da vendere, dunque), dell’intera corporatura (non molto veloce di piedi, fin troppo appesantito di spalle) per finire coi denti:

los dientes ni menudos ni crecidos, porque no tiene sino seis, y ésos mal acondicionados y peor puestos, porque no tienen correspondencia los unos con los otros

Verrebbe da dire: che sfiga, solo sei denti in bocca e questi unici denti buoni a masticare “peor puestos” perché non in linea gli uni sugli altri…

Nel prologo alle Ocho commedia y ocho entremeses (raccolta dei suoi tentativi di sfondare a teatro – tentativo vano, visto lo strapotere e la moda delle opere di Lope de Vega, suo acerrimo nemico), Cervantes “spiega” (si fa per dire) la sua assenza dalle librerie (si fa per dire) con una frase tanto breve quanto misteriosa: “Tuve otras cosas en que ocuparme, dejé la pluma y las commedias, y entró luego el monstruo de naturaleza, el gran Lope de Vega…”. A questo punto ci si domanda a cosa si riferisce, a quale periodo della sua vita allude, quando scrive: “ebbi altri affari di cui preoccuparmi” (ma si può tradurre anche: “dovetti occuparmi di altre cose, lasciai la penna e le commedie, ed entrò poi in scena il mostro della natura, il gran Lope de Vega”). Si sa che per 5 anni restò prigioniero degli arabi; e che per ben 4 volte tentò la fuga, invano; si sospetta che un sultano fin troppo clemente con lui (gli evitò la pena capitale: all’epoca e dalle parti di Algeri – o Tunisi – questa consisteva nell’impalamento) dovette prendere a cuore il suo caso anche per motivi che esulavano dalla religione e dalla politica. Rosa Rossi (autorevole ispanista italiana ed appassionata cervantista) ci ha scritto sopra un libro: Sulle tracce di Cervantes (Roma, Riuniti, 1997), sottolineando la presunta omosessualità dell’autore del Persiles. Altri hanno fatto la stessa cosa con Shakespeare, quando hanno attribuito lo “you” (nella forma originaria: “thou”) dei vari sonetti a un soggetto di sesso maschile…Who will believe my verse in time to come, / If it were fill'd with your most high deserts? si domanda l’autore di Amleto con retorica disperazione…

Un altro ritratto cervantino lo troviamo ovviamente nei due prologhi alle due parti del suo capolavoro più universalmente noto: quello che colpisce del prologo alla I parte del Quijote è il ritratto quasi plastico, quasi pittorico dell’autore che è in crisi d’ispirazione e che non sa come andare avanti (lo scrittore messo davanti a se stesso e alla pagina bianca, ancora tutta da scrivere – di fatto la critica ha parlato per questo prologo di un “prologo impossibile”, ovvero di un originalissimo “prologo su come scrivere i prologhi”):

Muchas veces tomé la pluma para escribille, y muchas veces la dejé, por no saber lo que escribiría; y estando una suspenso, con el papel delante, la pluma en la oreja, el codo en el bufete y la mano en la mejilla, pensando lo que diría…

Un quadro perfetto (tanto che in alcune edizioni moderne del romanzo si rimanda al famoso dipinto di Dürer intitolato Melancholia), una descrizione dettagliata dei travagli dell’autore che sta per creare o partorire la sua opera. E come si risolve il tutto, cosa succede dopo questa “suspensión” (che crea anche suspense)? Cervantes s’inventa un caro amico che, vedendolo in questo stato, gli chiede cosa abbia fatto; chi dice “io” (ma siamo sicuri sia lo stesso Cervantes?) espone il suo dilemma: non sa come scrivere il prologo; non sa come aggiungere all’opera quei sonetti o epigrammi laudatori che si era soliti apporre all’inizio di ogni libro per dargli maggiore autorità; nessuno scrittore famoso dell’epoca si è degnato di farlo, di pubblicizzare l’opera; anzi, si sa che all’epoca i detrattori come Lope avevano sparso la voce che Don Quijote fosse un libro sciocco per lettori incolti; Cervantes non sa cosa fare perché la sua creatura è “secca”: niente note a piè di pagina; niente lista di autori famosi alla fine del testo. E qui avviene lo sdoppiamento, come se l’amico fosse un suo alter-ego attraverso il quale farsi l’auto-elogio: a che serve citare Aristotele o Platone, se io so dire a parole mie ciò che essi hanno già detto in passato?

Il prologo alla seconda parte è ancora più geniale e, se si vuole, più umano. Cervantes pubblica la sua seconda parte dopo che un tale Avellaneda, l’anno prima (1614), ha dato alle stampe una Segunda parte aprocrifa del Quijote. Ora, il lettore si aspetta una reazione violenta da parte del “vero creatore” del folle idalgo e invece… Cervantes non si arrabbia; l’unica cosa che lo offende davvero sono le critiche volgari di Avellaneda alla sua vecchiaia e al fatto che lui è monco:

como si hubiera sido en mi mano haber detenido el tiempo, que no pasase por mí, o si mi manquedad hubiera nacido en alguna taberna, sino en la más alta ocasión que vieron los siglos pasados, los presentes, ni esperan ver los venideros

“Come se fosse stato in mio potere fermare il tempo, che per me non passasse, o come se la mia monchezza fosse nata in qualche taverna, e non nella più alta occasione che videro i secoli passati, i presenti, né sperano di poter vedere quelli venturi” (questa una possibile traduzione non letterale e fatta en passant).

Cervantes difende il suo onore di “cristiano viejo”. O almeno, da quanto citato si evince il carattere di un cristiano orgoglioso della sua “limpieza de sangre”, orgoglioso di difendere (o di aver difeso) l’Impero e la Corona con la spada e con la croce (rimettendoci anche la mano sinistra). Come al solito, anche sulla religiosità di questo autore così “misterioso” nonostante i molti dati che abbiamo a disposizione la critica si è divisa: c’è chi, come Américo Castro, considera l’autore un “converso” disilluso e disingannato che guarda la Spagna imperiale ormai al tramonto con pessimismo trattenuto. C’è chi invece, studiando soprattutto l’ultima scena del Quijote, il suo ritorno a casa, il suo rinsavire e il suo morire “cristianamente” come esempio evidente della ortodossia dell’autore. I dubbi restano anche nell’ultimo ritratto da vivo che Cervantes ci regala nel prologo all’ultima opera (apparsa postuma), ossia a Los trabajos de Persiles y Sigismunda: tutta la critica ha notato lo strettissimo arco temporale in cui Cervantes scrive la dedicatoria e il prologo in onore al suo mecenate, il Conde de Lemos, e la data in cui emette l’ultimo respiro: è il 19 Aprile del 1616; di lì a quattro giorni l’autore sarebbe spirato (secondo alcuni la data incerta della morte oscilla tra il 22 e il 23 Aprile; se fosse valida la seconda ipotesi allora ci troveremmo davanti a una fearful symmetry, a una “spaventosa simmetria” (per dirla con Frye), perché quella è anche la data di morte di William Shakespeare – due classici che scompaiono nello stesso giorno, gran sfortuna per la cosiddetta Weltliteratur):

Ayer me dieron la extremaunción y hoy escribo ésta; el tiempo es breve, las ansias crecen, las esperanzas menguan y, con todo esto, llevo la vida sobre el deseo que tengo de vivir

Se dobbiamo prendere alla lettera queste parole, allora vuol dire che Cervantes è davvero “in punto di morte”: ha già preso il sacramento dell’Estrema Unzione; sta per guardare in faccia la morte, eppure… “vivo la vita – o anche: conduco la vita – con il desiderio che ho di vivere”. C’è poco tempo, gli restano forse pochi giorni o poche ore, e a cosa pensa Cervantes? Al desiderio di vivere. Non solo: alla voglia che ha di continuare a scrivere e a pubblicare le opere che, per ora, non ha fatto in tempo a far stampare. E le elenca: Las semanas del jardínBernardo – la seconda parte della Galatea, dedicandole, in anticipo, a Vossignoria il conte di Lemos…

Il prologo vero e proprio drammatizza e narrativizza un ultimo, probabilmente fittizio, incontro di Cervantes con un giovane studente: questi lo incontra per caso per strada e come ogni fan che si rispetti gli si avvicina pieno di timore e di stupore. Segno di riconoscimento: la mano sinistra fuori uso; prova a toccarla, questa non reagisce. Allora lo studente esclama: “Voi, siete proprio voi signor Miguel de Cervantes, el regocijo de las Musas!”. Cervantes risponde con certa autorità: sì, sono io, ma non sono solo la gioia o il divertimento delle Muse (ci lascia intendere che voleva diventare famoso non solo e non tanto come “autore del Quijote”, quindi, come autore comico, ma anche come scrittore serio). I due parlano. In realtà, è l’autore a condurre la conversazione verso un tema piuttosto triste: la sua malattia. Lo studente prova a dargli qualche consiglio, come se fosse un vecchio amico o un medico che dà la ricetta giusta per una pronta guarigione. Poi si abbracciano e si separano per sempre. E qui Cervantes scrive parole dal tono profetico (o apocalittico), anticipando un futuro che è ancora di là da venire:

Tiempo vendrá, quizá, donde, anudando este roto hilo, diga lo que aquí me falta y lo que sé convenía

Verrà un tempo, forse (e questo “forse” ha una carica enorme – nemmeno l’autore è poi tanto sicuro), in cui, riannodando questo rotto filo (il filo del discorso, ma anche: il filo della narrazione), dirò ciò che qui manca e ciò che so che conviene (o “conveniva” o “faceva al caso nostro”). Quindi: verrà il momento in cui potrà raccontare quanto lasciato in sospeso (si riferisce alla storia appena abbozzata dell’incontro con lo studente? O piuttosto alle storie che ha lasciato a metà e che, nella dedicatoria al suo mecenate, ha appena elencato? Non si sa). Poi, aggiunge l’estremo saluto, un saluto che è un addio agli amici, ai libri, alla scrittura e alla vita:

Adiós, gracias; adiós, donaire; adiós, regocijados amigos, que yo me voy muriendo y deseando veros presto contentos en la otra vida

Questo è quello che si aspetta Cervantes: di rivedere i propri amici contenti nell’al di là; di riassaporare le stesse gioie provate sulla terra; di rivivere gli stessi scherzi, gli stessi divertimenti che ha provato da uomo mortale come tutti in questa vita terrena…

A questo punto la domanda: "chi era veramente Cervantes?" resta ancora priva di una risposta univoca. Di certo, dai frammenti citati, si può dedurre l’immagine di un uomo che ha sofferto parecchio, che amava scrivere e che avrebbe continuato a scrivere anche in prossimità della morte e che amava molto la compagnia degli amici e il godimento epicureo dei piaceri della vita di quaggiù…

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